Non solo Anniottanta: il lato oscuro del revival
 

di: Fabio De Luca




1. "HOW DOES IT FEEL..."
Liverpool, 18 luglio 2001. Il secret gig del ritorno alle scene dei New Order è uno dei più strani cortocircuiti ai quali poter pensare di assistere in questa vita. Olympia Theatre: in un delirio di velluti, broccati, lampadari di Murano e luci da Studio 54 i ritrovati New Order (imbolsiti come da copione, ma non è questo il punto) aprono il set con Atmosphere dei Joy Division. Cui seguiranno, nei novanta minuti successivi, una versione ultra-light, dietetica, quasi 2-step di Isolation, e verso la fine una rilettura ai confini dell’hi-NRG di Love Will Tear Us Apart. La prima cosa cui pensi è che, in questo preciso istante, i New Order sono esattamente "quel" tipo di gruppo che l’apparizione sulle scene - vent’anni fa - di gruppi come Joy Division o New Order avrebbe spazzato via dai palcoscenici e dalle pagine del Melody Maker. I New Order sono diventati gli Eagles, gli Animals. La gente canta in coro Blue Monday e Temptation. Su un’ora e mezza di canzoni, settanta minuti e passa sono oldies e goldies. E la seconda cosa cui pensi è, se possibile, ancora più terribile: se sommiamo gli anni di attività dei Joy Division con quelli dei New Order, il totale supera di gran lunga quella che era l’età degli Eagles e degli Animals all’epoca in cui i Joy Division li spazzarono via dal proscenio.
Ma il mondo da allora è cambiato. Rispetto al 1981, ve ne sarete accorti, i tempi si sono dilatati: si vive più a lungo (lo dicono i medici), si è giovani fino a 35 anni (lo dicono i sociologi), si consuma in maniera più critica (lo dicono gli esperti di marketing). Persino i New Order hanno fatto un nuovo album, Get Ready, che pur senza essere una pietra miliare della musica moderna non presenta segni di senescenza particolarmente preoccupanti, anzi. Ma succede anche un’altra cosa strana: la "continuità" emotiva, stilistica, linguistica, affettiva di questi ultimi vent’anni di storia della cultura pop (o della cultura tutta) è assolutamente più contigua rispetto a quella degli analoghi vent’anni precedenti. In altre parole: tra il 1981 ed il 2001 ci corrono gli stessi anni che correvano tra il 1961 ed il 1981. Solo che il 1981 è oggi, al tatto, molto più "vicino" nello spazio e nel tempo di quanto non fosse il 1961 nel 1981. E' "passato", ma tutto sommato non così tanto. Una possibile interpretazione: gli anni Settanta - decennio nel quale si è provato a rendere operative nel quotidiano quelle intuizioni stilistiche e sociali rivelate sul finire dei Sixties - sono stati per mille ragioni uno spartiacque assai più deciso e decisivo di qualunque trasformazione avvenuta dopo. Altra possibile interpretazione: una teoria che Rumore sposò già tre anni fa in un pezzo sul ritorno della fascinazione per l’old-skool dell’hip-hop (novembre 1998). Gli anni Ottanta sono stati l’ultima epoca della storia in cui si sono creati dei linguaggi totalmente originali: nel nostro particolare caso l’electro/hip-hop, il pop elettronico, la house music. Tutto ciò che è venuto dopo, negli anni Novanta, è stata una semplice (in realtà elaboratissima, ma alla fin fine pur sempre "semplice") rilettura di cose già avvenute prima: il grunge, il drum’n’bass, il trip-hop, il new-jazz beat della Compost, il nu-metal, il new-acoustic movement (che nei suoi esempi migiori ha pure saputo dotarsi di una straordinaria aderenza all’"oggi")... tutti linguaggi di rielaborazione. Si salvano solo i click’n’glitches della generazione-laptopia, ed essenzialmente perchè si tratta - come fu per l’electro e la house - di una musica nata da una nuova tecnologia precedentemente non disponibile, e dunque per sua stessa natura "nuova".
