Un po’ come guardare il proprio funerale da dietro gli alberi del cimitero e la gente che dice quant’eri bravo e il vuoto incolmabile che hai lasciato O magari non dice per nulla quant’eri bravo e il vuoto incolmabile che hai lasciato, e anzi balla con rinnovato vigore sulla tua tomba.
Comunque sia, una sensazione assai strana davvero.
Oggi trenta gennaio Ho avuto delle allucinazioni pornografiche o veramente in viale Certosa e corso Sempione sono apparse le affissioni dei costumi da bagno Triumph (featuring Alena Seredova o come accidenti si chiama)? Capisco che non ci siano più le mezze stagioni, ma - ugualmente - non è un po’ presto? |
Eins zwei drei vier funf sechs sieben acht Questa sera su CBS la seconda puntata di Numb3ers. Che è una specie di sub-CSI, e promette bene per almeno due ragioni: è prodotto da Ridley Scott, e il protagonista è Rob Morrow, che una decina di anni fa faceva il dottor Fleischman in Northern Exposure (qui da noi: Un medico tra gli orsi). Ciò che rischia di farla diventare una serie di culto è la apparentemente folle e anti-televisiva premessa teorica: risolvere i casi attraverso la matematica. Teoria del caos, calcolo probabilistico... cose così. Il fratello del protagonista è una specie di genio: abbastanza dissociato (pare che il suo più grande problema sia “ridefinire la realtà”) ma acutissimo. Sarebbe fantastico - e definitivamente culto - se tra gli inserzionisti fra qualche settimana cominciassero a comparire college e università (vantando le “straordinarie classi di matematica” a disposizione degli iscritti...). Qualche informazione in più la trovate in questo articolo di Joy Press (fra l’altro moglie di Simon Reynolds, dunque respect) per il Village Voice.
E già che si parla di televisione: ci tenevo a farvi sapere che ho un nuovo show televisivo preferito e un nuovo sex symbol. E che le due cose - che gran comodità - coincidono: le trovate tutte e due qui.
(si, il titolo del post è una citazione dei Kraftwerk.) |
“Che avete tutti quanti ancora da parlare di dance?” «Today's sharpest contemporary dance music operators, like Tiefschwarz or LCD Soundsystem, are roughly equivalent to recombinant rock auteurs of the 90's like PJ Harvey and Pavement, who generated sounds that weren't strictly innovative but managed to somehow feel original.»Simon Reynolds qualche giorno fa sul New York Times, in un realisticamente pessimistico articolo sull’irreversibile crisi della dance. Sul suo blog ci sono anche i pezzi di articolo che il caposervizio del NYT gli ha tagliato... Questo sembra abbastanza interessante: «Today, electronic dance music has reached a strange moment akin to rock in the Nineties, when it feels like there’s no clear direction forward. Grunge, to take just one example, didn’t dramatically expand the boundaries of rock form, but nor was it a straightforward revival or retro-eclectic pastiche.» Il tema lo si era affrontato anche da queste parti, tempo fa, arrivando a conclusioni non molto dissimili. Casualmente sulla stessa traccia (ma cercando di immaginare la fine della crisi e quello che sucederà dopo), il nuovo ingresso in cima alla colonnina di sinistra parla invece del futuro della nozione di djing alla luce di come le tecnologie stanno cambiando il nostro modo di archiviare la musica e rielaborare la memoria. |
Come dire tutto e il contrario di tutto sul conto di Moby e risultare comunque sempre credibili (forse)
Dice Mobi alla competente platea oggi riunita all’ora del desinare nel raffinato ristorante design poco lontano da Porta Romana: «la rivoluzione elettronica sta portando a concentrare tutta l’attenzione sulle singole canzoni, quando invece è l’album il veicolo attraverso il quale un artista può sperare di generare delle “visioni” in chi ascolta». La competente platea ha appena terminato di desinare ascoltando, nel frattempo, la più recente Visione del Mobi (così recente che il Mondo non la conosce ancora: la conoscerà il prossimo 11 marzo). La competente platea, che d’ora in avanti chiameremo “competente platea di commensali”, è chi più chi meno abbastanza concorde sul fatto che le gambe sotto al tavolo e un fumante piatto di zuppa di farro davanti al naso (menù vegano in omaggio al Mobi) è forse l’unica condizione in cui una persona può umanamente accettare l’idea di ascoltare da cima a fondo una Visione del Mobi. Le Visioni del Mobi hanno, da qualche anno a questa parte, la caratteristica di essere composte di: un Pezzo Riuscito, che in genere evoca in maggiore o minore misura una versione plastificata del fantasma di David Bowie periodo berlinese; un numero imprecisato e in genere variabile da otto a nove di Canzoni Inutili che riprendono indistinguibilmente la medesima unica blanda intuizione melodica del Pezzo Riuscito di tre visioni fa; una Mortifera Ballad il cui nome si commenta da sé e una Cagata Di Pezzo, in genere strumentale, dove il Mobi collega insieme tutte le tastiere che ha in casa e riesce a far rimpiangere (ma rimpiangere colle lacrime agli occhi) persino la fase metà anni Ottanta degli Alan Parson’s Project. Nel nuovo album Hotel la Cagata Di Pezzo è strategicamente posta in apertura, come intro, così uno si toglie il pensiero. Certo: che la rivoluzione elettronica paventata dal Mobi possa impedirci - in futuro - di poter prendere visione della sua Visione è un pensiero che fa quasi passare l’appetito. Per fortuna che ce lo ha detto dopopranzo.
