Me and Alan McGee: le etichette che hanno fatto la storia da Rough Trade alla Creation
 

di: Fabio De Luca



"We were here, now we are gone. Thanks for all your support"
(attuale home-page del sito www.creation.co.uk)

1.
Per i tre quarti abbondanti della popolazione terrestre "ascoltante musica alternativa" l’ultima volta che è successo di leggere le parole "Rough Trade" stampate sull’etichetta di un disco potrebbe ragionevolmente essere stato in occasione dell’uscita della raccolta Louder Than Bombs degli Smiths. Era il 1988, e in televisione c’erano ancora le repliche di Dallas e Love Boat. Nel giro di un paio d’anni Rough Trade sarebbe morta, sepolta dai debiti e (probabilmente) dall’esaurimento del proprio compito. Ora però capita di aprire The Face (novembre 2000, pag. 48) e trovarci la foto di Licca Chan - che è l’equivalente giapponese della Barbie occidentale - abbigliata da piccola indie-Britney con tanto di sacchetto dei dischi "Rough Trade" (contenente incredibili gioiellini di vinile in miniatura). Come risvegliarsi da un lungo sonno e scoprire che, tutto sommato, il mondo è rimasto quello di sempre. Solo che in questo caso la spiegazione è un po’ meno romantica: il prossimo febbraio infatti, il 23 per essere precisi, Rough Trade intesa come negozio (quello di Talbot Road a Londra, con succursali a Covent Garden e Tokyo) compirà venticinque anni. L’omonima etichetta ne compirebbe due di meno, avendo inaugurato il proprio catalogo nel 1978 con i Metal Urbain immediatamente seguiti da Augustus Pablo e Cabaret Voltaire (per quanto riguarda i singoli: negli album il via l’avrebbero un anno più tardi gli Stiff Little Fingers). Il sito www.roughtrade.co.uk precisa però che Rough Trade intesa come negozio non ha nulla a che fare con quel che resta di Rough Trade intesa come etichetta, "pur conservando eccelenti relazioni con tutte la parti in causa". E, per inciso, invita chiunque abbia foto "turistiche" scattate in questi anni fuori o dentro il negozio di Talbot Road, ad inviarle per la fantastica mostra retrospettiva che rallegrerà i locali della bottega nei mesi a venire.
Inserisco il nome "Geoff Travis" (il fondatore e l’anima di Rough Trade) in un motore di ricerca, e quello che viene fuori sono ritagli di storia senza capo nè coda. Ah, e pure che lui è ancora alla testa della rifondata (e invisibile) Rough Trade Records. Come quei giapponesi nelle isole del Pacifico a cui nessuno aveva detto che la guerra era finita. La metteranno, una sua foto, in un angolo della mostra?

2.
Nei primi Ottanta Rough Trade e Factory Records erano modelli "totali" per chiunque accarezzasse l’idea di metter sù un’etichetta e produrre musica. Tra le due soprattutto Rough Trade: Factory, con l’impeccabile griglia grafica curata da Peter Saville ed il rigore concettuale teorizzato dal suo boss Tony Wilson, influenzerà invece soprattutto le raffinatissime art-label mittleuropee Sordide Sentimentale e Les Disques Du Crepuscule (mentre la contemporanea Mute di Daniel Miller servirà come canovaccio a tutto il network "industriale"). Rough Trade invece era puro D.I.Y., un misto di etica punk, comunismo reale e lezioni da scuola d’arte applicati al pionieristico far-west discografico a cavallo tra post-punk e new-wave. Visceralmente working-class in ogni aspetto del proprio lavoro, dai contenuti dei dischi alla grafica delle copertine alle politiche sui prezzi e sui contratti agli artisti (incluso l’innovativo cartello distributivo indipendente "The Cartel"), Rough Trade era il business "dal volto umano" in un mercato ipercinetico e non ancora toccato dalla recessione thatcheriana di qualche anno più tardi (che sempre RT racconterà meglio di chiunque altro con un paio di dischi pesantemente politicizzati di Smiths ed Easterhouse, prosecutori a modo loro del discorso antagonista iniziato nel decennio precedente con Slits e Pop Group). Rough Trade era un’etichetta nella quale coesistevano - solo per dirne un paio - le semplici meravigliose visioni da Grande Vecchio di Robert Wyatt, il pop senza ombre dei Monochrome Set, lo strano sperimentalismo "spectoriano" dei Woodentops e la politica "dell’interiorità individuale" degli Smiths. Quasi una sorta di libero Parlamento delle intelligenze non-allineate più che una semplice etichetta discografica: anche perchè, nella sua stagione migliore, ogni disco di Rough Trade aveva una sua storia ed una sua peculiare ineguagliabile ragione di essere che lo rendeva unico ed indispensabile a testimoniare quel particolare momento (fosse una settimana, un mese o un’intero decennio) della storia del pop.

