William Gibson: non tutte le predizioni devono per forza avverarsi
 

di: Fabio De Luca




Cayce Pollard è una studiosa di tendenze di mercato, una di quelle che analizzando lo stile dei teenager sulle strade di Camden, Shibuya o del Village è in grado di prevedere quali saranno le scarpe più "cool" la prossima stagione. Cayce Pollard ha una conoscenza enciclopedica di qualunque marchio dell’Occidente industrializzato, una sensibilità ineguagliabile per capire le potenzialità commerciali di un nuovo "logo" ed anche una strana allergia: l’omino Michelin la manda in choc anafilattico! Cayce è l’ultima creatura di William Gibson, lo scrittore che ha anticipato la nozione di "realtà virtuale" ed immaginato il "cyberspazio" una buona dozzina d’anni prima che Internet diventasse realtà, e che soprattutto ha reso rock’n’roll la fantascienza in libri come Neuromante, Mona Lisa Overdrive e La Notte Che Bruciammo Chrome (non a caso il filone da lui inaugurato al principio degli anni Ottanta prese il nome di "cyberpunk"). Primo dei suoi romanzi ad essere ambientato nella contemporaneità e non nel futuro ("ma", dice Gibson, "in realtà anche il futuro dei precedenti romanzi era più una sorta di presente alternativo"), L’Accademia dei Sogni ruota tutto attorno a Cayce e ad un misterioso filmato che affiora a intervalli irregolari da Internet generando un maniacale culto internazionale: sarà il "teaser" di qualche nuova campagna pubblicitaria oppure il prodotto di un genio solitario della comunicazione? Ne parliamo con l’autore, al telefono dalla sua casa di Vancouver.


Il fenomeno del jet-lag sembra essere uno dei temi centrali in L’Accademia Dei Sogni. Nelle prime righe del libro Cayce lo definisce come "l’anima rimasta indietro che cerca di ricongiungersi con il corpo"...

La prima persona da cui ho sentito quella definizione è stato il mio amico e scrittore Bruce Sterling, cinque o sei anni fa. Non so se sia una sua invenzione o se anche lui l’abbia sentita da qualcun altro, ma mi sembrava una definizione affascinante. Il jet-lag è un chiaro esempio di future-shock, di fenomeno strettamente legato alla modernità, ed è così centrale nel libro perchè io stesso, mentre stavo scrivendo, mi trovavo per varie ragioni a viaggiare continuamente tra Vancouver e Londra, e ne sono stato vittima in prima persona. Quando sei un viaggiatore frequente sulle rotte transoceaniche, quando cioè ti trovi a cambiare fuso orario più e più volte in un breve spazio di tempo, finisci per ritrovarti in una bolla in cui è come se non avessi più bisogno di riferimenti temporali. Mi divertiva far diventare questa mia esperienza parte integrante del racconto, anche perchè non mi pare sia mai stato descritto in un libro.

Beh, c’è un film dello scorso anno, Lost In Translation, in cui il jet-lag è una sorta di secondo sfondo sovrapposto alla Tokyo nella quale si muovono i due protagonisti...

Oh, è vero, non l’ho ancora visto ma diversi miei amici me ne hanno parlato. Lì però il jet-lag è interpretato in una chiave più romantica, è così?

In un certo senso si. Lei invece nel libro introduce anche il concetto di "jet-lag virtuale", definito come "tenere il fuso orario di un luogo ma interagire con persone sincronizzate su altri fusi orari", ad esempio per questioni di lavoro...

Non solo per questioni di lavoro. Il concetto di jet-lag virtuale mi si è presentato anni fa, quando mia figlia era più piccola e dei suoi amici le hanno regalato un "tamagotchi". Ha presente, quel cucciolo virtuale che va accudito a orari precisi altrimenti muore? Beh, il problema è che gli amici di mia figlia le avevano portato quel tamagotchi dal Giappone, e dunque lui era sincronizzato sul fuso di laggiù, e si svegliava nel cuore della notte chiedendo di essere accudito. Per un breve periodo tutta la nostra famiglia ha sperimentato il fenomeno del jet-lag virtuale!

Tornando al libro, è interessante che lei abbia evitato di dare una lettura per così dire "politica" al rapporto che la protagonista Cayce Pollard ha con i logo con cui lavora. Temeva che qualcuno potesse interpretarla come una sorta di Naomi Klein?

Certo, farne una Naomi Klein avrebbe inevitabilmente appiattito il racconto. Però il personaggio di Cayce è al tempo stesso fortemente ispirato a Naomi Klein. Non tanto alla sua teoria - che conosco solo in parte, a dire il vero No Logo devo ancora leggerlo! - ma proprio alle sue imprevedibili conseguenze, al fatto ad esempio che "no logo" sia esso stesso un logo. Cayce per lavoro e per sua scelta conosce tutti i logo esistenti al mondo, eppure in qualche misura anche lei li teme e li rifiuta.

L’altra grande paura sotterranea del libro è l’idea di essere tutti potenzialmente manipolabili da tecniche di "marketing virale", che in fondo è la stessa paura esplosa negli anni Cinquanta quando si cominciò a parlare di "persuasori occulti"...

La differenza è che negli anni Cinquanta la paura era mista alla fascinazione di immaginare il mondo come sarebbe diventato, oggi è paura e basta. Ma io sono ottimista: non tutte le predizioni devono per forza avverarsi. Quando negli anni Ottanta io ho cominciato a parlare di realtà virtuale, c’è stato un attimo in cui si dava per scontato che sarebbe diventata la televisione degli anni Duemila. Non è stato così. Il mondo è diventato "virtuale" in mille altre manifestazioni, ma la realtà virtuale intesa come ambiente virtuale nel quale vivere è rimasta un divertente esperimento di cui nessuno sente veramente la mancanza.

Un personaggio del libro ad un certo punto dice: "Oggi i musicisti mettono in rete le loro composizioni come fossero crostate lasciate a raffreddare sul davanzale di una finestra, e aspettano che altre persone le rielaborino anonimamente". Una visone molto avanzata sulle questioni del diritto d’autore...

E’ stato un mio amico svedese che fa il produttore di dischi a New York a spiegarmi come funziona. La libera collaborazione anonima a distanza - un po’ come il "remix" - spaventa perchè mette in discussione il principio dell’autorialità che è alla base della nostra cultura. Io però non lo vedo come qualcosa di così diverso da ciò che succedeva alcuni secoli fa: se pensiamo alle grandi cattedrali del passato, ad esempio, si vede che sono in gran parte lavori anonimi e collaborativi...

Per come è strutturato e per quello che racconta L’Accademia Dei Sogni sembra fatto apposta per essere trasformato in un film: di quale regista si fiderebbe per trasferirlo sul grande schermo?

Per una fortunata coincidenza l’unico regista che fino ad oggi ha manifestato interesse verso L’Accademia Dei Sogni è anche quello al quale sognerei di poterlo affidare: Peter Weir. Ma non credo sarà così facile. Non è mai facile trasformare un romanzo in un film: troppi interessi in gioco.

Beh, se il problema sono i soldi, visto che il racconto in molte parti si basa sulla presenza di logo commerciali, potreste pensare di "vendere" lo spazio che i logo hanno nel racconto come fosse uno spazio pubblicitario...

Interessante, ma temo poco probabile. Quelli che si occupano della ricerca di finanziamenti per il cinema sono per lo più persone assolutamente prive di senso dello humour.

(da: Tutto, maggio 2004)