E a proposito di dopopranzo. Ben in là nel dopopranzo, diciamo verso le ore diciotto, è invece successa la solita cosa in seguito alla quale le righe che avete appena letto verrebbe quasi voglia di non averle scritte. Si è incontrato Moby: per mezz’ora, on behalf del Molto Diffuso Supplemento Femminile. E come la volta scorsa tre anni fa Moby è stato un conversatore divertente e tutt’altro che privo d’arguzia (l’esatto contrario dei suoi dischi insomma). Si può dissentire con lui per mille ragioni, si può essere indisposti dal suo semplificare, talvolta, discorsi che di tutto meno che di semplificazioni avrebbero bisogno (tipo la questione droghe, e pure la fastidiosamente snob e stereotipata - per quanto condivisibile - critica all’America «che ha dimostrato di non meritarsi una persona intelligente come Kerry, e si affida invece ad un ex-culturista austriaco»). Da vicino però, quando forse non si sente compresso nel suo ruolo pubblico di Persona che Parla alle Masse, Moby lascia trasparire anche una assai graziosa (aka naif) e molto rarefatta forma d’ironia e di autoironia che è più - sembrerebbe - di una semplice posa. In un celebre elzeviro di alcuni anni fa Sergio Messina si divertì ad accusare Moby di essere l’epitome del paraculo. Io, pur non faticando a riconoscere nei suoi dischi radicate tracce di paraculaggine (ma forse pigrizia più ancora che paraculaggine), e pur inquietandomi la sua totale completa assenza di glamour (laddove con glamour qui si intenda l’accettazione del proprio ruolo pubblico di “star” senza doverne per forza prendere le distanze ad ogni parola), ciononostante, per quel che ho visto nelle due mezze ore in cui ci ho avuto a che fare nell’arco degli ultimi tre anni, difendo la buona fede del soggetto, e sono convinto che ad averci modo e tempo ci si potrebbe pure scoprire amici. Esagero: tornando verso la metró Porta Romana, stasera, fantasticavo su quanto potrebbero trovare reciproci motivi per piacersi - e i discorsi pure sensati che ne verrebbero fuori - se una sera lui e Sergio Messina si dovessero trovare, chessò, alla Pergola.
Ciò detto, il disco è una roba talmente pomposamente noiosa che al confronto Anastacia sembra i Crass.
[Qui il pezzo dei New Order di cui Mobi offre una soporifera versione nel nuovo album] |
Ma no signor Agente, le giuro, farò al massimo dieci contatti al giorno, forse undici Rispetto e solidarietà a Moistworks (ammesso che il link funzioni ancora), il primo mp3-blog vittima della moribonda e vendicativa discografia terrestre. Già si intravede all’orizzonte la versione splinder dell’archetipa scena cinematografica in cui gli agenti bussano alla porta e il pusher butta la roba nel cesso tirandoci dietro l’acqua: «cazzo, una mail della Siae, presto, deleta, deleta!»
Poichè sarà il rock’n’roll a salvare il mondo Lui sembra Mark E Smith dei Fall da giovane, e in bello. Lei sembra Chiara Caselli se Chiara Caselli avesse mai sospettato dell’esistenza del rock’n’roll. Sul giornale di cui vedete la copertina qui sopra rilasciano dichiarazioni assai cupe riguardo la loro esistenza fino ad oggi e il complicato legame di dipendenza reciproca che sembra legarli l’un l’altra. Ad esempio: «When we wrote our first album we had no money, no friends, no deal, only each other. We wanted to try and recreate that feeling of desperation and isolation». Li si è visti ieri sera in sovraffollato showcase milanese e, sí, sono sicuramente un fantastico caso psicotico, oltre che straordinariamente fighi, anche se parlando di figaggine va detto che ancor più di loro lo è la loro batteria elettronica, che sembra la batteria elettronica di Bo Diddley se mai Bo Diddley ne avesse avuta una. Tutte le info sul disco in uscita qui.
Andy Weatherall era un coatto ...E per quanto ne so potrebbe ancora esserlo. Intendevo verificare di persona stasera, ma poi, sapete com’è: fa freddo, ho sonno, ho fame, sono solo al mondo, c’è un centimetro di neve ghiacciata sul lunotto della macchina, avrei un tot di lavoro arretrato che amerebbe essere smaltito e soprattutto domattina all’alba devo intervistare un gruppo il cui nuovo album è destinato ad aggiungere nuove inesplorate frontiere di significato al termine "disco inutile".
Ma voi, lì fuori nel mondo reale, andateci: il mix album che AW ha fatto due mesi fa per FabricLive era bellissimo.
[Update: chi c‘è stato mi dice essersi trattato di un’esperienza «istruttiva». O forse ha detto «distruttiva» ed ho capito male io?!?] |
Riceviamo e volentierissimo pubblichiamo Il grande ritorno di Billy Idol.
L'indimenticato protagonista della scena punk rock internazionale tornerà sulla scena verso fine Marzo con un nuovo album, intitolato Devil's Playground, a distanza di ben dodici anni dal suo ultimo lavoro discografico.
Per questo atteso ritorno Billy Idol ha deciso di ricostituire il team vincente di Rebel Yell, il suo album più fortunato, vale a dire il chitarrista Steve Stevens ed il produttore Keith Forsey.
Stevens, funanbolico virtuoso delle sei corde fu protagonista oltre che nei dischi di Idol, anche in Bad di Michael Jackson, dove suonava nella graffiante Dirty Diana.
Forsey è un aficionado dell'ex leader di Chelsea e Generation X (le prime due bands di Billy Idol) avendo prodotto tutti i suoi dischi di maggior successo. Nel suo invidiabile curriculum ricordiamo la produzione di albums dei Simple Minds, Pat Benatar, Psychedelic Furs, Joe Cocker, oltre a Colonne Sonore famosissime come quelle di Ghostbusters, Breakfast Club e Beverly Hills Cop.
Devil's Playground segna dunque il ritorno di un team di lavoro già molto affiatato per un disco che si annuncia decisamente aggressivo.
L’indimenticato protagonista, l’atteso ritorno, il team vincente, il funanbolico virtuoso, la graffiante Dirty Diana, l’invidiabile curriculum, il team di lavoro già molto affiatato, il disco che si annuncia decisamente aggressivo, la discografia che va a rotoli.