3.
Alle ore 11.35 del 17 ottobre 2000 Alan McGee si presenta come un tranquillo, gentilissimo, disponibile (ancorchè non esattamente quello che un dizionario della lingua italiana definirebbe come "simpatico") ex-skinhead in giubbotto di Prada. Alan McGee è stato, in pratica fino allo scorso giugno, la testa della Creation Records. Anche se - è il suo maggiore cruccio - "Probabilmente i libri si ricorderanno di me solo come di quello che ha messo per primo sotto contratto gli Oasis". McGee è in Italia per presentare la sua nuova etichetta, Poptones, che si propone innanzitutto "di non ripetere l’unico vero errore commesso dalla Creation, cioè fare affari con le multinazionali". In realtà, al di là del ciclone-Oasis e del suo indotto (nascita del "brit-pop", nella doppia accezione di fenomeno di marketing e di identità forte attorno alla quale è germinata una nuova "scena"), ispirandosi probabilmente al lavoro svolto dalla piccola ma seminale Postcard Records (una tenerissima meteora del 1980/1981, cresciuta attorno al white-soul degli Orange Juice di Edwyn Collins) Creation ha segnato una tappa decisiva nella definizione di un suono indie "inglese" e di un’estetica che provasse a spingersi oltre (siamo all’inizio del 1983) il bric-a-brac art-rock ed il post-punk. La risposta - come marginalmente già stavano indicando i primi Smiths e, dall’altra parte dell’Oceano, la neonata scena "Paisley Underground" - consisteva nel guardarsi indietro. Il nome "Creation" già suonava come un tributo alla psichedelia pop degli anni Sessanta, e le prime uscite (un fuoco serrato di 7" in busta di plastica) erano e sono tuttora indistinguibilmente freschissime e straordinariamente cool, un groviglio di jingle-jangle, up-tempo northern-soul e voci strozzate sul modello di Echo & The Bunnymen. Nomi consegnati all’oblio come Bodines, Jasmine Minks, Biff Bang Pow! (il gruppo personale di McGee), Loft (da cui evolveranno i Weather Prophets di Peter Astor) e mille altri durati giusto i tre minuti di una canzone. Il punto di ebolizione arriverà con The Jesus And Mary Chain, quattro ragazzotti di Glasgow che mettono su un fenomenale bordello di feedback, batteria riverberata e, in secondo piano, voce monocorde ma (almeno nelle intenzioni) non necessariamente atonale. Era punk che - preso atto del no-future del punk - come ovvia conseguenza trovava l’unico yes possibile facendo marcia indietro. Punk che adorava la semplice melodia del Sixties-pop psichedelico; Metal Machine Music suonato sopra una qualsiasi antologia di girl-groups prodotte da Phil Spector. Punk che decretava come propria guida spirituale il picchiatello naif Syd Barret (curioso, se pensiamo a quanto i Pink Floyd stavano sul cazzo ai punk...).
The Jesus And Mary Chain nascono, raggiungono l’apice e in pratica muoiono tra il 1984 e l’85. Un anno più tardi la stampa inglese inquadra il loro lascito nella generazione denominata C86 (dal titolo di una compilation del NME). Tre anni prima se nella band non avevi almeno una bionda in tuta spaziale non eri nessuno; adesso il massimo della coolness è essere uguali ai Velvet Underground di quella celebre foto di Gerard Malanga (quella con Morrison, Reed e Cale in occhiali da sole e Maureen Tucker che guarda fisso in camera). Strana la vita, vero? Il batterista dei Jesus And Mary Chain, Bobbie Gillespie, fonda chez-Creation i Primal Scream, che per i primi due album saranno degli innocui cloni dei Byrds, fino a che (1990) non incontreranno l’onda lunga dell’acid-house ed il dj Andy Weatherall. Nel 1988 intanto la moda del momento si chiama "shoegazing": gruppi post-Jesus dalle movenze minimali che fanno un gran chiasso di feedback e sono talmente introversi da non alzare mai gli occhi dalla punta delle proprie scarpe. Creation detta legge anche in questo caso lanciando My Bloody Valentine, un esperimento di noise-pop psichedelico che aveva "culto" scritto grande come una casa su ogni singola nota ed intratteneva un complesso rapporto con la tradizione del rock. "Ognuno degli strumenti che usiamo - chitarre Jaguar, amplificatori Vox e Marshall, effetti", dichiarava il chitarrista Kevin Shields nella primavera del 1991 "già esisteva negli anni Sessanta. Potenzialmente i nostri dischi sarebbero potuto uscire perfettamente uguali già negli anni Sessanta. La tecnologia è la stessa, è la nostra attitudine a fare la differenza".

