I ♥ Pet Shop Boys: anche tanti anni dopo
 

di: Fabio De Luca




C’è stato un momento, anni fa, diciamo più o meno una decina, in cui la mia passione per i Pet Shop Boys e la loro musica fu talmente grande, orgogliosa e militante da far brevemente dubitare amici e parenti della mia eterosessualità. Questo valga giusto come premessa, come indicazione che - pur passati dieci anni, pur avendo da allora i Pet Shop Boys consegnato alla storia i dischi meno rilevanti della loro carriera, pur essendo anche il nuovo Fundamental uscito a metà maggio tutt’altro da quel che il titolo suggerirebbe - qui si ha nei loro confronti una vera e duratura ammirazione, in parte razionale e ponderata e in parte puramente emotiva, di pancia. E oltre che come premessa valga anche come promessa che le righe a seguire saranno un peana retrospettivo senza (quasi) contraddittorio, un piccolo monumento alla memoria.

Cos’è ad aver reso i Pet Shop Boys così speciali? Probabilmente il fatto di aver rappresentato - caso più unico che raro nel pop moderno - la perfetta quadratura del cerchio, la sintesi degli opposti. Erano pop da classifica, ma ci intuivi dietro una ampiezza di respiro che permetteva anche al più scafato degli intellettuali di trovare ragioni per amarli. Cantavano storie minime, quasi periferiche, ma con un tono così minimalista da farle sembrare un film di Stephen Frears. Erano ambigui in un modo assai interessante, nel senso che nella loro apparente adesione estetica allo stile elegantone e rampante dell’Inghilterra thatcheriana c’era sempre una nota stonata: una tonalità bassa di troppo, un melanconico accordo di pianoforte, qualcosa che sembrava messo lì apposta a rovinare la festa. Ed erano straordinariamente "veri", "reali": una nozione che in genere fatica ad accompagnarsi al pop da classifica e che paradossalmente permette di leggere la loro storia - almeno tra il 1982 ed il 1992 - come perfettamente parallela e complementare a quella degli U2 di quegli anni. Tanto più gli uni facevano disperatamente di tutto per ricoprire un ruolo messianico e para-religioso - e così facendo risultavano sempre più artificiosi e artificiali (ricordiamoci lo spaventoso live Rattle And Hum del 1988) - tanto più gli altri, solo recitando "Armani, Armani, A-A-Armani, Versace" su una triste base electro (ovviamente Paninaro, che se vogliamo anticipava pure di poco lo stile letterario di Bret Easton Ellis), ne uscivano come gli eroi tragici di un’epoca forse meno superficiale e acritica di qual che si credeva. Il punto di non ritorno per entrambi fu quando, qualche anno più tardi, i PSB ebbero la strana idea di rifare in chiave hi-NRG Where The Streets Have No Name degli U2 (incrociandola con I Can’t Take My Eyes Off Of You di Frankie Valli): appena qualche mese dopo gli U2 uscirono con un album come Zooropa, che rinunciava alla messa cantata ed inaugurava il loro periodo felicemente ibrido e post-moderno. Una coincidenza, ma ugualmente ci ho sempre visto dietro una sorta di saggiamente sereno disegno divino.

Nei Pet Shop Boys il guscio, la confezione, era pura "disco" nell’accezione pre-house che il termine aveva nei primi anni Ottanta, e dunque minimale, meccanica, robotica. Ispirata alla hi-NRG rallentata e quasi industrial di Bobby "O" Orlando (che li tenne a battesimo producendo il primo singolo, West End Girls), e - dichiaratamente - a certo involontariamente geniale techno-pop di casa nostra. Confontate il quasi-parlato sempre di West End Girls con il bridge "Up and down to Beverly Hills..." dentro Masterpiece di Gazebo: la parentela è ovvia, il dna identico. Le vanziniane hit di Gazebo volevano evocare un mondo lussuoso, aristocratico, popolato da star del cinema, playboy e bon vivant, finendo invece per risultare - senza volerlo - meravigliosamente noir, decadenti e perfetta fotografia di un’Impero (l’Italia del made-in-Italy e degli stilisti da esportazione dei primi Ottanta) colto pochi istanti prima del suo declino. Era probabilmente questa decadenza ad affascinare i Pet Shop Boys, che la usarono come chiave di lettura per raccontare l’Inghilterra che era sotto i loro occhi. Anche per questo, in passato qualcuno li ha definiti "The Smiths you can dance to", degli Smiths "con i quali si può ballare", e per quanto paradossale la definizione dice qualcosa di vero, e non solo riguardo la naturale attenzione che i PSB hanno sempre avuto nei confronti delle parole, cosa questa che li accomuna senza dubbio alla band di Morrissey. In qualche strano modo i Pet Shop Boys hanno davvero sempre avuto un canale aperto anche con il pubblico "indie", al punto che nel 2000 - apparentemente una follia, nei fatti un bellissimo momento di spettacolo - sono stati headliners al festival rock di Glastonbury. Fatto che vale quanto Madonna headliner al Coachella di quest’anno, è vero, ma - insomma - ci siamo capiti.

Gli ultimi capitoli, quelli arrivati dopo l’album antologico Discography del 1991 e il geniale inedito DJ Culture - si dice ispirato alla Guerra del Golfo ("Immagina una guerra che tutti hanno vinto/Vacanze permanenti in un sole senza fine") - sono stati rispettabili e sempre di altissimo livello, ma forse meno incisivi dei precedenti. In tal senso il nuovo Fundamental - definitivamente il disco dello sguardo adulto, se non addirittura "anziano", sulle cose - continua la serie. I momenti migliori sono sempre quelli in cui affiorano tracce di malinconia e - quasi - di rassegnazione (Luna Park, Casanova in Hell), quelli in cui si scava tra le macerie del proprio privato e si fanno i conti con quel poco o tanto che si è portato alla luce. La chiave di lettura sembra essere la stessa intuita tra le righe di una canzone forse minore del loro repertorio storico, My October Symphony del 1990. Lì dove dicevano "From revolution/to revelation", dalla rivoluzione alla rivelazione. "Ciò che ci ha sempre motivato è stato il fatto che non solo ci piaceva scrivere canzoni, ma ci piaceva proprio trovare delle idee per le canzoni" dichiarava Neil Tennant qualche mese fa alla stampa inglese. O, per metterla come diceva un’altra loro vecchia canzone (Left To My Own Devices, 1988) "Che Guevara and Debussy/to a disco beat"...

(da: Hot, maggio 2006)