I ♥ NY No, non è un post. È che ho trovato in rete i codici html per fare un po’ di caratteri strani tipo le croci, le frazioni e le ö di Björk, e volevo vedere se funzionavano. Potevo scrivere “I ♥ Troffie” (al paese mio usa, ci stanno gli adesivi sulle macchine), ma mi ha come sfiorato il dubbio che NY fosse più cool. |
Il diavolo e l’acquasantiera (basta mettersi d’accordo su chi è il diavolo e chi l’acquasantiera) Nel corso delle ricerche per il Corposo Pezzo di cui si diceva nei giorni scorsi, quello sulla scena del clubbing a NY negli anni Settanta, trovata questa curiosa foto scattata nel 1977 allo Studio 54. Sì, lei è una Madonna pre-pubescente. Si, lui è un William Burroughs incartapecorito come probabilmente già era anche a dodici anni. E insieme sono bellissimi. |
Un giorno le canzoni che sentivi da adolescente diventeranno realtà C’è Stan Ridgway che fa uno showcase al negozio di dischi & libri di controcultura e abiti da skater (d’ora in avanti, NDLCAS) al centro di Milano. Che faccio, me lo perdo? Certo che no. Convoco amici d’infanzia fidáti che possano capire la portata dell’evento e alle sei e mezza sono già lì. Entro e rimango aboccaperta trovandomi di fronte una riga di vecchiazze del tipo che uno se l’aspetta alla prima alla Scala o alla vernice della biografia di Bob Dylan [e sia chiaro per tutti: se sono anch’io già vecchiazza come loro - ma non credo - per favore non abbiate pietà e uccidetemi. Dico a te, giovane salmone]. Riflessione #1: l’ultima volta in cui ho messo sú un disco di Stan Ridgway di mia volontà (cioè non per poter successivamente declinare con cognizione di causa l’ipotesi di una recensione, «ché di cognome mica faccio Carù, mica scrivo per L’Ultimo Buscadero») era, per l’appunto, un disco, cioè i cd ancora non li compravo, forse ancora nemmeno li vendevano. Riflessione #2, oddio, se ’sti qua sono così vecchiazze vuol dire che Stan sarà ormai una Supervecchiazza Totale. Eccolo che arriva, colla chitarra, annunciando che gli hanno perso tutti i bagagli inclusa la tastiera con cui avrebbe voluto intrattenerci. Non è mica messo male: si tiene, e comunque c’ha una voce che lévati. Una voce che in altri tempi il Mucchio avrebbe scritto che «ci si fa i gargarismi con l’asfalto sbriciolato tutte le mattine». È appesantito nei modi più che nella figura. Tra un pezzo e l’altro racconta storielline su LA che per metà non mi fanno ridere e per metà nemmeno seguo, perchè nel frattempo mi metto a leggere Tutto Quello Che Sai è Sbagliato 2 prelevato da uno scaffale del NDLCAS. Mi accorgo che lo showcase è finito dal rumoroso arrembaggio delle vecchiazze cdmunite che reclamano autografi & simpatia. E a questo punto, anche se fuori fa un freddo porco, come fosse quasi un doveroso omaggio faccio quello che ho fatto migliaia di altre volte, con qualunque stato d’animo, con qualunque tempo, in tutte le città in cui ho abitato e anche in quelle in cui non ho abitato, quasi sempre pensando all’omonima canzone. Stavolta ho visto negli occhi la persona che l’ha scritta. E adesso è abbastanza chiaro che era solo per questo che ero venuto.
(qui la voce che fa i gargarismi con l’asfalto in uno dei suoi momenti di massimo fulgore) |
Ali Shuffle, Ali Shuffle, hey, hey Avevo lasciato un maraviglioso comment su Loser, ma avendo sbagliato la tag di un corsivo Tiscali mi ha cortesemente avvisato di tornare alla pagina precedente e correggerla. Tornato alla pagina precedente del maraviglioso comment non v’era più traccia. E visto che sono vendicativo (oltre che consapevole del fatto che maraviglioso come nella prima stesura il comment non mi sarebbe mai più riuscito) esporto tutto quanto chez moi.
Allora: pare che da un po’ giorni l’argomento più scottante in città sia se il neopresentato (alla convention Apple di San Francisco) iPod Shuffle rappresenti oppure no un’evoluzione nei modi di consumo della musica, e in particolare se tale evoluzione non rappresenti un pericolo per il nostro modo tradizionalmente consolidato di fruire la musica. Pepperepè, entri il colpevole: un cosetto grande come un portachiavi che funziona come un iPod (cioè ci puoi caricare un tot di giga di mp3) con la differenza che, essendo “basico”, non puoi decidere più di tanto se e quali dei pezzi caricati ascoltare. Anzi, non puoi deciderlo per niente: decide lui, in modalità (per l’appunto) shuffle.
Ecco: qui in particolare si teme che l’avvento della modalità shuffle venga a privarci del nostro libero arbitrio, cioè della possibilità di scegliere noi la musica che ci va di ascoltare momento per momento all’interno di una giornata. Che evidentemente è un problema che non si pone (se non come paradosso), perchè nessuno ci obbliga a prendere per buona la modalità shuffle se non ci piace: oltre ai cd, alle cassette, ai dischi in vinle ed agli mp3 di Soulseek ci sono ancora in giro gli iPod in cui puoi decidere tu, manualmente, la playlist... L’articolo originale sull’argomento - quello dal quale è partito il dibattito - parla di musica che «non è più fatta di canzoni di cui conosciamo il nome e l’autore», ma questa non è esattamente una novità. lo Shuffle non cambia il rapporto musica-ascoltatore, ma prende atto di modalità già esistenti da decenni e più che mai adesso. Quando Raffaello Malinverni da Carugate si compra Molella presenta: Deejay Parade volume XXVII non gliene frega una sacrosanta cippa di che pezzi ci siano dentro, anche perchè l’ascolterà principalmente sul potente impianto della sua Nissan X-Trail andando e tornando da casa della fidanzata Federica Lo Bruzzo. Gli interessa solo che dentro ci sia lo stesso suono che egli ascolta ogni sabato notte al “Bolgia” di Osio Sopra (BG), inclusi quei due o tre ritornelli stagionali pompati in daytime su M20 e Disco Radio. Quali siano i titoli o gli interpreti dei ritornelli è un problema che non lo sfiora, nemmeno nei suoi momenti più marcatamente filosofici. Del resto Molella fa di tutto perchè Raffaello non debba preoccuparsi: ad ogni cambio di stagione gli assembla un comodo cd dove ci sono dentro già tutti i ritornelli che andranno di moda nei sei mesi successivi. Con lo Shuffle cambia solo il media dentro il quale Molella gli rovescerà quintalate di, ehm, musica: un portachiavi della Apple anzichè un dischetto di metallo.
I personal shopper che riempiono di mp3 gli iPod di avvocati assai trendy ma con poco tempo (e voglia) di mettersi a trafficare con cd, iTunes e portachiavi sono per ora un fenomeno folcloristico limitato alla sola Manhattan, ma è ovvio che il tutto è destinato a espandersi, ad esplodere. Per questo non sarà la modalità shuffle a rendere obsoleti i dj o i programmatori radiofonici o i giornalisti musicali. Ci saranno sempre quelli che passano le loro giornate ad ascoltare dischi dei The Dears, solo che adesso quell’unica canzone dell’album con il crossover potential (che cioè potrebbe piacere anche a chi non ha particolarmente a cuore le sorti della scena indie-rock canadese) anzichè - o oltre che - suonarla a Radio Città e la sera al Covo, la infileranno anche nello Shuffle di qualche architetto con molti soldi e poco tempo.