Riparliamo dunque di anni Ottanta, un decennio sul quale probabilmente verrà fatta giustizia soltanto tra qualche decina di anni, quando finalmente lo si riuscirà a vedere tutto assieme e non - come ora - diviso in due (da un lato i primi Ottanta, comunemente intesi come "gli Ottanta" tout-court, quelli dei Duran Duran e dei new-romantic; dall’altro la seconda metà con la nascita dell’house-music, della techno, del revival rare-groove, fenomeni che a dispetto del loro anno di nascita sono stati somatizzati come "anni Novanta"). Riparliamo di anni Ottanta, ma soprattutto ripartiamo dagli anni Ottanta. E', ancora una volta, una cosa strana, ma basta veramente farsi un giro in un paio di negozi di dance all’avanguardia e pescare a caso tra le ultime uscite in 12". Gli anni Ottanta sono tutti là, in un delirio di vecchi synth analogici, secchi colpi di batteria elettronica, basslines elettriche e tributi alla disco italiana della prima generazione di cui il geniale Felix Da Housecat non è che la punta dell’iceberg. Un trend anticipato dalla techno già da diversi anni (come ben sa chi segue i dj-set di Marco Passarani), che adesso assume proporzioni di vero fenomeno. Ed è subito "revival".




2. NEW WAVE HOT (UNDER)DOG
Vi hanno raccontato che la cosa più laida degli anni Ottanta sono stati i Duran Duran? Bene: vi hanno mentito. Fine luglio 2001. Di passaggio a Milano per un paio d’ore, Trevor Jackson ha con sé una borsa di fantastici dischi trovati il giorno prima in un paziente pellegrinaggio tra bottegucce berlinesi che probabilmente solo lui conosce. Ci sono le ultime uscite della Bpitch Control (vd. oltre), ma soprattutto ci sono un paio di cose vecchie, rare-grooves di terza o quarta generazione, tra cui una produzione italiana del 1983, firmata Oozay, una classica versione tarocca in stile "via Mecenate" di un successo di quell’anno, Situation degli Yazoo. Allora sarà probabilmente sembrata una cagata: oggi, con la patina del tempo depositata su quegli arpeggi di synth tagliati col coltello e manovrati da mani inesperte, ci affascina come il monolite di 2001 Odissea Nello Spazio. È lo stesso ingenuo minimalismo che ha a suo tempo fatto innamorare dei disco-mutanti italioti Gazebo e Ryan Paris gente come i Pet Shop Boys o Mark Moore degli S-Express, o in tempi più recenti i francesi della Crydamoure (Get Closer di Valerie Dore campionata dentro Spaced Out di Play Paul rimane uno dei momenti più neuromanti della dance contemporanea), qui però portato ad un grado ancora più estremo e prossimo allo zero. Ciò che esce dal 12" degli Oozay come da centinaia di altre crostose marginali produzioni dell’epoca è una fascinazione primitiva verso una tecnologia scoperta cinque minuti prima e tutt’altro che già metabolizzata: è quell’attimo-monolite in cui si sono per la prima volta premuti i tasti di un synth monofonico, qualcosa (un microcosmo più che un semplice suono) che nessun plug-in di Pro-Tools riuscirà mai a ricreare.
È ovviamente questo che affascina i dj ed i produttori techno: quelli più âgè tipo Trevor Jackson, che ricordano perfettamente l’attimo-monolite di cui sopra, e quelli più giovani che non l’hanno vissuto ma ne intuiscono il portato. "Ho trentaquattro anni" dice Trevor. Trevor, oltre che (come avrete capito) dj, è un produttore molto quotato tra gli addetti ai lavori (sotto lo pseudonimo Underdog ha scodellato decine di remix tra cui U2 e Massive Attack) ed è la mente dietro il progetto chiamato Playgroup. Nel suo omonimo disco di esordio Trevor ha campionato Paul Haigh (dimenticato eroe dell’etichetta belga Les Disques Du Crepuscule, famoso all’epoca per una versione di Running Away di Sly And The Family Stone) e gli Scritti Politti del primo album Songs To Remember, ed ha coinvolto a vario titolo Edwyn Collins (Orange Juice) e Roddy Frame (Aztec Camera): praticamente il paradiso per chiunque voglia (s)ragionare di ritorno degli anni Ottanta. "Ho trentaquattro anni", dice dunque Trevor, "e la grande fortuna di quelli della mia età è l’aver potuto vivere in prima persona tutta una serie di rivoluzioni: dai club new-romantic dove si suonava la musica dei primi Depeche Mode - che è stata importante, perchè ha influenzato quelli che poi avrebbero creato le techno a Detroit - all’arrivo dell’hip-hop e dell’electro fino alla nascita della house ed alla sua trasformazione in fenomeno di massa con i rave; e poi la jungle, e tutte le forme successive di dance. Il problema è che molta gente ha una snobberia innata che la porta a dire "ah, il Paradise Garage era una figata, gli Human League invece erano una merda". Non è così. Ciò che ho cercato di rappresentare con il mio disco è come tutte queste esperienze del passato siano invece collegate fra loro, come i Depeche Mode e la techno di Detroit. Il mio progetto è l’esatto contrario dell’essere snob: l’idea era di assemblare un disco basandomi su tutto ciò che mi piaceva (suoni, tecniche di registrazione...) purchè antecedente al 1990. Sarebbe troppo facile fare un disco influenzato da suoni del passato e poi sbatterci sotto un ritmo alla Timbaland. La sfida era di manternermi coerente al copione fino in fondo, ma al tempo stesso fare un disco che non suonasse "retro". Questo è evidentemente un disco che paga un tributo di rispetto ed omaggio ad un determinato periodo storico, ma ciò che mi interessava era evidenziare gli aspetti ancora attuali e contemporanei di quel periodo e degli artisti che operavano allora".




