Pop Life!: dai Beatles ai Boo Radleys passando per i Sex Pistols
 

di: Fabio De Luca




Pop! Da trent’anni in qua il pop è l’unico genere musicale il cui nome ha lo stesso suono delle bollicine dentro una coppa di champagne. Curioso. Forse ha a che fare con quel mondo di promesse che il pop formula per, generalmente, non mantenerle mai. Come una qualsiasi telenovela brasiliana: i Beatles cantavano I wanna hold your hand, voglio stringere la tua mano, a ragazzotte working-class la cui predestinazione era sposare il figlio del droghiere all’angolo, probabilmente un beota al cui DNA era sconosciuta qualunque forma di delicatezza ("your haaaaaand...?!"). La vita vera cominciava con il matrimonio, la casa, i figli. Lo spazio del pop, dei sogni, delle speranze romantiche, era "prima" e coincideva perfettamente con il tempo dell’adolescenza: ritagli di Superbelli da appiccicare sul diario e Monkees a Top Of The Pops inclusi, esattamente come oggi i Take That. Roba da cameretta, in definitiva.

Poi è successa una cosa strana: di colpo nel ’76/77 il pop si è trasformato in "punk" ed è uscito dalla cameretta. Che il punk (inglese) sia figlio naturale del pop (inglese) è evidente. Nessuno meglio dei gruppi punk ha saputo sfruttare lo spazio-canzone inteso come melodramma di tre-minuti-tre dentro il quale far succedere di tutto. Ricerche di identità, oltraggi alla pubblica decenza e piccole metafore esistenziali incluse. Diventando punk il pop abortisce alla sua funzione di fabbrica di promesse non mantenute, di futuri (im)possibili, di aspirazioni romantiche. È il "no future": non c’è più nessun futuro da sognare e tutto ciò che ci è rimasto è il qui e l’ora. E sono un qui ed ora nemmeno tanto rassicuranti, al punto che all’incertezza del futuro si preferisce la sua negazione tout-court. Bello schifo.

E’ però indispensabile partire da questo per poter capire il "senso" del pop inglese anni Novanta. Perchè oggi, dopo aver completato quella che potremmo definire un’orbita completa dell’esperienza, il pop inglese della "New Wave Of The New Wave" ritorna ad essere capace di formulare dei sogni. Ma sono, stavolta, dei "dreams into action", dei sogni che è possibile mettere in pratica. "Svegliati, è una mattina meravigliosa" cantano i Boo Radleys nel singolo più pop degli ultimi mesi, Wake up, Boo. E la ragazzina che dieci anni fa aveva rinunciato ai suoi sogni per sposare quell’idiota del figlio del droghiere all’angolo (o qualunque altro idiota a scelta), oggi - canta Louise Weener degli Sleeper in Inbetweener - può mandarlo a quel paese e rifarsi una vita secondo le sue regole... Il pop inglese ha messo in scena la crisi sociale di fine’70/primi’80 attraverso la metafora anoressica del punk, l’ha al tempo stesso negata nascondendola sotto lo stile neo-Edoardiano dei new-romantics; ha inventato mondi-Duplex perfetti con il techno-pop e li ha distrutti sotto i colpi di martello pneumatico del rock-industriale, ha creato inesistenti Woodstock acide (la Summer Of Love della musica house) e si è pappato senza tanti complimenti qualunque revival. Ora, forse, ha le idee più chiare.

Il pop, nato come prodotto di mercato per un pubblico femminile e preadolescenziale, con la rilettura dei generi maschile/femminile del punk ha trovato finalmente una dimensione "unisex" nell’immaginario collettivo, conservando però sempre qualcosa di molto "femminile" nel fondo della sua anima. Perchè nascendo anche commercialmente "attorno" al desiderio femminile adolescente, il pop inevitabilmente impersonava - anche quando ad interpretarlo erano protagonisti maschili - il lato sensuale e vulnerabile del rock inteso come segno maschile. La "crisi" del maschio come istituzione ha fatto il resto. La generazione cosiddetta C-86 (cioè il pop-psichedelico inglese di metà anni Ottanta, così definita grazie ad una epocale compilation-manifesto realizzata dal settimanale New Musical Express e poi ristampata da Rough Trade) faceva della propria vulnerabilità una bandiera in canzoncine tenere, incantevoli, spesso ingenue e sicuramente molto, molto teenage. Le stesse chitarre distorte di derivazione Stooges/MC5, quando c’erano, più che un’aggressione fallica in stile heavy-metal all’ascoltatore sembravano un muro difensivo eretto contro qualunque ingerenza (adulta?) esterna. Lo stesso dicasi, se possibile con livelli di autoreferenzialità ancora maggiore, per la scena definita shoe-gazing (letteralmente "che si guarda la punta delle scarpe", cioè che suona a testa bassa senza guardare in faccia il pubblico) della fine Ottanta/primi Novanta, quella di bands come Ride, My Bloody Valentine, Lush e Curve: volti pallidi, sguardi catatonici e anoressia unisex come nelle passerelle di moda degli anni immediatamente successivi.

L’indie-pop di oggi - Oasis, Elastica, Shed Seven e compagnia - riparte esattamente da lì, da quel rapporto erotico-antierotico con il proprio corpo. L’ultimo pop inglese, come le immagini fashion di Mario Sorrenti per la campagna Dolce & Gabbana di qualche tempo fa, pone l’accento su una magrezza ai limiti dell’immunodeficienza: zero tette per lei e assolutamente niente palestra per lui, in aperto dissenso con il modello ipersalutista alla Baywatch che arriva invece dagli USA. Il tutto però molto curato, e sparato in quadricromia acida sulle pagine dei mensili alla moda; un bel paradosso. "Oggi in campo musicale chiunque non sia propria strabico o gobbo ha la possibilità di diventare in sex-symbol" dichiarava lo scorso giugno a Select Justine Frischmann degli Elastica. Già. La differenza, come nei sogni da cameretta di un tempo, sta nel lato dello schermo televisivo in cui ci si trova quando si accendono le luci. "Perchè io - cantano gli Oasis in apertura del loro super-album Definitely Maybe - io sono una rock’n’roll star...". Tutto lì. La grande tradizione del pop continua.

(da: Rockstar, settembre 1995)