Il mondo è pieno di gente per cui la musica è un piacevole sottofondo del quale non è necessario sapere titolo, autore e numero di catalogo: questa è la ragione per cui - e io ancora oggi non smetto di stupirmene - noi “esperti musicali” ancora godiamo di uno straccio di credito in società. Pare che sapere (e saper dire) chi è che canta la struggente canzone in testa e in coda a Closer in certi ambienti sia ancora uno skill sociale pazzesco. Roba che ti guardano come fossi un premio nobel. Perchè, ricordiamocelo, alla gente in massima parte non frega delle cose che per noi sono così centrali. «Scusa, mi metti il pezzo della Fiat Ducato?» ci sentivamo ripetere noi diggeis qualche anno fa da gente a cui - incredibile ma vero - non poteva fregare di meno che quel pezzo si intitolasse A Message To You Rudy, che lo cantassero gli Specials, che avesse un messaggio politico ben preciso e che fosse stato originariamente inciso da Dandy Livingstone nel 1967. Del resto il mondo è pieno di gente che anzichè mettersi a trafficare con lievito e lattine di pelati la domenica sera alza il telefono e ordina una margherita con doppia mozzarella da Tipico (io sarò uno di loro, appena ho finito con questo post). E qualcuno potrebbe dire che invece, no, bisogna fare la pasta la sera prima, lasciarla lievitare tutta una notte, coprirla con un panno di lana, e i pelati - che orrore - non userai mica quelli in lattina vero? si?!?
Certo che si. Non ho mica tempo da perdere in cucina, io. Non sono mica un’utente-Shuffle. Devo sentire centinaia di dischi ed mp3 che mi permettano di essere all’altezza delle aspettative che la Società ha su di me.
(E per la cronaca entro domattina devo anche finire il Sostanzioso Pezzo sugli anni d’oro della disco a NY per RS, che se ritardo ancora la consegna stavolta mi sciolgono contro i cani, quindi il parallelo tra lo Shuffle e gli orologetti di plastica ve lo faccio un’altra volta, ciao.) |
Mash up for the gifted child/2 (da La Repubblica di oggi:) Titolo: Un giornale unico della sinistra? Svolgimento: «È un sogno come quello di Martin Luther King. E si può realizzare» dice il direttore dell’Unità Furio Colombo, entusiasta. Opposto e assai rude il parere di Gabriele Polo, direttore del Manifesto (...) Il sasso nello stagno della stampa di sinistra lo ha lanciato Piero Sansonetti, una vita al “quotidiano fondato da Antonio Gramsci”, una seconda vita, quella attuale, da direttore di Liberazione: facciamo il giornale unico, invece delle liste unitarie e dei partiti unici... (etc.)
Ecco fatto: ci voleva tanto? Oddio, certo, adesso qualcuno romperà le balle che un nome così rischia di «alimentare il clima d’odio, allontanare sempre più le parti da un sereno e costruttivo confronto, e soprattutto riporta di attualità errori che credevamo consegnati ad una delle pagine più nere della sinistra e della democrazia tutta»: però ve lo immaginate l’impatto in edicola? e Sergio Muniz scelto come testimonial? e il titolo di EmmeBi se il giornale non gli piace («Una pallottola spuntata»)? Per il direttore non c’è problema, c’è già pronto il mash-up anche lì. Piero Polombo, che - oui - sembra il nome d’arte di uno spogliarellista da balera di provincia («per l’addio al celibato di Francesca abbiamo chiamato Piero Polombo»), ma è anche così che ci si mantiene in contatto con la base, no?
Penso alle cinque ore di sonno della notte scorsa come ad una breve riga di codice in mezzo alle tag < Black Strobe > e < /Polly Paulusma > Black Strobe ai Magazzini Generali, ieri sera. Sono il fenomenuccio electro francese degli ultimi due-tre anni: incidono con Trevor Jackson, remixano i Rapture, citano gli Eighties eccetera eccetera. In realtà i loro dischi non sono niente de che, ma quello dei due che si chiama Ivan Smagghe come dj è piuttosto bravo. Almeno: l’unica volta che l’ho sentito era stato bravo, e le compilation che ha buttato fuori copiose nell’ultimo anno e mezzo sono tutte buone (un misto di acid-house, revival dark-wave ed electro). Bisogna solo smetterla di alimentare questa voce che sia la risposta francese a Vincent Gallo. Non è vero: visto da vicino assomiglia più a un Gesù Cristo, ma più basso e meno fico rispetto al Gesù Cristo dell’iconografia cattolica. Comunque la vera rivelazione estetica (e forse anche estatica) della serata è il suo socio, Arnaud Rebotini. Un uomo che sembra uscito dieci minuti fa dalla sala prove dei Neon, o dei Pankow, o di un qualunque altro gruppo della scena new wave fiorentina tra il 1980 e il 1982. La foto qui non gli rende giustizia: è veramente il corrispettivo new wave di quelli che si mettono il costume da Elvis Presley @ Las Vegas e cantano Love Me Tender picchiandosi il diaframma per ricreare l’inconfondibile effetto vibrato. Non ho dubbi: dopo che Dj Hell si è playboymansionizzato, Arnaud Rebotini diventa seduta stante il mio Nuovo Inconfutabile Idolo Estetico. (Peccato solo che il dj set fosse entusiasmante come avere un cartoccio del pane in testa mentre una banda di naziskin portoghesi abusa di te con arnesi dalle fogge più ricercate: ma immagino fosse perchè a me - che non sembra, ma sono un raffinato dandy - l’EBM faceva cacare già nel 1985)
Poi, stamattina, colazione con Polly Paulusma. Alle 11, nel bar del suo hotel. Hotel ubicato in corrispondenza della fermata del metro Porto Di Mare (linea gialla), il che vuol dire che non siamo ancora in provincia di Modena ma poco ci manca. Davanti ci corre l’autostrada. Deve avere anche lei dei sospetti sul fatto che l’hotel non sia esattamente dietro il Duomo, perchè mi chiede: «Are we still in Milan here?». Le rispondo: «Well, there’s a tube station ’round the corner, so it’s just matter of minutes to reach downtown». «Yes, but we’re not, like, in Camden, aren’t we?». «No, it’s more... High Barnet». «Do you know High Barnet?». «Never been there. I heard it on the public announcements. You know, “this train terminates at High Barnet”... For me High Barnet is like a place where you won’t ever go unless you strongly have to». «Oh, I see».