3. BRAND-NEW YOU’RE *NOT* RETRO
Il che ci porta dritti a casa degli Adult., a Detroit. Gli Adult. sono gli artisti multimediali Nicola Kuperus e Adam Lee Miller, e Detroit, come probabilmente saprete, è stata attorno alla metà degli anni Ottanta la culla di quella techno che ha interpretato meglio di mille discorsi presidenziali la recessione di un’industria (quella automobilistica della Motor City) e il collasso di un’area geografica. Il disco che gli Adult. hanno pubblicato poco prima dell’estate, Resuscitation, e in generale tutto il lavoro svolto dalla loro etichetta Ersatz Audio guarda decisamente in direzione del lato più oscuro, introverso e technoide dell’elettronica dei primi Ottanta. Ovviamente tenendo conto anche della successiva deriva techno. Toccare con loro il tasto dell’Eighties-revival (o peggio ancora della "nostalgia") trasforma però istantaneamente il carteggio e-mail in una difesa d’ufficio della loro originalità (che nessuno, peraltro, si sogna di mettere in dubbio). "Non pensiamo assolutamente di essere Eighties-revival" dicono ad esempio: "questa è una definizione estrememente limitante, dal momento che il nostro suono è maturato ascoltando non solo la new-wave elettronica ma anche il punk rock, la techno, oltre a tutte le nuove direzioni della sperimentazione digitale. Forse ad un primo ascolto ciò che viene fuori più evidentemente sono le tastiere analogiche "prese in prestito a Fad Gadget": ma noi utilizziamo anche la tecnologia dei computer e dei sequencers midi, ed è proprio questa fusione di vecchio e nuovo, secondo noi, a rendere ciò che facciamo indiscutibilmente contemporaneo. Circa la "nostalgia" poi, diciamo che le macchine analogiche "originali" suonano infinitamente meglio dei software di emulazione: ecco una buona ragione per usare vecchia strumentazione".
Ok. Eppure - ascoltateli - il paragone dello scandalo con i Rem degli esordi (gli Adult. stanno a Fad Gadget, ai Cabaret Voltaire, ai Throbbing Gristle etc. come i Rem stavano ai Byrds) non è del tutto campato in aria. In fondo i Rem non erano i Milkshakes: si rifacevano ai Sixties, ma non erano una band-tributo. Avevano evidentemente metabilizzato (pur se non era il tratto più evidente del loro suono) anche il punk californiano di quegli anni. "Retro", però, è a quanto pare una parola che non piace a nessuno (tenetene conto casomai vi capiti di parlare con qualche musicista!) Anche se poi la vera discriminante retro/non-retro sono proprio gli Adult. stessi a evidenziarla: "l’ironia: questa è la prova che siamo consapevoli di ciò che stiamo facendo. L’assenza di ironia ti condanna ad essere retro". Verissimo. Anche al di là del fatto (ma non glielo dite) che uno dei lati migliori degli Adult consista proprio nella loro capacità di ricreare la totale assenza di ironia di certi pionieri anni Ottanta... Ma il confine è in realtà estremamente labile. Le produzioni di una delle etichette più interessanti per il discorso che stiamo affrontando, la berlinese Bpitch Control, sono ad esempio costantemente in bilico tra ironia e rigore teutonico, e proprio lì sta il loro bello. Nella sospensione/indecisione tra la coolness minimal-algida di Ellen Allien (il suo album Stadtkind è l’esatta risultante, se mai se ne poteva prevedere una, tra i Deee Lite del primo album ed i Kraftwerk, il tutto però riportato all’oggi) e la faccia tosta di Martini Bros (Dance Like It’s Ok il loro contributo alla compilation Berlin 2001) e Sascha Funke (sua la dissennata cover di When Will I Be Famous dei Bros...). Ellen stessa riassume l’articolato stile della sua etichetta nell’arguta definizione "tech-pop", quasi a negare il rischio di un lavoro troppo solo intellettuale ed a sottolineare, invece, quella fondamentale (auto)ironia di cui parlavano gli Adult. Sarà questa, la differenza tra ieri ed oggi?



