Polyphonic Spree: il meraviglioso mondo di Tim DeLaughter
 

di: Fabio De Luca




Tim DeLaughter è una scommessa vinta. Un uomo che è esattamente come te l’aspetti, come te lo immagini ascoltando i dischi che registra col suo affollato gruppo, i Polyphonic Spree. Alza il telefono e la prima cosa che ti dice è quanto a Dallas - dove in quel momento sono le nove del mattino - sia una meravigliosa giornata di sole. E quasi fai fatica a capire quello che dice dopo, perchè - a proposito di "confusione polifonica" - sotto la sua voce è tutto un cinguettare di bambini che gridano e gli chiedono cose. "I miei tre bambini: Stella, Oscar e Julius" spiega con orgoglio il patriarca DeLaughter. "La più grande ha cinque anni, il più piccolo uno e mezzo. Si sono messi in testa di fare una band anche loro: per ora siamo alla fase "battere sui tamburi"...". Certo per un bambino dev’essere uno spasso indescrivibile avere un padre che di mestiere sale su un palco vestito con un camicione bianco e suona una sorta di gospel psichedelico - immaginate i Beach Boys alle prese con la colonna sonora di Hair - insieme a una banda di 23 musicisti (23 quando la banda è a ranghi ridotti: nelle occasioni speciali il numero sale fino a 28). A dire il vero, però, anche il padre sembra divertirsi un mondo. "E’ meraviglioso essere i Polyphonic Spree!" azzarda DeLaughter, che quando parla sembra un po’ un telepredicatore per quanto - a sentir lui - tutto è fantastico, meraviglioso e positivo. Ma glielo perdoni volentieri, perchè è evidente che l’entusiasmo è sincero, ed a modo suo contagioso. "I Polyphonic Spree sono una macchina perfettamente oliata e tutto funziona senza sforzo", dice. E garantisce che la gestione dell’affollata combriccola è assolutamente democratica, che non c’è mai bisogno di impuntarsi o fare la voce grossa, perchè - dice sempre DeLaughter - "il segreto è che qui ognuno ha il suo ruolo, ognuno è stato chiamato a fare quello che più gli piace fare, a suonare lo strumento che ama di più, dunque è facile". Poi aggiunge una cosa che è davvero difficile da credere, cioè che "quasi tutto nei Polyphonic Spree è frutto d’improvvisazione". Improvvisazione? In una band di ventotto elementi? Beh, sarà il contagioso entusiasmo di Tim, ma perchè no tutto sommato? "Gli elefanti mica si fanno un problema della loro stazza, per loro è normale", dice, ed è davvero difficile trovare una metafora più azzeccata per descrivere i Polyphonic Spree (oltre che per spiegare il titolo del loro più recente album, Together We’re Heavy).

Non tutto però è sempre stato rose e fiori, neanche nella vita dei Polyphonic Spree. In realtà la nascita stessa del gruppo è figlia di un evento assai triste: la morte per overdose, nel 1999, di Wes Berggren, il migliore amico di Tim DeLaughter, chitarrista insieme a lui nei Tripping Daisy. "Ho avuto un lungo periodo di crisi: non me la sentivo di portare avanti il gruppo senza di lui. È strano, perchè proprio con Wes parlavamo spesso di come con le chitarre avessimo ormai fatto tutto ciò che potevamo - o sapevamo - fare, che ciò che ci sarebbe piaciuto era provare qualcosa di nuovo: con un flauto ad esempio, o un corno inglese. Ero convinto che prima o poi ci avrei provato, magari da vecchio: invece poi ho capito che era quello il momento, ed è così che sono nati i Polyphonic Spree". Quasi una conversione: anche se sull’argomento "religione" Tim - consapevole di come l’immagine quasi-gospel della band possa far nascere congetture in proposito - è abbastanza laconico. "Essere nei Polyphonic Spree ha fatto scoprire a tutti noi qualcosa su noi stessi, e questo è tutto sommato un’esperienza religiosa. Ma non potremmo davvero definirci "ministri" di nessuna religione in particolare". Mistici e laici. E David Bowie, un laico che se ne intende, li ha voluti come gruppo d’apertura dell’ultimo suo tour americano.

(da: Musica di Repubblica, 13 gennaio 2005)