Mercury Rev: in segreta migrazione.
 

di: Fabio De Luca




Le prime parole di Jonathan Donahue sono "do you know the Fibonacci spiral?", hai presente la spirale di Fibonacci?, e - certo - chi a questo mondo non ha presente la spirale di Fibonacci, i sette rettangoli ognuno contenente un quarto di cerchio, il modello matematico su cui sono strutturati i gusci delle conchiglie, la fioritura delle pigne nonchè (chi l’avrebbe mai detto) la struttura degli umili cavolfiori. Ovviamente noi - che tutte queste belle cose che avete appena letto le si è imparate solo alcune ore dopo, digitando "fibonacci + spiral" su Google - ci si salva con un generico "uh, certo, Fibonacci, il famoso matematico, quello delle conchiglie". Così, sondata la lacuna e appurato che in campo matematico l’interlocutore non gli da tante soddisfazioni, Jonathan Donahue inizia una surreale conversazione in italiano con il cameriere (siamo nella lounge del suo hotel, non al ristorante: giusto perchè non pensiate che qui si scroccano pranzi alla già pericolante discografia italiana), e prevedendo la prevedibile domanda dice: "non parlo italiano [in italiano, ndr], conosco abbastanza il latino, e quindi mi arrangio come posso. Mi faccio capire, e ogni volta che vengo in Italia mi diverto ad imparare parole nuove".
Per farla breve: benchè proveniente dalla luna (o da altro corpo celeste a scelta), Jonathan Donahue è uno che ti sta subito simpatico, e sicuramente ti starebbe simpatico anche non sapessi che è il cantante dei Mercury Rev. Anzi, di più: perchè così non avresti l’obbligo di fargli domande cretine tipo "molti considerano Deserter Songs il vostro capolavoro, siete d’accordo?" e "non aver potuto lavorare con Jack Nitzsche su All Is Dream [lo storico produttore accettò ma poi morì prima di portare a compimento le session, ndr] è il vostro più grosso rimpianto come band?", e potresti invece lasciarlo raccontare di quella volta, due o tre anni fa, quando suonarono a Venezia e Jonathan trascinò tutti in un folle tour di chiese e musei, e di come si persero tra calli e vaporetti e quasi non arrivarono in tempo al concerto. Oggi a Milano piove, manca circa un mese all’uscita del loro nuovo album, The Secret Migration, e stasera i Mercury Rev saranno (come in buona parte del tour europeo) opening act per il concerto di Nick Cave. Al riguardo Jonathan dice che "probabilmente la maggior parte degli spettatori di Nick Cave neanche ci ha mai sentito nominare, ma va bene così, perchè ci costringe a cercare di capire quali sono le persone giuste e raggiungerle". Cioè? "Cioè innescare un ripple effect, quello per cui quando lanci un sasso in una pozza d’acqua si creano delle onde concentriche, e il movimento si diffonde. Non occorre raggiungere tutti, ma raggiungere quelli giusti, quelli che poi parleranno del concerto con i loro amici. Il fatto che non abbiano mai sentito parlare dei Mercury Rev lo vedo come un vantaggio, perchè non avranno pregiudizi sul nostro conto, non ci ascolteranno dicendo "i Mercury Rev sono un gruppo che assomiglia a questo o a quello", ma saranno pronti per riceverci nel loro cuore". "Ripple effect", eh?

Perchè la migrazione è segreta?

Perchè non ne sapevo nulla neanch’io, finchè non l’ho vista riflessa nella gente attorno a me. La migrazione è il cambiamento, e non mi ero accorto che la mia prospettiva stava cambiando fino a che le persone hanno cominciato a dirmelo, a dirmi che ero un uomo diverso da quello che conoscevo.

Ed è successo in seguito a qualcosa di particolare accaduto negli ultimi due anni?

Credo sia qualcosa che è successo in diversi punti della mia vita, ma questa è stata la prima volta che mi sono trovato faccia a faccia con il processo e come funziona. Tutti cambiamo...

E nessuno di noi si accorge del cambiamento finchè qualcuno dall’esterno non glielo fa notare, giusto?

E’ così. Ti dicono che sei più rilassato, che sei più tollerante, che la tua prospettiva si è allargata...

Assomiglia molto a quello che si dice "crescere"...

Certo! Quando sei un teenager tendi a ritagliarti un’identità ed a rimanere fedele a quella, opponendola al mondo esterno. Invecchiando, con l’esperienza, lasci entrare più cose "dentro", sei meno preoccupato di essere cool e più di essere onesto.

E questa è la "migrazione"?