4. CERCANDO IL RITMO PERFETTO
Per non sbagliare lo abbiamo chiesto ad Arthur Baker. Uno che se ancora non è una leggenda vivente, dietro il suo aspetto da ex-galeotto, poco ci manca. Uno che, come come il diavolo dei Rolling Stones in Simpathy For The Devil, "was there" quando tutta una serie di cose importanti per la musica pop stavano succedendo: la nascita di Planet Rock e Looking For The Perfect Beat di Afrika Bambaataa, la parentesi "electro" dei New Order di Confusion, dischi assortiti di David Bowie, Diana Ross, Bruce Springsteen, Fleetwood Mac e Ash; persino il dimenticato feuilleton anti-apartheid Sun City è opera sua. La storia si ricorderà di lui come di un produttore dalle ampie visioni e di un pioniere dell’electro con i Rockers Revenge; ma visto che la storia è bella ma la vita ancor di più, da un paio d’anni Baker ha lasciato la natia America per stabilirsi a Londra. Dove ha prontamente stretto amicizia con tutta la ballotta dei nu-skool breaks che lo considera, per ovvie questioni di filologia, una specie di Gesù ridisceso sulla Terra, ed ha iniziato un seguitissimo programma sull’emittente XFm.
"La tecnologia si è evoluta oltre ogni immaginazione" ragiona Baker, "ma soprattutto la tecnologia è diventata impensabilmente economica. Quando io iniziavo, sul finire degli anni Settanta, l’esempio più avanzato di tecnologia erano il Fairlight o il Synclavier, di cui esistevano un paio di esemplari in tutto il mondo e che ovviamente in pochissimi potevano permettersi. E la cosa più incredibile, a ripensarci oggi, è che quelle macchine non erano neanche lontanamente vicine alle potenzialità ed alla versatilità dei software che adesso chiunque può avere sul proprio iMac... Quindi la vera differenza è che oggi chiunque può avere accesso ad una quantità di tecnologia praticamente illimitata, e questo fa sì che tutte le produzioni partano da una sorta di egalitarismo di base: tutti con le stesse possibilità di partenza, per così dire. E nel momento in cui tutti possono fare praticamente tutto, la vera discriminante diventa di nuovo l’immaginazione". Ma perchè allora tutti (o molti) guardano al passato? Perchè le cose migliori sembrano sempre quelle che hanno una patina retro? "È una cosa di cui parlo spesso con i produttori più giovani" dice Baker, "ed ho concluso che il problema non è guardare al passato - che è una cosa sempre successa ed è naturale. Il punto è come guardi al passato, e per fare cosa. Se vuoi, la house-music di Chicago era nè più nè meno che philly on a budget, il sound di Philadelphia fatto con quattro soldi: cercava di ricreare quel groove senza potersi permettere i turnisti, i batteristi e le sezioni di archi. Guardava al passato, eppure è uno dei suoni più originali mai usciti fuori!".




