“Diiiaaaal, selectah!” a «(...) La serata vedrà una prima parte legata alle dimostrazioni di prodotti e delle varie soluzioni ***** (trasferimento musica da CD via computer, ascolto e riproduzione dei brani musicali attraverso il cellulare, con l'utilizzo di casse acustiche, ecc) ed una seconda invece più incentrata sull'esibizione di un dj professionista che utilizzerà i telefoni ***** come sorgente musicale.»
Cioè: potevate pensare che mi perdessi una roba simile? Il dj professionista che suona la musica usando come unica fonte due telefonini della marca che fa rima con un vecchio fumetto porno italiano anni Settanta? Non dico che non ci ho dormito la notte prima, ma poco ci è mancato, impaziente com'ero di vedere superato dagli eventi anche il temibile dj chiavetta. Immaginando un futuro in mano (letteralmente) a orde di... come chiamarli? dj suoneria? dj dual-band?!?
Poi invece, com'era tutto sommato prevedibile, la realtà è risultata assai meno divertente della sua anticipazione via comunicato stampa. C'era sì il dj professionista, ed era sì munito di due telefonetti ultima generazione, ma ciascun telefonetto era collegato - via cavetto, manco bluetooth - a due regolari cdj Pioneer, di quelli con la porta USB (yes, quelli che usano i dj chiavetta). Quindi il telefonetto d'ultima generazione era nulla più che una "valigia dei dischi", in questo contesto. E la domanda a questo punto - poi direte che sono prevenuto, ma non è colpa mia - la domanda è: i quattro giga cadauno di memoria sfoggiata dai due telefonetti la cui marca fa rima etc etc, erano tutti pieni di quella house sambata avvincente come un elenco del telefono che ho sentito suonare al di professionista nei venti minuti in cui l'ho sentito suonare?
E comunque più tardi, con la segreta speranza di rifarmi gli occhi e le orecchie, sono andato a sentire pure cinque minuti di Ashley Beedle che metteva i dischi ad una festicciuola sponsorizzata dalla vodka che fa rima con mammuth. L'ho trovato - giuro - dietro la consolle con le cuffie al collo che stava parlando al telefonino. L'ho preso come un segno divino: ed ho promesso solennemente che d'ora in poi - per quanto surreale - non mi sarei mai più lamentato della tecnologia applicata al djing.
(cioè DEI TELEFONINI AI POSTO DEI TECHNICS! ma cosa cazzo siamo, dj o centralinisti?!? Ok ok, da domani, da domani smetto) |
The way we used to dance Uuh quanti ricordi. Mp3 Hugger recupera Window Pane di The Real People, un piccolo (molto piccolo) classico dei primissimi anni Novanta, tipico prodotto dell'era Mad-chester, post-Fool's Gold e post-There's No Other Way. Fatta l'opportuna tara all'effetto-nostalgia, però, è difficile non giungere alla conclusione che non è mica poi tanto vero che negli anni Novanta sì che il rock inglese - «mica come oggi» - e il terzismo baggy, e la contaminazione tra i generi e blah blah blah. Quasi quasi rivaluto gli Arctic Monkeys. |
Io, nel mio piccolo, sono solito buttare i calzini bucati anzichè rappezzarli a Pete Doherty invece, quando i vigili gli rimuovono la macchina lasciata in sosta vietata, anzichè perdere tempo a compilare il bollettino all'ufficio postale, se la compra nuova.
La notizia (pardon: la "notizia") riportata con molta vaghezza da The Sun lascia intendere che la cosa è successa già un paio di volte - otto per l'esattezza - negli ultimi mesi. Un interessante gioco a chi si stufa prima. Ah, l'auto è una Jaguar. |
Così virale da rasentare l'incomprensibile Ma il bambino ciccio accanto al salvagente a forma di cigno è tipo il Pasta? E la spiaggia è tipo Grado? o Jesolo? |
Shame for the angels a Dicono che è morto Nikki Sudden. In realtà al momento questo è l'unico sito a riportare la notizia. Update: no, se ne posta diffusamente anche sulla sua pagina MySpace (e leggere il tag "Nikki Sudden has 502 friends" aggiunge, se possibile, un ulteriore tocco lugubre al tutto). Il ricordo di Nikki Sudden che porto con me è lui in concerto a Genova, sarà stato il 1987, e sarà stato in un posto poco probabile come il "Circolo Mario Cappello" (teatrino dialettale all'epoca occasionalmente prestato al rocchenrol) dove lui - in concerto con i Jacobites, e in preda a droghe che io all'epoca nemmeno avrei saputo chiamare per nome - scivolò giù dal palco, spaccò con la testa un grosso vaso di terracotta, si rialzò, si spolverò la terra dalla giacca, mugugnò qualcosa e poi tornò sul palco a suonare. Qui il bignamino di Wikipedia sul personaggio.
Ah, il primo che fa una battuta sulla sudden departure si becca un pugno in faccia, che già oggi non è giornata. |
Adulti nel tempo L'ultima mutazione nella figura sociale dei kidults disegnata dal New York Magazine è talmente fuori dal mondo (e dal tempo) che prende il nome direttamente da un vecchio episodio di Star Trek. In sintesi, la nuova parola chiave è grups, e per una volta sono contento di poter dire che la cosa non mi riguarda. Incluso il cd dei Death Cab For Cutie.
«He owns eleven pairs of sneakers, hasn’t worn anything but jeans in a year, and won’t shut up about the latest Death Cab for Cutie CD. But he is no kid. He is among the ascendant breed of grown-up who has redefined adulthood as we once knew it and killed off the generation gap.» |
Chi di bei ragionamenti attorno a MySpace ferisce, etc etc etc a Mi credete sulla parola se vi dico che non sono io?
E lasciamo pure stare la foto da pirla dove sembra Gazebo reincarnato: ma vi rendete conto che sto tipo in cinque mesi su MySpace - regno incontrastato dello scambismo e del mutual blowjob internettesco - è riuscito a raccattare UN SOLO FRIEND?!?
Se ne conclude che: cercare il proprio nomecognome su MySpace is the new cercare il proprio nomecognome seguito da .com, o da .it
Riceviamo e - con un misto di snobistico distacco, compiaciuto sussiego e malinconica rassegnazione - volentieri pubblichiamo a TYING TIFFANY A "LE INVASIONI BARBARICHE"!!