Questa è la prima parte della migrazione, quella che inizia dentro di te, che non ha necessariamente - non subito, almeno - a che fare con un viaggio da un luogo ad un altro. Ha più a che fare con il provare a capire il senso: familiarizzare con concetti come ciclo, cerchio, sinusoide, ritorno...

Molto filosofico...

Molto pratico, invece. Quando capisci questo capisci anche che non è necessario farsi carico di tutto il peso del mondo sulle tue spalle per tutto il tempo, perchè tu non sei che una piccola parte di una corrente più grande. Questo, incidentalmente, ti permette anche di accantonare qualunque idea di assolutismo: il fatto che le cose possano essere soltanto bianche o nere, buone o cattive, Radiohead o U2, Mercury Rev o Flaming Lips... No: sono tutte differenti prospettive e differenti sfumature che possono andare insieme, ed è questo che da loro un senso. Non è "rock o roll": è rock’n’roll, e questo dovrebbe essere un buon esempio...

Però proprio il tuo paese si è trovato di recente a dover fare una scelta politica molto netta, nella quale non era davvero possibile scegliere l’uno e l’altro...

In quel caso la divisione, la polarizzazione, erano inevitabili... dovevi scegliere una parte o l’altra. Ma non è una situazione naturale. È la politica, è la visione del mondo di chi fa la politica ad alimentare la polarizzazione, la divisione, perchè loro per primi hanno una visione molto ristretta, immatura e priva di reali prospettive dell’esistenza.

È curioso quello che mi hai detto fino ad ora, perchè una delle domande che avevo preparato per l’intervista riguardava proprio la sensazione che ogni nuovo disco o ogni nuovo passo avanti per i Mercury Rev non fosse semplicemente un "nuovo disco", ma riguardasse un più complesso insieme di eventi relativi a voi come individui. Il che poi, certo, si riflette anche in dischi mai esattamente uguali al precedente...

Si, perchè in fondo gli strumenti rimangono sempre gli stessi, le scale armoniche rimangono sempre le stesse... sono i musicisti a cambiare, a cambiare come individui, intendo. Per questo, non credo che i Mercury Rev siano un gruppo di cui puoi parlare in termini di "hanno usato quel suono", "hanno lavorato con quel produttore": quella è solo la superficie. Siamo un gruppo di persone, e le cose che ti sto dicendo te le dico adesso: tre anni fa non avrei potuto dirtele perchè non le sapevo, non mi erano chiare, esattamente come un disco come The Secret Migration non sarebbe mai potuto essere così tre anni fa.

Ho origliato qualcosa che stavi dicendo durante la precedente intervista, e parlavi - credo ti riferissi allo studio dove registrate, poco fuori New York - della necessità di un posto "dove ti senti al sicuro"...

Sicuro non nel senso di "al sicuro"... però sì, nella vita di un musicista ci sono dei momenti... oscuri, quando ti accorgi che le cose non stanno per nulla fluendo, che sei bloccato da qualche parte e non riesci a ripartire. Il peggio è quando rimani prigioniero di un’illusione, quando pensi che la via d’uscita sia l’alcool, le droghe, oppure deprecarti e odiare te stesso. Io ho provato tutti e tre, non è un segreto. Ciò che ha fatto la differenza è stato avere attorno delle persone che mi aiutassero a vedere un po’ oltre il mio piccolo mondo di autocommiserazione, ed è questo che intendo quando parlo di essere in un posto sicuro, con persone su cui puoi fare affidamento. Molti musicisti dicono "oh, per me la creazione è un atto solitario, non ho bisogno di nessuno a parte me stesso", io invece so che talvolta cado, che ho bisogno di qualcuno che mi aiuti, e non sarà il massimo del machismo dirlo, ma so che è così, so che ho bisogno di persone attorno a me, so che da solo non ce la farei mai. E proprio perchè nasce anche da queste premesse forse The Secret Migration servirà a qualcuno per - non so - attraversare un momento particolare della propria vita, allo stesso modo in cui quando io ero ragazzo c’erano dei dischi che mi hanno tirato su nei momenti difficili. Lo so, sono cose molto piccole e sottili, non è il tipo di dichiarazione assoluta da rockstar convinta di poter cambiare il mondo, ma credo davvero che siano queste cose piccole e sottili che fanno la differenza.

C’è un momento nella storia dei Mercury Rev che magari per voi sarà stato insignificante, ma che io ho sempre visto come estremamente significativo: quando avete collaborato con i Chemical Brothers e loro vi hanno remixato Delta Sun Bottleneck Stomp. Quello era esattamente ciò che si dice una "esplorazione di possibilità", il confronto tra due visioni del mondo differenti ma in fondo accomunate da una sensibilità, come dire, psichedelica...