Polly Paulusma è una giovane cantautrice inglese (anche se non così giovane, ho come l’impressione) che ha da poco pubblicato il suo disco di esordio e sta per pubblicare un live il cui titolo è l’anagramma del titolo del disco di esordio. In Italia è abbastanza conosciuta perchè un suo pezzo sta nella pubblicità di una marca di gioielli: quella con lui & lei che fanno jogging ognuno per i fatti suoi e si incrociano, e il tempo si congela e quindi le loro figure astrali si slinguano per qualche minuto, e poi il tempo si scongela e ognuno per la sua strada arrivederci e grazie (come uno spot così menagramo dovrebbe far vendere degli orecchini è un mistero sul quale interrogarsi a lungo). Comunque Polly Paulusma mi vede arrivare, ci avevano presentati ieri sera al suo showcase a Radio Popolare, e le prime parole che mi dice sono: «You went clubbing last night?» «My god, does my face look so tired this morning?!?» «No, it’s just that... you looked like the type».
Il resto, prima o poi, nella simpatica colonnina di sinistra. |
Certo, che tristezza dire «buongiorno, mi da Repubblica?» e vedersi rifilare un fagotto di céllofan con dentro solo Salute, I Viaggi e TuttoMilano Mica per altro: I Viaggi l’ho sempre cestinato direttamente nel bidone bianco differenziato dell’edicola, di Salute leggevo solo e unicamente l’editoriale della sessuologa Roberta Giommi, e TuttoMilano mi fa da sempre una malinconia che fatico persino a trovare le parole per descrivervela.
Lì almeno c’era la posta di Serena Dandini.
Ah già, quella non c’era più da cinque anni.
(ma perchè hanno tolto la posta di Serena Dandini? Era così divertente. E pure le vignette di Ziche & Minoggio, ne ho persino conservata qualcuna. E vi ricordate i tempi gloriosi di Vincenzo Cerami editorialista? Daaai, quelli sì che erano tempi. All'epoca il venerdì mattina si faceva la "riunione settimanale allargata" anche con tutti i collaboratori, e dopo un po' di volte che vedevo ’sto tizio serio serio con un viso come un dolmén di Modigliani, che non parlava mai, io chiesi «ma chi è quell’uomo molto accigliato e qual’è il suo ruolo in questo giornale destinato ai giovani?», e mi fu detto «ma come, egli è il Famoso Vincenzo Cerami», al che io dissi «ah». Però una volta alla macchina del caffé ci scambiai due parole sul fatto che lo zucchero delle macchine del caffé è liquido, e lui fu Simpatico. Sul serio)
We didn’t call it “blog” at that time/4 Dormito dalle dieci e mezza del mattino alle quattro meno un quarto del pomeriggio, da un certo momento in avanti non so perchè (devo aver acceso la tv nel tentativo di svegliarmi) con Mtv accesa ai margini del livello di percezione. Alle cinque e qualcosa sceso a Trastevere per arrivare per tempo alla biglietteria del cinema dove davano Hana-Bi, così da non ripetere la via crucis di domenica scorsa. Fatto breve giro in centro. Hana-Bi è una specie di Pulp Fiction buddista; pieno di esplosioni di violenza ma al tempo stesso lentissimo, con uno strano sonoro che riempie i frequenti lunghissimi silenzi con il rumore del mare e del vento (e del silenzio) ad un livello leggermente più alto rispetto agli standard abituali... (non abbastanza per accorgertenene sul momento, ma abbastanza per registrare la differenza a livello inconscio, sotto forma di crescente inquietudine). E poi una toccante colonna sonora e ancora, come in Il Dolce Domani, scene di mondo seppellito da metri di gelo bianchissimo (qui un po' sporco, più avanti anche di sangue), e due bellissime stampe a colori di bambini giapponesi che guardano in una i fuochi artificiali e nell'altra lo spazio profondo.
Gatherded dei Rex guardando Aeon Flux su Mtv con il volume a zero. Aeon Flux è il primo (e auspicabilmente ultimo) caso di serie cartoon in cui forme parassitarie di insetti hanno un ruolo da co-protagonisti.
Sentito su Chill-Out Zone un bellissimo pezzo di drum'n'bass con il vocoder che, poi, si è rivelato essere Music in my mind di Adam F.
(domenica 11 gennaio 1998)
We didn’t call it “blog” at that time/3 Dormito un po' più del previsto, ma arrivato comunque in stazione ampiamente in tempo per prendere il treno per Bologna delle 15,05. Raccattato il nuovo The Face dove a occhio e croce non c'è nulla di interessante tranne una brevissima retrospettiva su Archigram (c’è una mostra a Londra), di cui scrivevo giusto qualche giorno fa: curioso. Tentato di leggere un'antologia di “giovani scrittori meridionali” curata da Goffredo Fofi, una cosa noiosissima. C'è una interminabile sit-com siciliana con madre anzianissima, malata e tirannica vs. figlia trentottenne zitella, drogata di fotoromanzi e tv berlusconiana: il trash degli stereotipi sul merdidione al quadrato, nonostante i tentativi di aldonovizzare. Si salva la favoletta di apertura: guaglioni tonnati incontrano sulla strada del mare baby-gnomi in cerca di scarpette di cristallo in cambio di fortuna eterna, ma la perderanno nel tentativo di scoparsi una in gruppo, e in più finiranno a frittura di pesce e vino, ma malissimo. Un po' noioso anche il resoconto su una scioglitrice di fatture fatto dalla regista Roberta Torre.