Il programma condotto da Daria Bignardi su La7 presenta, nella serata di venerdì 24 marzo, uno speciale dedicato alle Suicide Girls italiane, con un documentario-intervista a Tying Tiffany e alla fotografa Albertine. |
E tutto attorno un irreale silenzio a Pensavo di essere l’unico ad avere problemi di riallineamento ad una normale e produttiva esistenza al ritorno dal SXSW, ma dopo un paio di mail e telefonate scambiate con altri reduci - sì, in pefetto stile alcolisti anonimi, «...ma allora anche tu?»«si, anch'io...» - e soprattutto dopo aver letto il report finale dell’inviato del National Post di Toronto, mi sono sentito molto, molto meno solo. Sullo stesso argomento non è male neanche l'articolo del Washington Post («I feel like I need some intravenous silence pumped into my veins!»). Ah, leggetevi anche il report di miss P: «semplicemente il meglio di un Primavera qualsiasi con i vantaggi e l'atmosfera di un concerto al Covo». Oh, quanto vero.
E in attesa che la normalità riprenda il sopravvento - lunedì sera stavo quasi per decidere di andare a vedere i Tuxedomoon ma poi mi sono addormentato sul divano con il computer in grembo; ieri stavo quasi per andare alla festa di presentazione del disco di Stefano Fontana, non mi fossi addormentato sul divano con il computer in grembo... - in attesa che la normalità riprenda il sopravvento, dicevo, si è messa insieme una nuova playlist per la radiolina lì accanto sulla destra. Una metà abbondante sono demo e dischi raccattati ad Austin, o cose (ri)sentite sulle autoradio dei di là taxi (tipo: Nick Lowe, che mi ha pure fatto venire l'idea per un post sui massimi sistemi del pop che prima o poi scriverò). Come sempre: buon ascolto.
BELLE AND SEBASTIAN, Electronic Renaissance THEO PARRISH, Falling Up (Carl Craig remix) PLAY PAUL, ANH Club CONTROLLER CONTROLLER, Magnetic Strip CAJUAN, Dance/Not Dance (Digitalism remix) NICK LOWE, Cruel To Be Kind TRANSLATOR, Everywhere That Im Not BELL X1, Flame (Chicken Lips remix) UFFIE, Pop The Glock (SebastiAn remix) THE GO! TEAM, Doing It Right (live @ SXSW 2006) DADA LIFE, Big Time (Linus Loves remix) DAEDALUS, Samba Legrand WHITE ROSE MOVEMENT, London’s Mine LOS ABANDONED, Van Nuys (Es Very Nice) LOOSE FUR, Thou Shalt Wilt YOU SAY PARTY! WE SAY DIE!, The Gap THE DUKE SPIRIT, Cuts Across The Land TAPES’N’TAPES, Frankfurt PRIMAL SCREAM, Country Girl |
In sixty-nine I was twenty-one and I called the road my own a Ok, sono ad Atlanta Hartsfield-Jackson a giocare al piccolo Tom Hanks per le prossime cinque ore. Del resto: finchè c'è un accesso wi-fi, wherever I lay my Mac, that's my home. Ho trovato un gate disabitato (E14, per gli amanti della cabala) e mi ci sono accampato. La signora delle pulizie mi ha già chiesto due volte «How'ya doin'», come i pesci rossi che dopo aver fatto il giro della boccia si sono nel frattempo dimenticati di aver fatto il giro della boccia. Il SXSW è già terribilmente ieri, anche se avendo fatto tutta una tirata da ieri sera è, uhm, ancora un po' oggi, in fondo. Però, per comodità, diciamo che era ieri, altrimenti finiamo per non ci capirci.
Quindi: ieri sera. Non so se dalle stronzate scritte le scorse mattine dalla lobby del motel sulla Gessner si è capita la cosa più importante: e cioè che il SXSW è una cosa sulla strada, nel (duplice) senso di evento che porta mezzo milione di persone nelle strade di Austin, a girare da un localetto all'altro, e poi nel senso di evento che valorizza il lato on the road delle band, cioè il buttarsi, il salire su un furgone o su un aereo, scenderne, fare check-in in orribili motel per poi, la sera, salire su un palco e - per quanto scalcagnato - suonare. Tutto qui, e tutto molto rock'n'roll, sì. Lo spaventevole gruppo di Tokyo visto ieri sera alla festa giapponese - una specie di Green Day versione candy-J-pop: nome non pervenuto - lo incarnava perfettamente. Da un punto di vista "critico" facevano cacare, ma cacare proprio tanto, però stavano su un palco dentro un localetto in un suo strano modo cool, e sotto di loro c'era una stanza piena di gente che ballava e urlava, e quando lo spaventevole cantante giappo dello spaventevole gruppo giappo ha annunciato - quasi in lacrime - «questo è il più bel momento della mia vita», certo, uno poteva essere cinico e dire «per te ci credo; per noi che ti sentiamo non esattamente», ma la sostanza non cambia. Era il suo momento Tommy Lee della vita. Tutti hanno un momento Tommy Lee nella propria vita, solo che in genere nemmeno se ne accorgono. Lo spaventevole cantante giappo ha avuto la fortuna - credeteci, è una fortuna - di essersene accorto mentre stava succedendo. E se Tommy Lee fosse stato lì dentro in quel momento avrebbe capito e sarebbe stato dalla sua parte: certo non da quella di chi storceva il naso e guardava l'orologio per vedere quanto mancava allo showcase di Juan McLean al The Parish (tipo io, per esempio).
Questo è lo spirito del SXSW, e lo attraversa per tutta la sua larghezza. Che non è poca, spaziando dal gruppo di giappi spaventevoli ai super fighi, super-attesi, super-buzzed Arctic Monkeys, per dire. Sospetto sia per questo che in quattro giorni non si è vista una singola coppia di giradischi in azione e - ulp! - nemmeno se ne sentiva la mancanza. E sospetto che sia sempre per questo che alla fine gli attesissimi (da me) Juan McLean, in un posto che pareva un incrocio tra l'Oddisey 2001 di Saturday Night Fever e un negozio di specialità tirolesi, non sono stati esattamente la cosa migliore vista questi giorni. (Certo il fatto che non facessero nulla per non dare l'impressione di essere degli LCD Soundsystem di serie B non aiutava per nulla).
