Ursula Rucker: la poetessa che tiene famiglia
 

di: Fabio De Luca




Ursula Rucker è fantastica. Anche se il genere -- funk "acculturato", dalle spiccate venature modern-jazz -- vi fa sbadigliare già solo a pensarci, anche se piuttosto che ascoltare da cima a fondo un disco dei suoi amici e sodali The Roots preferireste farvi appendere per i piedi sull’albero maestro di un cargo battene bandiera liberiana, anche se la cosa non vi passa neanche per l’anticamere del cervello dovete assolutamente dare una chance ad Ursula Rucker. Assolutamente. È durissima, affilata: non sembra avere (e la band che l’accompagna nemmeno) nessuna delle mollezze spesso associate con la black-fusion fichetta, da filodiffusione di parrucchiere, che certi network elegantoni vorrebbero far passare come il massimo dell’"avanti" cui sia possibile aspirare oggi. Sulla copertina del nuovo disco, Mà At Mama, sembra quasi Frida Khalo. Stesso viso spigoloso, stesso sguardo alla "e allora?". Cominci, anzi, a credere che "e allora?" te lo dirà pure quando vi incontrerete faccia a faccia: ma invece no, è carinissima. Forse conta il fatto che lei sta a Philadelphia, tu a Milano, e in mezzo ci sono alcune decine di migliaia di chilometri di linea telefonica. Ti fa entrare subito nel suo mondo, che a sentir lei sembra piuttosto incasinato. "Ho quattro bambini", dice, "e certo non ho tempo di scrivere come un tempo. Una volta stavo alzata fino a tardi, oppure mi svegliavo nel cuore della notte, accendevo una candela e scrivevo... adesso sono stanca morta, alle dieci di sera crollo dal sonno... Perciò faccio quello che posso, ma non mi sento meno creativa di un tempo: semplicemente ho dei tempi diversi. Ed è una sfida continua, ma molto bella". Il titolo del nuovo album parla anche di questo: "Ma At è la divinità femminile egiziana della verità, dell’essere giusti. Oltre che lo spirito guida del vivere con equilibrio, del saper gestire le cose del mondo". Una divinità dotata di senso pratico, fantastico. Ma è un po’ tutto il misticismo vigente a casa Rucker ad essere orgogliosamente equidistante tra sacro e prosaico, tra carne e trascendenza. Dice ad esempio Black Erotica, quella tra le canzoni del nuovo album che non può davvero passare inosservata, se non altro per il lungo elenco di parti del corpo maschili e femminili impegnate nel sacro atto del fornicare: "piangi, piangi per Gesù / mentre il bacino spinge / e le ossa pubiche si spingono in fuori / e i fianchi si abbassano / ma, ma, aspetta / mani a coppa che afferrano un morbido culo / lenzuola / la testiera del letto / il tappeto...". Anche questo ispirato dalla divinità del vivere con equilibrio? "Riesci a immaginare qualcosa di più equilibrato e perfetto di un rapporto sessuale?" risponde la mamma-poetessa-vocalista da Philadelphia. Ok, touché.

Certo è che con Ursula, trattandosi di una poetessa in qualche maniera "prestata" alla musica, la classica superbanale domanda "scrivi prima la musica o i testi?" assume quasi dei connotati sensati... E infatti: "In linea di massima lavoro prima sulle parole", dice, "ma può succedere anche il contrario. Ad esempio quando lavoravo al penultimo album ero in un momento di... confusione, non riuscivo a concentrarmi e facevo fatica a scrivere. Così ho chiesto ad Ant Tidd, che lavora con me da un sacco di tempo, di cominciare a pensare a della musica. Gli ho detto più o meno quali erano i temi attorno a cui stavo scrivendo, e lui ha iniziato a farmi sentire delle cose. Questo è servito a sbloccarmi". E com’è avvenuto invece che tu abbia cominciato a scrivere? "Si inizia per rispondere ad un bisogno" dice Ursula: "perchè si avvere la necessità di comunicare ma al tempo stesso si è troppo timidi per comunicare nella vita di tutti i giorni... A me è successo così: da bambina, prima di cominciare a scrivere, disegnavo. Credo che per me fosse un modo per buttare fuori la rabbia, la tristezza". E il fatto di mescolare poesia e musica è qualcosa da cui sia la poesia che la musica possono uscire arrichhite oppure - dal tuo punto di vista - una delle due soccombe all’altra? "È la poesia a guadagnarci, perchè spesso la parola "poesia" fa paura alla gente, pensano chissà cosa, che sia una roba pesante, intellettuale. A scuola ti spiegano la poesia come una roba di metrica, rime e frasi da mandare a memoria: per forza che poi la poesia fa paura. Ma quando la poesia è insieme alla musica nessuno è diffidente, tutti ascoltano e poi dicono "ehi, è bello! questo si che mi piace". Non è obbligatorio che poesia e musica vadano sempre insieme, però quando succede può crearsi un legame potentissimo". Ok, facilissimo. Del resto il "suono delle parole" è alla base pure dell’hip-hop sin dal giorno in cui è nato, no? "Certo, assolutamente. L’hip-hop per me è la musica più importante di tutte. Non solo la musica, in realtà. Quando parlo di hip-hop non mi riferisco solo al suono, ma anche... al mondo "interiore" dell’hip-hop, al sentimento dell’hip-hop, allo stile di vita hip-hop. Ecco: potessi esprimere un desiderio riguardo ai miei dischi, vorrei che ascoltandoli le persone potessero provare ciò che provavo io quando ero una teenager e ascoltavo l’hip-hop".

(da: Hot, marzo 2006)