Una volta parlando con Tom e Ed ho chiesto loro "com’è che vi siete interessati ai Mercury Rev?", e loro mi hanno risposto che era all’epoca di Boces che si sono appassionati, che l’hanno sempre trovato incredibilmente sonoro, con dei suoni bassi che uscivano dalle casse che non erano esattamente usuali per un gruppo rock. Era una gran confusione di suoni, probabilmente, ma aveva anche molta forza, e loro mi hanno detto che quel disco li ha in realtà molto influenzati nel creare quello che poi sarebbe diventato il loro... sonic boom, il sonic big boom dei Chemical Brothers. È questo è strano anche su un piano più - per così dire - personale, perchè tutte queste cose che ti ho appena detto loro, Tom e Ed, me le hanno dette in un momento per me di grosso dubbio, e mi hanno fatto pensare che forse c’era davvero qualcosa di buono nei Mercury Rev, è stata la prima volta che mi sono fermato a riflettere su me stesso e sul fatto che ciò che stavamo facendo col gruppo forse poteva realmente significare qualcosa per qualcuno. Quando mi hanno chiesto di collaborare a My Private Psichedelic Reel è stata la prima volta in tanto, tantissimo tempo che qualcuno veniva da me dicendo che ciò che stavo facendo aveva un senso. Non gliel’ho mai detto, ma probabilmente loro in quel momento hanno salvato i Mercury Rev. Forse ci saremmo sciolti, forse avremmo smesso, chissà. Ed hanno salvato anche me: ero alcolizzato, e completamente privo di speranza nel futuro della band ma anche nel futuro mio come persona. La loro telefonata mi ha fatto sentire di nuovo parte di qualcosa, capace di fare qualcosa.

Certo che è stupefacente come tu non ti faccia nessuna remora a esporre le tue debolezze, i tuoi momenti di difficoltà...

Non sono una rockstar. Preferisco... dirmi io cosa devo fare, piuttosto che dire agli altri quello che devono fare. E cerco di parlare con l’esempio più che con le parole. Quando sono sul palco sono totalmente aperto, è come se dicessi: "sono qui, potete anche accoltellarmi al cuore, ma io sarò comunque qui a cantare, ad espormi. E anche voi potete avere questa chance: apritevi, vivete la vostra vita".


Una frase, quest’ultima, che troverà la sua più esauriente spiegazione la sera, al concerto. (Concerto che non è improbabile vi siate persi, se venivate da fuori Milano. La regola a Milano, adesso, è che i gruppi di supporto cominciano a suonare alle otto). La sintesi è che Jonathan Donahue è un attore che per puro caso fa il cantante in una band di rock psichedelico. A guardarlo da lontano, sul palco, viene anche in mente a chi somiglia (un quesito latente rimasto irrisolto per tutta la durata della chiacchierata pomeridiana): è una specie di morphing tra Jeff Goldblum e Dudley Moore, con un 3% di Marty Feldman (non gli occhi!). Da vecchio, però, potrebbe essere un credibile Michael Caine. E comunque Donahue è pazzesco. Non è semplicemente un interprete partecipe della propria musica, è qualcosa di più. Adesso capisci cosa intende quando nelle interviste parla del suo amore per Broadway, e quella del musical è fra l’altro una strada che non gli spiacerebbe esplorare, in futuro. Si guarda intorno, mentre canta, come fosse un crooner sentimentale anni Settanta. Ammicca, flirta con le prime file. E poi ci sono momenti in cui veramente si batte il petto come un attor’tragico. È fantastico: ha carisma senza per forza dovertelo vendere come tale. Il carisma delle piccole cose.
Certo, ci vuole un’arte tutta speciale per riuscire a non essere leziosi e barocchi e però ugualmente mettere in scena quell’assortimento di sentimenti e dramma che mettono in scena lui e i Mercury Rev, come del resto ci vuole del "senso" per riuscire a gestire un suono che è al tempo stesso così quieto e - in potenza - così saturo di nervosismo. Ma alla fine il gioco di prestigio riesce. E anche se il suono è quello che è, intubato e non esattamente booming (probabilmente l’impianto non è lo stesso su cui suonerà Cave, oppure ci sono delle limitazioni tecniche), a due terzi del concerto ti accorgi che è come se Donahue avesse rallentato l’aria attorno a sé: come avesse usato una sorta di controllo di pitch, tipo quello dei giradischi per dj. Alla fine del tunnel la gente applaude, come risvegliata, e lui sorride. La migrazione è iniziata, e noi a momenti nemmeno ce ne accorgevamo.

(da: Rumore, gennaio 2005)