Ah, non ci crederete: alla festa di XFM suonavano - unannounced - anche i Charlatans. Incapaci come quindici anni fa, se possibile persino di più, con l'aggiunta che adesso sembrano i Doctor & The Medics. Però quando è partita Weirdo, e dieci minuti dopo The Only One I Know, wooooow, che si può pretendere di più da un gruppo se non scrivere, nella vita, due canzoni così?!? (Tre, contando anche Then. E, sì, appena ho sentito le prime due note d'hammond di Weirdo ho subito mandato un sms transplanetario al mio dj electro preferito, l'unica persona al mondo che mi potesse capire in quel momento). I Mistery Jets li ho persi, e dai We Are Scientists sono arrivato che stavano caricando il furgone degli strumenti, ma ero con la cosa più simile a Kate Moss trovata sulle strade di Austin, quindi tutto sommato non avevo molto di cui lamentarmi.
E infine: now it can be told. La migliore band vista in tutto il SXSW è una band di cui non sentirete mai parlare e io stesso me ne sarei dimenticato il nome e l'esistenza non avessi preso un appunto sul retro della ricevuta di un taxi: si chiamano Lovetones, vengono da Sidney, e - thank-yoo Google - ecco il loro sito internet. Per venti minuti sono stati la mia band preferita del mondo intero. Sono entrato nel posto dove stavano suonando perchè dalla strada (la Sesta) sentivo arrivare un pezzo che pareva vagamente un pezzo alla Rem, e loro erano talmente neopsichedelici, paisley e fuori-tempo che non sono riuscito ad andarmene finchè non hanno appoggiato gli strumenti. Credo che se non li avessi visti e non ve lo avessi raccontato, forse non avrei mai più avuto l'occasione di scrivere l'aggettivo "lisergico" per tutto il resto della mia vita. Grazie, Lovetones, per avermi fatto intravedere il futuro: un mondo in cui tutte le band potranno essere la band preferita di qualcuno per venti minuti. Oppure la band preferita di venti persone per tutta la vita. Oppure la ventesima traccia nella playlist dell'iPod di Tommy Lee il venti marzo del 2007. Insomma, così.
Da Atlanta Hartsfield-Jackson, dove sono più o meno le tre del pomeriggio, è tutto. Ho visto che c'è un fast food messicano al Gate 9 del Concourse C («C like in: Charlie», come dice la voce registrata del treno navetta), e mi sa che vado lì. Se incontro Catherine Z Jones faccio un update, altrimenti ci sentiamo da Milano i giorni prossimi.
Titoli di coda: Le citazioni nei titoli delle corrispondenze da Austin erano di: Polaroid (Affittasi ubiquità), Soulwax (NY Excuse), Wall Of Voodoo (Mexican Radio), Jackson Brown (Running on Empty). La tecnologia per le telecomunicazioni cellulari da Austin è stata offerta da: M-O-D. Gli abiti di fdl erano di: Almanacco, Prada, H&M. La domanda lasciando Austin: What Made Milwaukee Famous? La risposta: The Violent Femmes, Happy Days, Lueeeza Mann. |
I feel a hot wind on my shoulder (and the touch of a world that is older) a Ecco, volevo tirarmela da fico che ero l'unico italiano ad aver visto i Tapes'N'Tapes - cosa che è costata un intero pomeriggio di depistaggio agli altri del contingente tricolore al SXSW («no, non credo di andarci, ma davvero voi volete andarci?, boh, non è che ci sia tutto questo buzz dopotutto, no, magari un salto da Billy Bragg piuttosto») - e invece pare che c'era pure lei. Che un po' me l'immaginavo, e infatti mi sono pure guardato in giro, ma a meno che adesso non sia bionda e non vestisse un parka verde io mica l'ho vista. Ma andiamo per ordine. Anzi, non andiamo per ordine e cominciamo dalla fine: i Tapes'N'Tapes. Che a me già sentiti in giro per blogghetti in rete non è che m'avessero fatto impazzire, ma è notorio che io di qualunque cosa sia più complessa di un disco di Tiga non ne capisco un cazzo, quindi non vuol dire. Ieri, di fronte ad un pubblico per metà composto da gente che legge Pitchfork e per metà da gente che scrive su Pitchfork, sono stati più interessanti. A me paiono un riuscito incrocio tra i Pixies, i Dire Straits e la sirena di un'ambulanza, e prima di dire che è una stronzata ragionateci un attimo - ripeto: ragionateci un attimo - e vedrete che è esattamente così. E nella stupidera da jet-lag ieri notte si è pure concepita la loro tribute-band messicana: i Tapas'N'Tapas (ultimo di una lunga serie di gruppi nati dalla stupidera da jet-lag tra cui spiccano "The Soundchecks", il cui primo album si intitola Check-One-two, Check Check).