4.
Narra la leggenda che nei loro ultimi mesi di vita gli uffici della smobilitante Creation abbiano visto un Noel Gallager particolarmente incazzato entrare come una furia nella stanza del capo (McGee) brandendo una copia del recente album di Kevin Rowland ed urlando "è questa la roba su cui spendi i MIEI soldi?!?". Gli Oasis sono stati per Creation ciò che gli Smiths sono stati per Rough Trade e i Depeche Mode per Mute, solo infinitamente peggio. Cioè una barca di soldi, che però McGee ha speso nel peggiore dei modi possibili (i dischi di Trashmonk e Mishka con cui Creation ha lastricato il proprio viale del tramonto sono, per dirla tutta, fra gli oggetti più inutili che sia possibile far entrare dentro un lettore cd). La Creation del dopo-Oasis, dal 1994 ad oggi, è una torta lievitata troppo in fretta, stretta tra le politiche di priorità della Sony (che nel ’94 ne acquisisce il 49% delle quote societarie) e le personali ossessioni di McGee. Quindi lo scioglimento: McGee all’inizio di quest’anno annuncia che da giugno Creation non sarebbe più stata "cosa sua", e che il suo nuovo progetto era un’etichetta totalmente internet-based (in omaggio alla nu-economy) chiamata Poptones (in omaggio ai PIL del suo amico e idolo John Lydon). Nei fatti l’etichetta non risulterà alla fine poi così tanto internet-based, ed anzi proprio la capillare distribuzione sul territorio (in Inghilterra e fuori) sembra essere stata una delle principali preoccupazioni di McGee negli ultimi mesi.
Per non dire della litania di usite previste per i primi mesi: una fra le cose più old-economy (e forse anche anti-economy) che si siano mai sentite... Montgolfier Brothers (i nuovi Joy Division acustici), El Vez (un Elvis Presley messicano), Outrageous Cherry (un misto di Byrds e Stooges), Selofane 74 (moog-kitschedelica), gli Orange da San Francisco, Damien Neil ex-Undertones ("egyptian music meets My Bloody Valentine" nella descrizione di McGee), January ("Spiritualized meets Neil Young": sempre McGee), Donna delle Elastica, Cosmic Rough Raiders (i nuovi Teenage Fanclub), Peedle, Tasha McLuny, Emma dei Lush, persino Mad Professor (una ristampa antologica)... Tutti, apparentemente, accomunati da una qualche qualità indefinitamente "retrò". "Poptones è un’etichetta per fans, non è legata a nessuna multinazionale" dice McGee, "quindi posso decidere di lavorare solo con persone con cui sento affinità. Sto scegliendo personalmente, paese per paese, con quali società gestire la distribuzione all’estero. Non ce l’ho con nessuno personalmente alla Sony, sono tutte persone ok. Solo che una multinazionale ha delle priorità: a loro interessa quando uscirà il nuovo disco degli Oasis, a me interessa quando uscirà il nuovo disco di Trashmonk. Mi sono stufato, tutto qui. Con Poptones voglio dare risalto a tutti quegli artisti che sono stati soffocati dal contratto con la Sony perchè non erano "ragazzi bianchi con la chitarra": Tecnique, Mishka, Trashmonk... Sto firmando un sacco di donne: il 50% del catalogo Poptones sarà composto da donne. Non ho intenzione di creare un’altra cosa come gli Oasis. Gli Oasis ci sono già, mi voglio occupare di altre cose".


Solo: non saranno un po’troppi tutti questi gruppi per un’etichetta appena nata? Non è conotro ogni logica commerciale?

Non sto vendendo dei singoli dischi: sto vendendo uno stile, un progetto articolato. E’ l’estetica di Poptones a renderla speciale. Penso che ci siano molte similitudini tra gli esordi della Creation e questo primo periodo di Poptones. Alla base di Poptones non ci sono barriere razziali, sessuali o di stile. Usiamo la tecnologia per arrivare più lontano: internet sulla distanza avrà l’effetto di riportare i prezzi dei dischi a dei livelli ragionevoli, tipo 99.9. E abbiamo un club, il Radio 4 di Londra, dove la gente balla i Roxy Music, Bowie, Magazine, Neu... Chuck Berry!".

Che target avevi in mente quando hai concepito Poptones?

Gente che ama la musica, gente che compra i dischi".

A parte il legarti ad una multinazionale, quali sono gli errori che non vuoi più ripetere con Poptones?

Creation ha pubblicato 300 singoli e 300 album. Inevitabilmente non tutti potevano essere dello stesso livello, ma credo sia stata una grande colonna sonora per la generazione che ci è cresciuta insieme".

Già, dischi come Where The Traffic Goes dei Jasmine Minks sono di quelli che ti possono cambiare la vita...