5. MONACO: INFERNO E PARADISO
Se per Baker gli anni Ottanta sono un bagaglio di esperienza tutta da ricontestualizzare, c’è invece chi guarda a quella stagione come ad un bene-rifugio in vista della recessione. In tempo di crisi c’è sempre quello che tira fuori il vestito migliore ed ordina all’orchestra di continuare a suonare anche mentre la nave affonda, ed stavolta il compito è toccato alla International Deejay Gigolo di Monaco Di Baviera, etichetta techno con un penchant abbastanza evidente per il lato più "lounge" del decennio Ottanta. Ma non solo, a quanto pare. "Noi siamo the New Sound of Munich" dice Dj Hell, "e ciò che ci distingue dal Sound of Munich classico è che siamo in egual misura influenzati da Giorgio Moroder e dalla disco come dal punk e dall’electro". Dj Hell è un uomo con le idee chiare. Non esattamente un teenager (è sui 40), vede la propria storia personale ("Ero un punk che ascoltava anche la disco: la cosa più difficile era ricordarsi quali sere la settimana in un determinato club si suonava una certa musica piuttosto che un’altra e vestirsi di conseguenza") come un’ottima metafora per capire i tempi nuovi. "Sarebbe sciocco voler nascondere il mio background" dice Hell, che lo scorso anno al suo background ha pagato un tributo affettivo remixando alcune tracce classiche dei Tuxedomoon: "ciò che conta è non limitarsi a copiare, ma portare le suggestioni del passato - degli anni Ottanta in questo caso - ad un nuovo livello, nel 2001. C’è differenza tra revival e far rivivere". E non è un caso se nel suo album di un paio di anni fa si trovassero fiano a fianco un remake di I Feel Love ed uno del classico elettro-wave sotterraneo (poi ripreso anche da Grace Jones, e di recente anche dalle Chicks On Speed) Warm Leatherette. "Grace Jones è uno dei personaggi-chiave degli anni Ottanta" dice Hell: "il modo in cui ha unito la musica allo stile delle foto, alla grafica delle copertine, al design degli abiti, al taglio dei video: lei è un personaggio che ancora oggi rientrerebbe perfettamente nell’estetica della Gigolo". Il che ci introduce all’ultimo quadro della nostra storia.




6. LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE COMINCIA A CASA
Per dirvi quanto Daniel Miller sia uno dei personaggi più potenti dell’industria discografica planetaria basterebbero due nomi: quello dei Depeche Mode e quello di Moby. Due fra i mille artisti (in mezzo ci sta anche un rumorista old-skool come Non, e i proto-breakbeat Renegade Soundwave) scovati e curati dalla sua Mute Records. A differenza però dei vari intercambiabili vice presidenti e product-manager della Sony e della Universal, Miller è uno che il proprio impero lo ha realmente costruito a partire dal salotto di casa. Nel salotto di casa, nel 1981, Daniel Miller (sotto lo pseudonimo di The Normal) registrava un sette pollici fortemente ispirato a Crash di James Ballard ed intitolato Warm Leatherette. Quasi una sorta di Sound of Munich "prosciugato" (tanto per ricollegarci a sopra): definizione cui Miller dice di non aver mai pensato, ma in cui (bontà sua) si riconosce completamente. "In quel momento ascoltavo Neu e Kraftwerk", racconta, "e mi era perfettamente chiara la relazione, il legame tra loro ed il suono di Giorgio Moroder". Quel sette pollici, il cui culto ha attraversato inalterato vent’anni di storia (recentemente è stato pure bootlegato con voce sovraincisa di Missy Eliott, cosa di cui Miller si dice "molto felice"), è il numero di catalogo 01 della Mute.
"Volevo dimostrare che era possibile registrare un singolo dentro casa e far uscire il disco senza appoggiarsi a nessun’altra corporation istituzionale che non fosse la fabbrica che stampava i vinili" rievoca Miller; "volevo dimostrare che essere autosufficienti era realmente possibile. In più a quel tempo i pezzi di musica elettronica duravano in media venti minuti, mentre quello che avevo in mente io era fondere l’immediatezza da "tre minuti" del punk, il suo approccio semplice e istantaneo, con la crudezza di una strumentazione interamente elettonica". Roba grossa dunque, roba (a modo suo) "politica". Senza contare che quello era "il suono della necessità", mentre chi sceglie di usare quei suoni oggi lo fa per pure questioni estetiche. E quindi "è molto difficile per me ascoltare questo tipo di cose e non pensare che sono esattamente identiche a cio che noi facevamo vent’anni fa" dice Miller. "Non voglio mancare di rispetto ha chi ha scelto di esprimersi con questi suoni, ma per me l’elettronica è sempre stata un qualcosa che spingeva in avanti, non che guardava indietro. Capisco che dietro ci sia dell’interesse sincero, ad esempio da parte di chi è cresciuto con questi suoni e cerca a modo suo di rielaborali, di reinterpretarli: semplicemente non è qualcosa che mi prende particolarmente". Viva la faccia, come dire. Ma il "calore" di quei vecchi suoni? "Non credo sia una questione di sintetizzatori analogici versus software" conclude Miller; "ci sono musicisti che usano unicamente sintetizzatori analogici eppure fanno delle cose che suonano incredibilmente moderne". Voi però non ditelo agli Adult.

(da: Rumore, dicembre 2001)