Ma andiamo per ordine. Anzi, non andiamo per ordine: Band Of Horses. Allora: io fino a ventiquattrore fa sono vissuto - e piuttosto bene, devo dire - nella totale ignoranza circa l'esistenza dei Band Of Horses da Seattle. Questo non vuole ovviamente dire nulla (io, vi ricordo, sono quello sinceramente convinto che lo Go Go's siano state la più grande band americana mai esistita). Poi ieri pomeriggio, mentre ero a spasso col mio fotografo, abbiamo incontrato un suo amico dei tempi in cui lavoravano entrambi per NME che avrà detto le parole "next", "big" e "thing" - in tutte le possibili permutazioni grammaticali - almeno una quindicina di volte. Così, per evitare la spiacevole situazione di aver avuto l'occasione di testimoniare la nascita dei nuovi Nirvana ed essere invece andati a vedere gli Snow Patrol, si è deciso di andare. Ovviamente nulla dicendo al resto del contingente italiano («sisisì, ci vediamo dagli Ok Go, cerrrrto, non me li perderei per nulla al mondo!»), hai visto mai ci fosse almeno qualcosa di cui potersi finalmente bullare al ritorno a Milano. Quindi: ore 23, party della Sub Pop. Per il quale alle 22 c'era già una coda che faceva il giro dell'isolato. Alle 22 e 30 la SXSW-democrazia del "tutti fanno la stessa fila, quelli col pass come il pubblico normale" aveva già lasciato posto ad una più consueta doppia fila giornalisti/resto del mondo (in cui quella dei giornalisti lentamente ma si muoveva, quella dei comuni mortali invece restava lì dov'era alle 22). Alle 22.45 la situazione andava lentamente italianizzandosi con alcuni della fila-giornalisti che cominciavano a srotolare gli equivalenti in lingua inglese del nostro «you don't know who I am». Alle 22 e 55 una specie di pierre milanese, solo che non era milanese, è uscita, ha guardato la fila dei giornalisti, ha detto «tu, tu e tu» una quindicina di volte e prima che io avessi il tempo di apostrofarla con «la proporrò per il ruolo di kapò» è scomparsa dentro con i quindici prescelti. Tutto ciò senza che dalla fila dei comuni mortali - che, vi ricordo. era immobile da oltre un'ora - volasse una sola sillaba che fosse una di protesta. Poi uno dice Neil Young e Ohio e che non son più gli anni Settanta. A quel punto ero il primo della fila (dei giornalisti), e ho chiesto lumi all'anziano bonario signore che regolava gli ingressi. «Th'y're press people from New York» mi ha detto facendo spallucce. «But I'm press people from Italy!» gli ho detto, e cinque minuti di «c'mon», «you know», «you like pizza don't you? pasta?», «the friendship between the american people and italian people», «amico George», e «I know Stefano Pistolini» più tardi, non so se mosso a compassione o convinto di avere di fronte un inviato del Foglio, ma ha parlamentato con la pierre milanese di Nuova York e mi ha fatto entrare. Ecco, si diceva i Band Of Horses. Quelli che secondo il tipo di NME dovrebbero essere la prossima grande cosa. Quelli che comunque appena rimetterò piede sul suolo italico mi bullerò tantissimo con chiunque di averli visti («oh, ancora non li conosci? ah, capisco, sì qui in Italia non sono ancora arrivati, vero?»). Ecco: i Band Of Horses sono un gruppo di montanari del cazzo che suonano come la somma algebrica di Giardini Di Mirò e Jeff Buckley, e quindi non sono affatto male, no, Sembrano avere un contorto rapporto con la religione - oltre che con i tatuaggi e con la nozione di facial hair. Cioè, interessanti. Molto intensi. Oh, che cazzo, tanto lo so che se diventano di moda poi finiranno per piacermi, lo so.
Qualcuno che invece mi è piaciuto senza dovermelo giustificare attraverso la solita complicata architettura di pippe mentali: i White Rose Movement. Che messi su un palco grande come quello dove erano ieri non sono ancora bravissimi come dovrebbero, ma già sono qualcosa, e comunque con loro ero partito favorevolmente prevenuto già in partenza. Il cantante sembra un Federico Fiumani palestrato, e loro suonano come una media ponderata tra Joy Division e Human League, o tra DAF e Cure. Gotici senza essere gotici (tranne un poco).
Momento vecchiazza: il concerto di Peter Holsapple & Chris Stamey. Che vent'anni fa stavano in una band chiamata The dBs, che io ascoltavo - teenager - a metà anni Ottanta, quando c'era la neopsichedelia e i Rem erano una band tipo i Band Of Horses oggi (nel senso di montanari del cazzo). Lo so, lo so che c'erano mille cose più interessanti a quell'ora ieri sera (ad esempio: gli Arctic Monkeys a La Zona Rosa), ma io non ce l'ho fatta: volevo vedere Holsapple & Stamey dal vero, sentivo che me lo dovevo. Era come andare finalmente in un posto del quale leggevi quando eri bambino. Holsapple pare il morphing tra Teddy Reno, l'agente Mulder di X-Files e Prince. E ovviamente hanno fatto un sacco di pezzi vecchi che un sacco di vecchiazze come me - ma conservate infinitamente peggio di me, io lì dentro spiccavo agevolmente per figaggine, il che ve la dice lunga sul gerontocomio che era - cantavano in coro colle lacrime agli occhi. Adesso mi rimane ancora da vedere dal vero Mitch Easter, quando capiterà, e poi posso morire contento.
Stasera questo:
Totale band viste fino ad oggi nelle quali è riscontrabile un'influenza più o meno dissimulata degli Smiths: 29.
Ehi, ieri mattina ho dato un passaggio in taxi alla fidanzata di uno dei Measels Mumps Rubella!
E' circa mezzogiorno, e da Austin è tutto. Mi sa che ci sentiamo domani, durante il remake di The Terminal che metterò in scena all'aeroporto di Atlanta. Bye bye. |
This is the excuse that we're making (is it good enough for what Ezio Mauro pays? He pays!) a Non siamo più homeless: grazie a quanti si sono preoccupati ed hanno mandato i numeri di lontani parenti emigrati in Texas ai quali rivolgerci in caso di estremo bisogno. In compenso ieri pomeriggio c'è stato un fantastico momento "italiani all'estero" quando i Linea 77 hanno incontrato gli studenti di una locale scuola di Italiano che chiedevano loro opinioni su Cesare Pavese e Pier Paolo Pasolini, e loro rispondevano citando gli Husker Du. I Linea 77 sono il motivo principale per cui io e il mio fotografo siamo qui. Cioè, in realtà in origine il motivo dovevano essere soprattutto i Subsonica, «la band italiana che riempie i palasport conquista Austin!» you know, non fosse che i Subsonica sono riusciti a non farsi fare in tempo i visti d'espatrio e quindi, ciao ciao, sono rimasti a piazza Castello a succhiare gianduiotti, e noi invece, uhm, ormai i voli erano pagati, i motel più o meno pagati e, beh, alla fine anche i Linea 77, «in fondo vengono da Torino, la citta conosciuta in tutto il mondo grazie alle Olimpiadi invernali!». È stato molto divertente, ieri sera, quando sono saliti sul palco e - di fronte ad un pubblico composto al 90% dal contingente italiano al SXSW (e cioè, a parte io e il fotografo, gli undici del learning trip di Mtv, "le ragazze di Arezzo Wave" Silvia e Giusy, Teone Superstar e gli studenti della scuola italiana) - hanno detto: «buonasera Austin, siamo i Subsonica». E a questo proposito:
«Gioca anche tu a "Disco Labirinto": aiuta Samuel e gli altri Subsonica a trovare i loro visti d'espatrio in tempo per l'edizione 2007 del SXSW!»