Arrivato a Bologna e subito fiondato alla Casa Del Disco per vedere se butta caso avessero copia del cultissimo quarto volume di The Son Of Cult Fiction, che però non c'era. Come premio di consolazione alla Feltrinelli International c’era invece la rivista più di culto del mondo intero, Grand Royal. Sfogliata da McDonald: non molto da campionare nei contenuti, ma grafica veramente stato-dell'-understatement. Poi al Link per la diretta su S&U. Le interviste con i dj inglesi devono essere uscite come una delle cose più noiose mai ascoltate alla radio italiana, ma Pete Lawrence mi ha regalato l'ultimo numero della rivista che lui edita, On Magazine, una sorta di «Mixmag under the belly» come dice lui, molto semplice graficamente e dalla copertina spaventosamente torva (sembra una di quelle fanzine industrial che giravano nell’85). Non male il motto: «One person's avant-garde is another's cultural mainstream». Nessuna folgorazione sessuale tipo quella della volta scorsa, solo una piccoletta colla frangetta che ballava a piccolisssimi passi in sala blu con addosso uno shell-suit dai riflessi verde-metallizzato. Incrociata più tardi da sola in zona bar. Si chiama Lela, Lola, Laila, una cosa del genere. Il nome della principessa in qualche clone tarocco di Guerre Stellari girato in Germania nel 1980.
Partito da Bologna alle quattro e venticinque. Mauro Boris mi ha accompagnato alla stazione con la sua macchina scassatissima targata Genova, raccontandomi di quando una notte anni fa un camioncino della consegna giornali non ha rispettato uno stop, gli ha tagliato la strada costringendolo a inchiodare e una sua amica che era con lui nel posto del passeggero ha preso una testata sul parabrezza (c'è ancora il vetro scheggiato a ragnatela). Viaggio di ritorno tutto con un fortissimo mal di testa. Da poco prima di Orte in avanti consueto spettacolo dell'alba, ma in un paesaggio totalmente avvolto dalla nebbia e dalla foschia (e in alcuni tratti credo anche da un po' di neve residua). Mondo-bianco... non vedi nulla tranne alcune sagome appena accennate di case e steccati agricoli; ogni tanto i fari di qualche automobile o motocicletta, e raramente le luci dei lampioni (ormai spenti)... Senso di freddo: chissà se guardare lo spazio fuori dagli oblo di una Soyuz fa un effetto simile. Molto trip-hop.
(sabato 10 gennaio 1998)
[a proposito di quanto si diceva giorni fa: allora era ancora fico definire “trip-hop” le cose lente e attutite...] |
Che pasticciaccio brutto, Bridget Jones! dal romanzo di: Helen Gadda
Bridget Jones (Zellweger) e Mark Darcy (Firth) sono fidanzati da appena sei settimane quando il loro romantico menage viene turbato da due gravi imprevisti: prima un furto di gioielli nella casa di Bridget a Chelsea, poi - pochi giorni dopo - il misterioso omicidio della stessa Bridget. È la medesima mano che ha sottratto i topazi di famiglia ad aver ucciso anche la giovane Jones? Se lo chiede Daniel Cleaver (Grant), ex capo di Bridget, single incallito e da sempre affascinato dalla sua solare femminilità. Il libro e il film seguono Cleaver nel suo viaggio alla ricerca della verità attraverso il versante più sordido della Londra di Tony Blair: un viaggio nel quale egli verrà a confronto con un universo grottesco e doloroso che attraversa e accomuna tutti gli ambienti sociali, dai raffinati avvocati che ricevono prostitute giamaicane nelle loro garçonierre a Primerose Hill alla sedicente comunità artistica “alternativa” che bivacca nei loft di Shoreditch. L’assenza di un epilogo o di una qualunque soluzione è il più efficace ed implicito atto di accusa dell’autrice nei confronti dei suoi personaggi e dello scenario nel quale essi si muovono.
(poi ditemi voi se Helen Gadda non è un nome perfetto da scrittrice Feltrinelli. Persino meglio di Simonetta Hornby Agnello)
Tempo di lettura previsto: undici secondi Da Vanity Fair (italiano) della settimana scorsa: «Il momento migliore per comprare un paio di scarpe? Nel pomeriggio. Lo afferma il dottor Saferin, un podologo dell’American Podiatric Association. Avendo camminato in mattinata, i piedi saranno sufficientemente gonfi per non darvi sorprese più tardi».
Skizo Dancer + Bangalter = too much heaven Lo so, lo so: è come il Natale, non puoi fare finta che non ci sia (o non ci sia stato). Insomma, uno di questi giorni bisognerà dire qualcosa di grandioso e definitivo sul disco di LCD Soundsystem: aspetto che escano le mie settecento battute su RS di febbraio così ve le appiccico qui e poi ci si ragiona un po’ attorno.
Nell’attesa - in un’ideale continuità d’ispirazione e (forse) weltanshaung - c’è questa cosa meravigliosa da sentire. È saltata fuori ieri o l’altroieri, non ricordo, da 20 Funk Jazz Greats, che sarà pure prolisso negli scritti ma c’ha decisamente gusto. Si chiamano Scenario Rock, fanno quella sorta di rilettura europea postmoderna del pop-rock AOR statunitense anni Settanta che - arrivando loro dalla Francia - è come incatenarsi al portone di NME con un cartello “qui nuovi Phoenix” attorno al collo. Qui c’è il loro sito, dove un po’ spezzettato c’è da sentire l’intero album. Il pezzo graziosamente succhiato a 20JFG è però un remix fatto da Thomas Bangalter, si il fichetto dei Daft Punk, che con la finta ignoranza degli Scenario ci è andato evidentemente a nozze e che ha lavorato di finesse secondo l’ormai noto trend di fare remix che sembrino perfettamene identici all’originale. Adesso scrivo una mail a Christian Zingales e se lui non ce l’ha ancora lo faccio rosicare tantissimo.
Il primo ascolto m’ha fatto proprio uscire fuori, e nondimeno ero convinto che al terzo mi avrebbe stufato. Invece per ora no, vediamo se dura.
