Mile High Punk: ragionare sui Sex Pistols a 10.000 metri d’altezza
 

di: Fabio De Luca




Non per tirarmela da figo (la premessa preferita da chi intende tirarsela da figo tantissimo) ma sto scrivendo queste righe su un aereo in volo tra l’Italia e il Texas. Fra l’altro il capitano ha appena detto che "stiamo per incontrare delle turbolenze d’alta quota", quindi ho come l’idea che tra un po’ la voglia di tirarmela da figo mi passerà del tutto. Ma la premessa serviva per dire una cosa e soltanto una: e cioè che ho deliberatamente rimandato di scrivere questo pezzo fino a qui ed ora. E non tanto per (ripeto) tirarmela da figo del jet set (sono in una classe turistica della Delta che - credetemi - ha ben poco della allure aereomobile cui ci hanno cresciuto annate su annate di Wallpaper*), ma perché la situazione di sospensione spazio-temporale, di stiramento del tempo correlata al viaggiare da Est verso Ovest, è forse - oggi - il contesto migliore nel quale provare a scrivere qualcosa di sensato sul punk o su qualunque altro genere musicale. Qualcosa, cioè, che non sia viziato dall’incessante trasporto di detriti (ricordi, falsi ricordi, interpretazioni critiche) che ogni giorno che passa ci allontanano sempre più da quel luogo e quel tempo in cui si sono in origine svolti i fatti.

Ad esempio: nell’ultima mezz’ora stavo sfogliando il numero di GQ edizione inglese con Eva Longoria in copertina - dunque non esattamente una fanzine musicale - e la nozione di "punk" è sbucata fuori due volte. La prima in un breve articolo sulla recente (e a quanto pare significativa) crescita numerica delle case editrici indipendenti in Inghilterra; la seconda in un taglio basso della pagina tecnologica dove si segnalava la radio online aperta dall’ex-Sex Pistols Steve Jones (www.indie1031.com). Il tutto conferma una cosa che già si sapeva ma di cui è utile ricordarsi ogni tanto: il mondo "reale" ha perfettamente riassorbito la nozione di punk, e non solo nel senso comunemente inteso (deteriore) di gruppi pop che mettono in scena oggi l’imitazione dell’imitazione di un repertorio di gesti e teatralità vecchi (se va bene) di trent’anni. Il riassorbimento più interessante è quello che riguarda la nozione di punk nella sua accezione più vasta e complessa, che non era fatta solo di sputi, rock veloce e spille da balia. Ciò che l’articolo di GQ sull’editoria indipendente suggerisce (fin dall’incipit: "Are books abouto to go all punk?") è che la libera iniziativa, il decidere di muoversi fuori dai circuiti consolidati del mercato, possano essere interpretati come un lascito dell’etica D.I.Y. punk e post-punk inglese. Probabilmente non è proprio così (la nuova editoria indipendente di cui parla GQ suona più come una forma di libera imprenditoria thatcheriana riveduta e corretta per un mondo post bolla new-economy), ma è interessante che la scorciatoia scelta da un media ad alta diffusione per spiegare il fenomeno sia di creare un ipertesto semantico con il punk.

Due settimane prima un altro mensile inglese, il meraviglioso Observer Music Monthly, in uno speciale sui trent’anni dal 1976 (anno di nascita dei Sex Pistols) ragionava con divertita arguzia su come il sistema di trasmissione del punk fosse, allora, paradossalmente perfettmente identico a quello del pop più massificato di oggi: "l’attitudine, il taglio di capelli e la creazione pubblicitaria del fenomeno contavano esattamente quanto, se non più, la musica pura e semplice". E’ evidentemente il tipo di riflessione che si riesce a fare soltanto a trent’anni di distanza (e a diecimila metri sopra l’Oceano Atlantico). Ci è piaciuto - per anni - pensare al punk come all’ultima vescica di onestà in attesa dello smutandamento globale yuppie, invece era solo la prima avvisaglia della (post-)modernità che arrivava. Bastava guardare Malcom McLaren del resto: che se oggi avesse ancora uno o due neuroni al posto giusto si inventerebbe la Shakira definitiva (anziché tenere panels noiosissimi e strapagati per CEO in vena di sensazioni forti). Banstava non fermarsi alle apparenze per intuire come l’estetica della crisi, dell’emergenza sociale, messa in scena da Richard Hell negli Stati Uniti o dai Clash in Inghilterra fosse talmente uguale e contraria alle carnevalate della disco-music da essere evidentemente l’altra faccia della stessa medaglia. Da una parte si enfatizzava la crisi, dall’altra la si negava tout-court. Una naturale predisposizione agli opposti estremismi che - come sottolineato in un recente carteggio online tra la rivista Slate e il critico musicale Simon Reynolds (di prossima uscita italiana per ISBN il suo bellissimo Rip It Up and Start Again) - spiegherebbe anche, più della classica tesi sulla "provocazione", la coesistenza nell’immaginario del punk originale di istanze d’ultra-sinistra e paraphernalia filo-nazi.

La parola"punk" esiste, anche se trent’anni dopo siamo passati dai Sex Pistols che bestemmiano in diretta tv da Bill Grundy agli ex-Pistols (John Lydon nello specifico) che vanno all’Isola dei Famosi. Tra Sex ed "ex" c’è solo una "s" di differenza: a voi il compito di decidere per cosa sta. Da qui sopra, a diecimila metri d’altrezza, sembra tutto molto chiaro. Soprattutto - fiuuu - ora che la turbolenza d’alta quota è finita.

(da: Hot, aprile 2006)