Ecco. Ciò detto, anche il posto dove hanno suonato i Linea era piuttosto divertente. Si chiama Spiro's, e ormai ho capito che quasi tutti i posti ad Austin appena entri sembrano dei cazzo di baretti del cazzo, ma poi scopri che ci sono tunnel che conducono a camere di decompressione, che portano a stretti corridoi, che sbucano in eleganti cortili, da cui sali in arieggiate terrazze, che hanno delle porticine da cui accedi a polverose soffitte, in cui c'è un pertugio attrvaerso il quale scendi dentro spartane ma confortevoli stanzette dentro cui c'è un gruppo che suona. Ecco, la stanzetta in cui ieri sera hanno suonato i Linea era tutta foderata di motivi a capitello corinzio in polistirolo rosso e blu.
Per tutto il resto della serata, invece, ero sempre nei posti o mezz'ora troppo presto o mezz'ora troppo tardi. E quindi: non ho visto Morrissey, non ho visto Helios Creed (che peraltro credevo fosse morto dieci anni fa, e forse è morto veramente dieci anni fa, ma quello che fa il castin al SXSW non lo sapeva), non ho visto Whitehouse. Ho visto invece i Fiery Furnaces, nello stesso posto in cui l'altroieri sera c'erano Belle & Sebastian (e in effetti sembravano dei B&S più funky, e Eleanor è fantastica anche se ero troppo lontano per capire nei dettagli come fosse vestita). E ho visto, per puro caso, una band che dovrebbe chiamrsi The Double che sembrava un incrocio tra gli Smiths ed i Pink Floyd epoca concerto a Pompei. E un'altra canadese, Nadja, che sembrava i Factrix e che quando ho chiesto al loro fonico come si chiamavano e ho aggiunto «però, mica male per essere ancora un soundcheck» lui mi ha risposto che stavano già suonando da mezz'ora. (Sì, la mezz'ora che avrei potuto impiegare per aspettare il concerto di Morrissey).
Stasera questo:
ma come sempre, poi, chissà.
Ieri ho visto un americano che metteva una bustina di dolcificante dentro la sua Coca Cola. |
Per quanto tu possa provare a fregare i ritmi circadiani, alla fine saranno sempre loro a fregare te a La radio nella lobby del motel su Gessen Drive (sarebbe un hotel, ma io mi rifiuto di elargire la qualifica ad un luogo dal quale è impossibile allontanarsi con il solo uso delle proprie gambe) sta suonando Dead Leves and the Dirty Ground, e fra esattamente un'ora io e il mio fotografo saremo di nuovo homeless in Austin. Ormai ci siamo abituati, visto che in due giorni che siamo qui è la terza volta che ci succede. Vi risparmio i noiosi dettagli burocratici: storie di prenotazioni cancellate per errore da persone che avrebbero dovuto cancellare le prenotazioni di altra gente, sommate al fatto che da ventiquattr'ore su Austin è calato mezzo milione di homeless come noi che hanno occupato qualunque stanza d'albergo disponibile. Di questo motel mi mancherà tantissimo la cable tv con dentro una specie di Videomusic locale che a qualunque ora l'acendessi sembrava mandare solo hit minori di country-indie metà anni Ottanta (tipo: There's a Bend in the Road di The Band Of Blacky Ranchette).
Invece, ieri sera. Me l'avevano raccontato, che nei giorni del SXSW il centro (o meglio: il gruppo di strade che incrociano la East 6th) diventa una specie di Città dei Ragazzi, di Disneyland dell'indie-rock, ma vi assicuro che vederlo è un'altra cosa. Collodi doveva avere in mente qualcosa di simile quando si è inventato il Paese dei Balocchi di Pinocchio. Una perdita d'occhio di bar e baretti e locali e localetti, uno attaccato all'altro, quasi tutti a ingresso gratis, dai quali esce la musica di decine di centinaia di gruppi da tutta l'America e talvolta anche fuori. La regola è: cinquanta minuti a gruppo e dieci per cambiare il palco. La maggior parte sono gruppi e gruppetti sconosciuti, di cui magari hai sentito un pezzo su qualche blog. Poi ci sono anche quelli più conosciuti ed i secret gig (tipo ieri sera i Flaming Lips, credo ne parlerà oggi pomeriggio M-O-D), ma il punto è che tra una venue e l'altra ci sono al massimo dieci minuti a piedi, e questo involontariamente fa del SXSW l'esperienza di consumo musicale più moderna che sia possibile immaginare proprio perchè vicinissima - praticamente indentica - a quello che sta diventando il modello di fruizione della musica indie più diffuso oggi: un pezzetto qui, un pezzetto lì, un mp3 sentito in rete, un altro che ti ha mandato un amico. E dunque qui: un posto in cui entri perchè ti piace quello che senti dalla porta, un pezzetto di concerto a cui vai perchè te l'ha consigliato uno dei cui gusti ti fidi, un altro di cui hai letto. Una specie di modalità blog esportata in 3D, nel mondo reale. Per me - che dopo mezz'ora faccio fatica a non annoiarmi a qualunque concerto (tranne gli LCD Soundsystem) - è una mano santa. Ma è ovvio che può funzionare soltanto qui, a queste condizioni, limitatamente ai quattro giorni del festival. Il Paese dei Balocchi, appunto.
Poi, alla fine, ieri sera niente José Gonzalez e niente Annie: siamo arrivati tardi e c'era una coda infinita per entrare (i pass laminati del SXSW non servono a saltare la fila, e io la trovo una cosa di grande democrazia). Così dietro consiglio del mio fotografo siamo andati a sentire un giovanissimo cantautore del Massachusset - di cui, tipicamente, ancora non sono riuscito a imparare il nome, che dovrebbe contenere una roba tipo "Nelson": io è da ieri che quando voglio parlare di lui lo chiamo alternativamente Willie Nelson, Nelson Mandela e Ammiraglio Nelson - e dovrebbe, in teoria, avere una piccola hit al suo attivo intitolata Oxygen. Molto ventenne e molto John Lennon ventenne. Vedendolo ragionavo sulla ormai avvenuta ricostruzione del continuum, ma su questo vi tedio un altro giorno.