(Update/1. data: mezzogiorno di martedì 11 gennaio. report: no, non mi ha ancora stufato) (Update/2. data: pomeriggio tardi di domenica 16 gennaio. report: no, continua a piacermi) |
Uno di questi giorni succederà qualcosa di veramente importante e io ne sarò completamente all’oscuro Con il terrore di chi ha fino all’altroieri basato la propria esistenza ed il proprio valore di mercato sulla conoscenza di ogni singolo nuovo rivolo delle musiche post-pop legate all’elettronica, apprendo dell’esistenza di tale Michaela Melian. Oddio - dico - me la si paragona al Dj Shadow di Endtroducing, me la si. Perchè non la conoscevo? Dov’ero il primo novembre scorso, quando il suo disco di esordio veniva pubblicato? Dormivo? Ecchecazzo, presto, presto, in giro per la rete a cercare di rimediare. E così, scaricando due cose e ascoltando le altre in frammenti di trentasecondi nei negozi online, scopro ad esempio di avere in casa un disco del suo gruppo, i F.S.K. (recensito mesi fa e poi abbandonato in fondo alla pila sullo scaffale più alto). Ma la conclusione è che lei non mi fa impazzire (anche se la cover dei Roxy Music cantata come-se-fosse-Nico, A Song For Europe, è strana assai). Ok: avrebbe bisogno del suo contesto d'ascolto. Non è scaricando due tracce e sentendone dei frammenti in giro che si capisce un disco che ha nella sua interezza (e lunghezza dei singoli pezzi) il proprio senso etc etc etc. Vero. Probabilmente è stata fuorviante l’associazione con Dj Shadow. Shadow nel contesto delle musiche elettroniche era quasi un act da pub-rock tanto era “materico”: tanto quanto Michaela è invece immaterica, o post-materica, o immateriale. Guardate, al limite a me Michaela va anche bene, ma è sul parallelo con Shadow che non mi do pace. Shadow era funkee; qui siamo proprio in scuole filosofiche diverse.
Per quanto, a proposito di continuità tra passato e presente dell’elettronica d’ambientazione... Ecco: l'altra cosa che mi veniva in mente - ed era lì che girava in aria da mesi, aspettava solo l’occasione di essere afferrata (eccola) - è che forse, invece, sarebbe davvero ora - adesso che sono passati un tot di anni - di riprendere in mano la mowaxianità tutta finalmente nella giusta luce. Cioè come paradigma di un modo così lezioso e innamorato della propria coolness di intendere la musica da essere, alla fine, spaventosamente superficiale: al punto di non essere sopravvissuto a sé stesso nemmeno sotto forma di ricordo nostalgico. Ne eravamo consapevoli, allora, nel biennio ’93/’95? Si e no. Tra di noi appassionati lo si diceva sottovoce, che certi singoli erano un po’ esili, che tutto stava cominciando a sembrare un gioco autoreferenziale, e che l’ambizioso tentativo di farsi percepire come una sorta di reincarnazione postmoderna della Blue Note - moltiplicando all’infinito la stessa intuizione stilistica (le copertine così come i dischi che stavano dentro alle copertine) - era destinata a morire affogata nella propria spocchia. Ed è vero, di tutti i fenomeni passeggeri del decennio scorso Mò Wax è forse quello che ha promesso di più e mantenuto di meno (se consideriamo che l’etichetta ha cessato di esistere ufficialmente nel 2002). Però in quel momento anche essere esili poteva sembrare un valore o un segno di modernità (per quanto debole, come l’omonimo pensiero), qualcosa che bilanciava il massimalismo di flanella del grunge. Qui uno scritto giovanile dove non si parlava direttamente di Mò Wax ma ugualmente si provava a descivere lo scenario emotivo in cui Mò Wax è nata ed ha prosperato. Qui invece uno scritto ancora più giovanile nel quale si era proprio in piena fascinazione mowaxiana e si cercava di vendere agli ignari lettori italiani la “dilatazione” come fosse chissà quale ficata (lo so, lo so: esistesse una Norimberga della critica musicale il mio nome sarebbe in cima alla lista).
It’s not you, it’s the BBC talking Ieri notte 2Many DJs su Essential Mix di BBC Radio1. Sono bravi come sempre, e anche di più. Considerando che tutti noi pretendiamo da loro che ci stupiscano come i primi tempi, ma non col vecchio trucchetto (ormai sfiatato, verissimo) dei mash-up. E loro allora superano sé stessi, e oltre al prevedibile fuoco di sbarramento electro schierano - ad esempio - una versione rock di Teachers dei Daft Punk registrata appositamente per l’occasione... (lo so, anche a me è venuto da dire «come WhoMadeWho con Benny Benassi», ed ovviamente anche loro l’hanno suonata). Sul sito di BBC1 fino a sabato prossimo si possono ascoltare in streaming tutte e due le ore di set (mentre la tracklist ufficiale ancora non è stata pubblicata). Qui, nel forum, indicazioni aggiornate in tempo reale su dove trovare il set da scaricare in mp3. E domani sera rincalzino a Studio Brussel, la radio dove i 2Many sono nati e dove hanno creato il loro famoso show Hang The DJ.
[Update: cialtroni! il dj set di Studio Brussel è IDENTICO a quello di BBC1, solo con il blocchetti di pezzi assemblati in ordine diverso...]
[Update/2: BBC ha finalmente messo online la tracklist]
[Update/3: qui alcuni giga di bellissime foto del concerto + dj-set dei Soulwax al Fabric di Londra lo scorso dicembre. Ci si può anche giocare a Dov’è Wally, volendo.] |
“Se non ci fosse la musica da discoteca si potrebbe anche pensare di farci un salto” Mezzanotte e un minuto. La prima canzone del nuovo anno è un involontario omaggio a La Fortezza della Solitudine di Jonathan Lethem, fantastica coincidenza. Play that funky music white boy, Lethem ci ha fatto una specie di tormentone del suo libro. Poi a mezzanotte e due minuti via, lungo vicoli che conosco come le eliche del mio Dna. Giù al porto antico, nel posto con il nome meno appropriato che fosse possibile avere in questi giorni (di peggio solo il ristorante “Le Due Torri” il dodici settembre 2001): Banano Tsunami. Un cubo di cristallo circondato per tre lati dal mare e incorniciato sullo sfondo dalle ex-banchine glamourizzate dell’Acquario: rispetto all’inferno di gente e botti che si sta scatenando per le strade qui sembra di stare all’Opera di Vienna per il concerto di capodanno. Dentro siamo pochetti, la maggior parte con l’aria (atterrita) di chi senza saperlo se l’è cercata. «Voi pensavate di divertirvi, vero?» dice da dietro un laptop un ossuto spilungone che parla come un incrocio tra Caparezza e Noam Chomsky, o tra Caparezza e un fuori sede libanese venuto