I Jasmine Minks sono ancora in giro. Anche loro hanno firmato per Poptones".

Sul serio? Proprio loro?

Proprio loro".

E i Biff Bang Pow?

No. I Biff Bang Pow non esistono più.


5.
"E’ bello che ci siano nuove band interessate a recuperare il sound della Postcard o della Creation. Negli ultimi anni quasi tutti i nuovi gruppi si rifacevano ai Beatles e al loro modo di comporre. Ovviamente anche noi abbiamo amato quel suono, ma forse adesso è ora di smetterla e di provare a percorrere qualche strada nuova. Il suono indie degli anni Ottanta può essere un buon punto di partenza, anche se è necessario essere avventurosi e sganciarsi da questo legame con i Sixties". Questo dice Robert Forster degli australiani Go Betweens, che se vedesse l’estetica imbevuta di riferimenti Sixties che anima l’intero progetto Poptones, probabilmente gli verrebbe un colpo. Ritornati il mese scorso con un nuovo album (The Friends Of Rachel Worth) che, lungi dall’essere il te coi biscotti di un gruppo di vecchi soci di Rough Trade, suona sorprendentemente nuovo e sorprendentemente non-nostalgico, i Go Betweens ed il loro amore per la forma-canzone folk-ma-moderna furono un’influenza decisiva per gente allora in braghette corte come Rem e Pavement. Se oggi sono ritornati è semplicemente perchè in realtà non se ne erano mai andati: hanno continuato a produrre cose (mediocri, discutibili, trascurabili), comunque hanno tenuto le orecchie sintonizzate su quello che succedeva in giro (vd. le Sleater-Kinney ospiti residenti nell’album), e casualmente oggi la loro orbita torna a coincidere con quella del mondo moderno.
Esattamente come è successo a Peter Astor, ex-mente dietro gli psycho-pop Loft e Weather Prophets che ora, da un paio d’anni, produce dischi avvolti di fruscio tecnologico sotto lo pseudonimo di Wisdom Of Harry, dice di trovare "la pop music molto più interessante delle classiche guitar rock bands; i pezzi di Eminem, il singolo di Dj Spiller e perfino quello di Victoria Beckham", e non se la prende più di tanto del fatto che altri (leggi Oasis, Travis etc.) abbiano fatto i miliardi interpretando su larga scala le sue stesse intuizioni ("dopo l’esplosione degli Oasis era curioso vedere decine di gruppi venire negli uffici a proporre esattamente le stesse cose che facevamo dieci prima con i Weather Prophets!"). Nel suo caso, a differenza dei Go Betweens, c’è un’effettiva "spaccatura trecnologica" a segnare la differenza tra ieri ed oggi. Anche se, tutto sommato, forse neanche tanto.
"Nel mio caso specifico", dice, "con il mio computer, i miei samplers, posso avere qualsiasi suono io desideri, e questo è sicuramente molto più eccitante e divertente che essere lì con una chitarra acustica. Tuttavia quello che faccio adesso è innegabilmente legato al mio passato: il mio songwriting non è cambiato molto e non credo cambierà mai, quella che viene fuori con Wisdom Of Harry è semplicemente l’altra parte della mia anima musicale. La prima volta che mi sono trovato con una band su un palco, intorno al 1980, avevamo con noi dei registratori a cassette, suonavamo sopra ai suoni registrati, penso che in un certo senso eravamo incredibilmente avanti con i tempi, ma eravamo terribili! Suonavamo reggae, sette pollici che ci compravamo, ci siamo fatti tutte le cantine di Londra cercando di emulare i PIL. Successivamente con i Loft ed i Weather Prophets - ma forse erano i tempi che lo richiedevano - finii con il fare solo una parte di quello a cui ero interessato, ignorando tutto il resto della musica che amavo e che era molto più fuori dagli schemi. Perciò, in un certo senso, sto tornando indietro a quello che avrei sempre voluto fare". Il che non vuole necessariamente dire che quello del pop acustico sia un clichè ormai superato. "Personalmente trovo incredibilmente noiosa l’idea stessa di qualcuno che oggi faccia la scelta di cantare accompagnandosi con una chitarra acustica", conclude Astor, "ma è anche vero che la prima volta che vidi gli Smiths tornai a casa, presi la mia chitarra acustica e tutto ciò che desideravo fare era mettere a nudo la mia anima... Questo per dire che è vero che rimanere legati allo stereotipo del cantautore con la chitarra è un paradosso e non ha molto senso alla luce della modernità, ma d’altro canto - finchè ci sarà qualcuno che cantando canzoni accompagandosi con una chitarra ti farà pensare che questo abbia un senso - allora anche le chitarre acustiche avranno sempre un senso".

(da: Rumore, dicembre 2000)