Poi Belle & Sebastian. Sì, c'erano pure loro. In un posto che ci entravi e sembrava il cortile di uno sfasciacarrozze, poi entravi dentro una costruzione che sembrava un chiosco degli hamburger (forse perchè era un chiosco degli hamburger), poi finalmente uscivi sul retro e ti trovavi davanti ad una roba grande più o meno come la vallata di Glastonbury, piena di tutti gli indie filo-britannici del Texas. E B&S, visti così lontani da casa, sembravano ancora più marziani e piovuti sul palco per caso del solito. Voi che li conoscete bene, dov'ero io quando loro scrivevano una canzone che dice più o meno «quando tu eri disco io ero punk», o qualcosa del genere? Su una base elettronica wannabe-ironica? Faceva molto ridere, ieri sera. Anche se due secondi dopo eravamo già via di lì, a cercare la mia nuova band preferita del mondo intero, i Coloured Shadows da Los Angeles, che sono un specie di cosmica risultante di Smiths e Spacemen 3, e sono talmente fighi (nel loro sembrare una banda di malinconici teenager appena rifiutati dal casting-comparse di O.C.) da non aver fatto l'unico pezzo un minimo famoso del loro repertorio, Tiger Mask.
Poi dovevamo andare a sentire il gruppo sul cui essere la prossima grande cosa ho rotto le palle a chiunque nelle ultime quarantott'ore, gli You Say Dance? We Say Die!, ma il mio fotografo voleva andare a salutare i suoi amici ...And You Will Know Us By The Trail Of Dead (e ha vinto lui perchè tra i due i Trail Of Dead avevano sicuramente il nome più stronzo) e lì ci siamo attardati e quando siamo arrivati gli You Say avevano appena finito di suonare, così abbiamo deciso che il fenomeno You Say Dance? era «sooo yesterday afternoon» e che chiunque fosse andato a vederli era vecchio.
In giro per la città ci sono i cartelloni pubblicitari di una cosa chiamata safedate.com attraverso la quale ogni prosperosa ragazza del Texas in età da dating può richiedere la fedina penale del tipo che le ha chiesto un appuntamento.
Castanets perchè mi piace il loro pezzo intitolato All That I Know To Have Changed In You; Jose Gonzalez ed Annie per fedeltà alla causa norvegese; Ad Astra Per Aspera non ho idea di chi siano nè cosa suonino, ma un nome così ha già vinto lo speciale premio «ho fatto alcune decine di migliaia di chilometri solo per potervi vedere in faccia»; Colored Shadows perchè il loro pezzo che si intitola Tiger Mask mi piace veramente molto; The Rakes li ho messi per simpatia ma non credo che poi ci andrò. Anche perchè poi questa è solo una wishlist: poi alla fine - già lo so - chissà dove finirò. You Say Party! We Say Die! perchè vado dicendo a tutti che sono «i nuovi Tapes'N'Tapes» (laddove nel lingo del SXSW i Tapes'N'Tapes sono i Franz Ferdinand del 2006). Austin ore 9.20 del mattino: a oggi pomeriggio con i primi racconti. |
Se tutto va bene ci si sente da qui tra una ventina di ore. Nel frattempo buon ascolto con la nuova playlist qui sulla destra e la nuova puntata di Conversation Intercom. |
That used to be a journey into sound, but maybe it isn’t anymore a
Boh. Come ci si dilungava anche nella colonna qui a sinistra i Coldcut sono dei geni. Indiscutibili geni del Ventesimo Secolo il cui nuovo album Sound Mirrors è, per loro come per noi, un degno inizio di Ventunesimo. Sfortunatamente però il concerto di ieri sera a Milano è stato una delle cose più di legno che si ricordino a memoria d’uomo. Perché? Probabilmente perché - nonostante tutti i bei discorsi teorici sulla plurisensorialità, sul multipiattaforma e sull’abbattere la parete che separa esperienza acustica ed esperienza visiva - vedere un videowall di immagini a tempo con la musica è qualcosa che sa comunque spaventosamente di vecchio, oltre che di incredibilmente passeé al tatto. Il video scratch - in ciò perfettamente omologo al suo antico cugino turntablista di campagna, lo scratch - è un virtuosismo faticoso da seguire (per l'intera durata di un concerto) e che annoia dopo cinque minuti, nonostante i Coldcut l'abbiano portato ad un livello di avanzamento tecnologico e stilistico senza precedenti. Ciò che negli stessi concerti dei Coldcut dieci anni fa affascinava, oggi annoia: perchè di fatto l'unica vera novità da dieci anni a questa parte riguarda chi il video scratch lo fa (ed ha oggi a disposizione software prima inimmaginabili), non chi lo guarda. Per noi che si era in platea era - è triste dirlo, ma è così - tutto un darsi di gomito, tutto un dirsi l'un l'altro «ma che, ancora lo scimmione del Libro della Giungla che balla a tempo?», «ancora le motoseghe che strappano in battuta?», «ancora Back In Black degli AC/DC?».
Ciò detto loro rimangono dei geni e guai a chi dice il contrario. E non è neanche vero che non ci provino a rendere l'esperienza «plurisensoriaaaale» del loro concerto qualcosa di nuovo, inedito e coinvolgente. C'è in realtà uno sforzo di “regionalizzazione” (come direbbe un product-manager della Barilla) abbastanza buffo: il google maps dinamico che a inizio set zooma dalla stratosfera fin sul tetto dei Magazzini Generali, ad esempio, intriga. Già visto, ok, ma fa la sua figura. E pure lo scratch con la scena di un film di Benigni (non uno degli ultimi: secondo me era Berlinguer ti voglio beneJohnny Stecchino) faceva ridere. E lo scratch con Berlusconi trasformato in burattino de legno non faceva ridere - troppo Striscia La Notizia - ma apprezziamo ugualmente lo sforzo, immaginando che in ogni paese dove vanno a suonare si preoccupino di fabbricarsi dei video scratches ad hoc con filmini vintage del comico più amato e del politico più odiato dal loro pubblico locale.