qui a laurearsi in storia del pensiero scientifico, o tra Caparezza e uno sleeper di Al Quaeda (neanche poi tanto sleeper). Lui è uno degli Uochi Toki, che fanno una specie di post-rapitaliano, ma molto post, molto molto post, molto più post di come si possa spiegarvelo a parole, così post che in realtà lo associ al rap solo perchè lui ha una felpa col cappuccio e parla sopra a delle basi (pressapoco) ritmate. Dice cose di perquisizioni, del fatto che a casa non ha una caffettiera moka e non ha divani, altre cose che adesso non ricordo. Il fatto di essere così straordinariamente fuori asse rispetto al “capodanno” lo rende - in quel momento, in quel luogo - una specie di Titano. La sua missione di essere la cattiva coscienza dei presenti («Voi pensavate di divertirvi,vero?») è stanotte però fin troppo facile, e paradossalmente non così diversa da quella dei dj ufficiali nelle piazze ufficiali quando ricordano, per ordine del Comune, a intervalli di trenta minuti, che «mentre noi siamo qui a divertirci nel Mondo c’è Gente che Soffre». Se ne conclude che è il “divertimento” la cosa sporca di questi giorni: mica lo spreco, mica il fatto che anche lo scorso capodanno, e due e tre e dieci capodanni fa, nel Mondo c’era Gente che Soffriva. Poi, certo, lo Uochi ha pure ragione: uno viene qui, a capodanno, a sentire il post-rapitaliano militante, credendo di avere col “divertimento” un rapporto più sano e serenamente distaccato rispetto a quelli che si sono fermati dieci metri più in là, nell’adiacente pista di pattinaggio sul ghiaccio dove risuonano i botti e Raffaella Carrà. Ma non è così, e lo Uochi extraparlamentare ce lo ricorda, ci mette di fronte al paradosso che il nostro divertimento consiste proprio nella nostra incapacità di divertirci normalmente. La parola stessa (“divertimento”) implica un’idea di divaricazione, ed è come se al bivio noi si sia presa la strada che veniva qui anzichè quella che andava alla pista di pattinaggio, ma la differenza è irrilevante perchè la direzione era la stessa. Lo Uochi per primo lo sa bene perchè in fondo è uno dei nostri: la frase, memorabile, con cui conclude il suo Concerto di Capodanno, indicando la pista di pattinaggio sul ghiaccio perfettamente visibile in tutto il suo splendore attraverso le vetrate, è quella che intitola questo post.
spacezz
Stesso luogo, stesso tempo, cioè la mezzanotte e trenta minuti circa. Oltre allo Uochi, dietro una lunga tavola che ha qualcosa di un’ultima cena leonardesca, ci stanno anche altre persone. Una è Violetta, di cui già si è scritto tutto lo scrivibile; gli altri sono probabilmente altri Uochi Tokies. Senza nulla togliere allo Uochi parlante, i momenti migliori sono quelli in cui la musica prodotta dalla tavolata esce da sola, in primo piano. Ricorda molto quella che, quando chi scrive era bambino, nel 1983, veniva chiamata “musica industriale”. All’epoca la si faceva manipolando nastri a cassetta, microfonando pentole e casseruole e parlandoci dentro, facendo passare rudimentali tastiere monofoniche dentro pedali di effetti per chitarra. Oggi in teoria ci sono i laptop, ma la tavolata non ne abusa e sembra invece più orientata alla micro-elettronica vintage. Rumorazzi insomma. È curioso come mi sento di nuovo a casa tra i rumorazzi. Quando ascoltavo rumorazzi, un capodanno così - coi rumorazzi che hanno dignità di concerto di mezzanotte, nientemeno - era oltre la fantascienza. E fa abbastanza ridere godermi ’sti rumorazzi adesso, tanti anni dopo, da solo, circondato da facce che non conosco, nella stessa città in cui collezionavo dischi e cassette di rumorazzi che qui nemmeno si trovavano e che dunque ordinavo per corrispondenza in negozi specializzati a Firenze o Bassano del Grappa.
Mi sembra di essere finito in uno dei luoghi mitici della mia adolescenza. Nel giugno 1975 i Cabaret Voltaire - che all’epoca erano un trio di post-krautrock da Sheffield e non avevano ancora inciso nemmeno un disco - registravano una traccia intitolata Is That Me (Finding Someone At The Door Again) al Gibus Club di Parigi. Quel pezzo finì sul retro del singolo Nag Nag Nag, uscito su Rough Trade nel 1979 (e tornato di moda 23 anni dopo, nel 2002: c’è anche una serata electro-gay a Londra che si chiama così). Nel 1983, o forse nel 1984 io compro il singolo, una ristampa su sette pollici. La facciata A è puro e semplice punk elettronico, ma la B è la vera epitome del rumorazzo. E poi: dal vivo! Quella notte di giugno al Gibus di Parigi l’ho sognata per anni.
Penso (anche se è capodanno, ma lo Uochi parlante non lo saprà mai). Penso ai rumorazzi di oggi ed a quelli di ieri, penso al fatto che ad esempio chi fa rumorazzi oggi, come dice Lethem nella pagina che ho letto un minuto prima di uscire di casa (e qui il cerchio meravigliosamente si chiude) parlando di un rapper quattordicenne che il suo protagonista 38enne incontra in casa di una che si vuole scopare, «non aveva mai vissuto in un mondo senza rap». Gli Uochi e Violetta non sono mai vissuti in un mondo senza rap, senza Sonic Youth, senza Depeche Mode. Mentre i Cabs, essendo vissuti in un mondo in cui non c’era ancora il rap, non c’erano i Sonic Youth e nemmeno i Depeche Mode, hanno avuto il tempo di ascoltare i Velvet, i 13th Floor Elevator, il soul. Pomeriggi interi ad ascoltare Isaac Hayes. Come del resto io, non essendo ancora stati inventati né gli Styrofoam né la Morr, ho avuto pomeriggi interi per ascotare i Cabs, con calma. Non che gli Styrofoam siano spazzatura, certo. Dico Styrofoam per dire: poteva essere To Rococo Rot, Anal Cunt, Kings Of Leon, qualunque gruppo abbia aiutato a tappezzare di qualcosa ogni singola casella di silenzio negli ultimi trent’anni. Come nella battaglia navale, mano a mano che la situazione sul tavolo da gioco comincia a delinearsi da un lato smetti di sparare in mare aperto e ti concentri invece sulle caselle circostanti a quelle dove è apparso qualcosa, dall’altro sono in assoluto sempre meno le caselle vuote da riempire. Se è rimasto (almeno in apparenza) poco da scoprire, allora ci si concentra sulle sfumature del già esistente. Al massimo si diversificano le fonti. “La diversificazione aumenta la stabilità” dice una lettera prestampata della mia banca che guarda caso ora sta proprio qui, accanto al computer. Sono le otto del mattino. Buona notte e buon anno. |
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