Alla fine, come quindici anni fa, quando tutto è cominciato, la cosa che riesce meglio loro è giocare con la tecnologia facendola sembrare una cosa molto buffa e molto amica: ad esempio allestendo un trasmettitore in sala che per tutta la sera mandava - a chi aveva un bluetooth - allegri messaggini e video podcast («multipiattaformaaaa!»). E la versione di Paid In Full (Seven Minutes Of Madness) di Eric B & Rakim che hanno fatto verso la fine era commovente come per un coetaneo di Dylan sentire Blowing in the Wind acustica. Ma se non siete vecchiazze non potete capire. |
“Non si agiti, signor De Luca. Ecco la sua minestrina” Sono vecchio, e come tutti i vecchi mi ripeto. Anzi, come tutti i vecchi ho uno o due argomenti e ripeto sempre quelli. Ad esempio: se ci conosciamo anche nella vita reale oltre che qui sul blogghetto (ma credo basti che ci conosciamo anche solo per telefono) è probabile che vi abbia già recitato il mio cavallo di battaglia dal titolo “in Gran Bretagna sì che lo sanno suonare, il rock”. Dice più o meno così: «una volta che ero a Londra, sarà stato il dicembre 2004, comunque era il periodo in cui ormai si era capito che a Londra il rock aveva superato la dance in quanto a centralità, beh, per rendermi conto di quello che stava succedendo realmente nell’underground delle cantine [adoro il passaggio in cui dico: «rendermi conto di quello che stava succedendo realmente nell’underground delle cantine»] sono andato a una serata di band emergenti in un pub con biliardo di Islington. Ma una serata sfigata, con gruppi di sedici-diciottenni di cui nessun giornale aveva mai scritto, che non avevano neanche un disco fuori. Beh, non ci crederai/crederete, ma anche la più sfigata di quelle band di sedici-diciottenni aveva un tiro che qui in Italia ce lo scordiamo. Lì si che lo sanno suonare, il rock». In genere conclude il pezzo l'amara constatazione che: «ma lì, del resto, ascoltano i Kinks sin da bambini».
Beh, la notizia è che una di quelle band che ero andato a vedere nello sfigato pub con biliardo vicino a Islington ce l’ha fatta, sono praticamente i nuovi Arctic Monkeys. C’era un articolo su di loro su Dazed & Confused di questo mese e Green Pea-Ness l’altroieri ha messo online il loro primo singolo To The Ramones. Si chiamano Dustin Bar Mitzvah, e possedessi uno scanner vi appiccicherei qui sopra il flyer del pub sfigato con biliardo in cui si annunciavano i Dustin Bar Mitzvah e il biglietto da visita che il loro manager (Peter Clack, chissà se è ancora lui) mi diede la sera prima al Death Disco di Alan McGee. |
Il collettivo di djs Compl8 (Painè, Lele Sacchi e compagnia suonante) ha aperto un blog. Non ci scrivono tanto (ehi, sono pur sempre dj, they are what they play), ma ci segnalano le serate e soprattutto ci mettono on line i loro flyer che - da sempre - sono i migliori in circolazione a Milano. Tipo quello (ancora in bozza) riprodotto qui sopra. |
Tiga @ Magazzini Generali(Milano, venerdì sera) Location. Beh, il venerdì sera dei Magazzini rimane la migliore, e la più europea, serata di clubbing di Milano. L’unica in cui non sembra di stare all’outlet della Conbipel o a una riunione creativa della Publicis. L’unica in cui, addirittura, pare quasi di non essere a Milano. In realtà basterebbe pochissimo per fare del venerdì sera dei Magazzini una serata perfetta: basterebbe solo che qualcuno si decidesse a versare del topicida nel Cosmpolitan della vocalist transgender, quella che in una vita precedente era un centralino di taxi e in questa vita anche, solo che anzichè rispondere al telefono dell’8585 parla al microfono di una discoteca. Look. Tiga, il principe dei metrosexual, arriva alle due passate bardato con: t-shirt bianca con il disegno di una bandiera nera (no, non quella dei Black Flag, che nel caso gli avrebbe dato già in partenza dieci punti qualità. Una cazzo di bandierina senza arte né parte e senza senso. E in più la maglietta non sembrava esattamente nuovissima. Nè lavata di recente). Pantaloni della tuta. Berretto camionale della Turbo Recordings (la sua etichetta). Catenina d’oro della prima comunione al collo (non ho controllato ma probabilmente c’era anche la medaglietta con l’angelo custode). Orologio da subacqueo. Le scarpe non le ho viste ma - figurarsi - saranno state delle cazzo di trainers bianche super-tecniche, super-pump e super-kevalr-coated-carbon-sole. First tune. Boh, era un cd. Secondo me è una roba che ha fatto lui in studio, molto acida, con un riff sul genere del remix di Washing Up di Tomas Andersson, stile “ignorante che piace” insomma. Highlights. Mica tanti a dire il vero. Poco che non si fosse già sentito mille altre volte (anche nella radiolina qui sulla destra, ad esempio). Un remix carino del pezzo insopportabile dei Royksopp; Banquet dei Bloc Party (credo il Phones Disco Edit, comunque non era molto diverso errata corrige: era il nuovo Boyz Noize remix). Ha messo i Soulwax? Si, la versione di NY Lipps che qualunque dj chiavetta potrebbe scaricarsi da Limewire... Feedback. Enorme. Quando è partita You Gonna Want Me c’è stato un boato e poi tutti hanno cantato in coro il ritornello. Quando ha messo Washing Up sembrava di stare a un concerto di Vasco Rossi. Self control (u-o-oh). Uh, parecchio. Quando al secondo disco gli è partita una puntina (scrreetchhhh) e quando dieci minuti dopo gli è partita pure l’altra puntina (scrreetchhhh), e non si trovavano le sostituzioni, e intanto un beota arrampicato alla consolle continuava a urlargli nelle orecchie «Tiga, Tiga, Tiga!» allungandogli un foglietto e una matita per l’autografo, e quando finalmente per farlo smettere Tiga ha preso foglietto e matita e gli si è rotta anche la punta della matita, beh, conosco gente che per molto meno avrebbe profferito bestemmie davvero pesanti. Celebrity spotting. Hmm, scarsino. L’unica (pseudo) celebrity che ho riconosciuto è una commessa di H&M San Babila. Ah, e da lontano ho visto anche un Teone molto stravolto. Quindi, tirando le somme? A me Tiga sta simpatico, al suo disco nuovo continuo a non riuscire a trovargli un singolo difetto, e venerdì sera è stato anche più divertente delle altre due volte che l’avevo sentito (il che probabilmente vuol dire che le altre due volte è stato bravo e ieri ha fatto cagare. Il problema siamo io e la mia tamarraggine congenita: io sbadiglio quando sento suonare Ritchie Hawtin). Poteva inventarsi due fuochi d’artificio in più, ma pazienza: gli si vuole bene uguale.
Borut @ Circolo Arci Magnolia(Linate, sabato sera) Location. Si, ok, la location era un filo meno europea dei Magazzini. Si, ok, sembrava un autogrill dell’Europa dell’Est, e il nome non era nemmeno un tributo a Paul Thomas Anderson (e neanche a Giogio Gori: è il nome dell’antico circolo ricreativo nei cui locali etc etc etc). Si però anche voi che palle, che incontentabili. E poi è stato bellissimo arrivarci, lì all’autogrill, in un posto tra l'Idroscalo e l'infinito che Lynch ne andrebbe pazzo, e scoprire che la serata era in maschera. «Da che saresti vestito?» mi ha interrogato la facente funzione dell’Arci alla porta. «Uhm, da Bret Easton Ellis, lo scrittore». «Da che?». «No, hai ragione. In realtà sono vestito da quello che in “Lunar Park” va alla festa di Halloween travestito da Patrick Bateman, quindi in realtà sarei un alter-ego dell'alter-ego di Bret Easton Ellis, non Bret Easton Ellis». «Ah, boh. Vabbè, entra». È stato un grande conforto constatare che le mie scarpe di Prada e la giacca Ralph Lauren, cioè il mio travestimento da Patrick Bateman, mi hanno aperto le porte di un posto nel quale il più elegante era avvolto in un lenzuolo ed aveva in testa le decorazioni di vischio rubate a Natale a casa della mamma («sono il poeta Virglilo»). Per un attimo giuro che Patrick Bateman stavo quasi per diventarlo veramente. Look. Felpa in stile rave 1988/concerto degli Altern8 (molto cool); orologio vintage periodo Tron; jeans; berretto camionale della Riotmaker ma con il logo scucito via (cool supremo!). Le scarpe non le ho viste ma di certo non saranno state delle trainers bianche super-tecniche, super-pump e super-kevalr-coated-carbon-sole. First tune. E chi lo sa? sono arrivato che stava suonando Weekend di Patrick Adams presents: Phreek e della notevole hip-french-house. Highlights. Parecchi. Su tutti, per quanto mi riguarda, il remix di quella crostazza anniottanta intitolata Precious Little Diamond, quella che iniziava con la voce che ululava «uuuu-u-u-uuuuuuuu» (secondo me è un remix di Jess & Crabbe, lo stile è quello). Ha messo i Soulwax? Il ricercatissimo remix dei Justice di NY Excuse. In vinile. Feedback Pista riempita su Feeling For You dei Cassius: oh, c'è da non crederci a come tira il french-touch a Linate... Celebrity spotting. Il genere di celebrities che ti aspetteresti citate dentro una canzone degli Offlaga Disco Pax. Quindi, tirando le somme? Come dico sempre, Borut è il numero uno dei giovani emergenti italiani. È uno il cui stile non è definito dai dischi che escono in giro, ma dai suoi gusti e dalla certosina ricerca di dischi che coincidano con tali gusti. Se solo lui e il suo socio ‘Lil Boso imbroccassero con gli Scuola Furano un singolo alla Zdarlight si aprirebbero per loro le porte del Fabric e del The End, e sarebbe la cosa giusta. Ma succederà, prima o poi. |
Non un weekend senza la giusta colonna sonora Alla vostra destra la nuova playlist. Singoli nuovi di Joachim, Annie, Tomas Andersson, Sandie Shaw che reinterpreta i Led Zeppelin, un pezzo dal disco dei Flaming Lips che a quanto pare tutto il mondo già odia, etc etc etc. Giusto per completezza d’informazione, di Your Kisses Are Wasted On Me delle Pipettes qui c’è anche il video. PS: prima o poi sulle Pipettes voglio scriverci un saggio di almeno 150 pagine, e naturalmente il fatto che la Pipette con gli occhiali sia il mio nuovo sex symbol non c’entra nulla.
Intanto è online anche il nuovo episodio di Conversation Intercom. Al cui proposito: qui il link esatto all’articolo del Guardian che durante la telefonata mi ricordavo a sprazzi, quello che rivela che di storie di cowboy dalla controversa eterosessualità alla Brokeback Mountain già ne cantava 25 anni fa un cantautore (amico dei Sonic Youth) di nome Ned Sublette. |
Ovviamente già li conoscete, visto che il disco è uscito da più di un anno (adoro questi stupidi disclaimer che ci fanno sentire tutti quanti molto in the know)... ma stamattina, cercando immagini per il definitivo articolo sul nouvellevagueismo dei nostri tempi, mi sono imbattuto nella loro pagina MySpace e non ho resistito. |
Non abbastanza mandarini per dire che Ligabue è stucchevole, questo è il problema Tentando di applicare al mondicino pop musicale i parametri della polemica che sta scuotendo fin nelle radici il mondo letterario nostrano, la morale è che alla fine non si è mai letto, mai, neanche per scherzo, un Castaldo o un Fegiz scrivere - parlando, chessò, dei Negramaro - «Che distanza abissale dalla stucchevole e ammiccante epica dell’ultimo Ligabue!». Forse perché noi del mondicino musicale si ha una classe innata. Forse perché pure i Negramaro sono stucchevoli, tutto è stucchevole e dunque chissenefrega. Oppure forse no. (PS: ovvio che la frase di Ferroni è odiosa e che BRK ha ragione da vendere: infatti il punto qui è un altro, è il prendersi la libertà di scrivere una stronzata scorretta solo per il gusto di scriverla, fosse anche solo per fare una battuta ad effetto, sapendo che puoi farlo, che non ci sono ragioni di convenienza, di quieto vivere e di lesa maestà che vengono sempre e comunque prima del gusto di scrivere una stronzata ad effetto) |
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