Radiohead: odiare la musica è pericoloso
 

di: Fabio De Luca




"Gli album devono essere lunghi come un tragitto in macchina, e il tragitto medio che la maggior parte delle persone compie ogni giorno è di quaranta minuti". Inizia così la risposta di Johnny Greenwood alla prima & prevedibile domanda: come e perchè da un’unica session di registrazione i Radiohead abbiano ricavato in tempi diversi (a circa un anno di distanza l’uno dall’altro) due album distinti, Kid A e il nuovo Amnesiac. Con la voce che diventa quasi un soffio, che a recuperarla dal walkman sbobinando l’intervista ci passi una notte intera, Johnny tenta la sua migliore interpretazione possibile della rockstar sottoposta ad un’intervista. Da come ti guarda capisci che davvero non riesce a credere ci possa essere al mondo gente che ha tempo e voglia di teorizzare attorno al loro lavoro di studio. Un lavoro che - al di là di quello che possa sembrare a guardare le cose da questo lato del dischetto iridato che gira nel cd-player - lui descrive come estremamente più fisico che intellettuale. Anche il famoso "anno e sei giorni" di durata della gestazione di Kid A: "fatica, concentrazione, caos" è il suo riassunto. E ciò nonostante i Radiohead, una band unica nel suo genere che ha creato un suo proprio universo estetico ed una galassia di riferimenti assolutamente originali, non manchino di disseminare segnali (videoclip fuori formato, un design "globale" fortemente incentrato sulla parola, misteriose chat-line dove si dice York interagisca col mondo esterno) che sembrano fatti apposta per farti immaginare un ben orchestrato progetto di dis-informazione o di manipolazione del modo in cui abitualmente i media manipolano le rockstars sensibili e il loro mondo interiore. Fino all’invisibilità, o quasi.



Interrogato al riguardo, con la faccia che mantiene l’entusiasmo di un dissidente politico caduto nelle mani delle milizie di Pinochet, Jonny dice semplicemente che "molto è venuto fuori dal modo in cui non volevamo fossero fatte le cose". Nel senso che? "Quasi tutto è frutto dalla collaborazione tra Thom (Yorke, ovviamente n.d.r.) e Stanley Donwood, che fa la maggior parte della grafica. Il modo di procedere è raccogliere le idee che girano: lavorando ad un disco passiamo molto tempo insieme, e questo coinvolge anche altre persone come il produttore ed il grafico. Ormai da diverso tempo siamo una specie di team, sempre le stesse persone: noi, Nigel Godrich, Stanley Donwood... Questo fa si che ci sia una forte corrispondenza, ad esempio, tra il modo in cui si sviluppano i suoni ed il modo in cui si sviluppano le idee". Nessun progetto deliberato, dunque, di creare strati su strati di significati apparentemente slegati tra loro ma - forse - legati da qualche oscuro significato globale. In fondo questa è la realtà, non Sixth Sense, nè un libro di Philip K. Dick. E, per contro, un processo al quale non è estraneo il destinatario ultimo della musica dei Radiohead, il pubblico. "La gente manda messaggi spesso estrememente interessanti sul modo di interpretare la nostra musica, ed anche informazioni che poi ci capita di utilizzare, di rimandare all’esterno. Possono essere segnalazioni di musiche che secondo loro dovremmo ascoltare, oppure notizie di qualunque genere. Ci sono ovviamente quelli che dicono cose tipo "dopo Pablo Honey non avete più fatto nulla di buono", ma una larga maggioranza scrive cose molto acute, cose che sarebbe sbagliato ignorare". E parlando di cose acute: lo studioso inglese Simon Reynolds ha definito Kid A come "lo-fi on a Dark Side Of The Moon budget", cioè l’approccio "di base" della bassa fedeltà portato in un contesto di registrazioni ultra-professionali. Qualche commento? "Dovrebbe vedere come lavoriamo, non c’è niente di professionale nel nostro approccio. Non so, non mi piace come definizione. C’è una certa arroganza nel voler per forza definire le cose in un modo come questo. E soprattutto non è vero. Non capisco il riferimento al lo-fi: a noi piace che ciò che registriamo abbia un suono grande, passiamo molto tempo a perfezionare il suono, che sia in sala o su ProTools". Ci sono, in questo senso, delle deliberate differenze tra Kid A ed Amnesiac? "Credo che Amnesiac sia molto più "vasto" come lavoro, abbia molte più canzoni strutturate in senso tradizionale ma sia allo stesso tempo anche più... non so, "sperimentale" è un termine che non mi piace... ma diciamo così, sperimentale nel senso di aperto anche a canzoni non-tradizionali. Kid A era più... più una cosa unica all’interno dei suoi quaranta minuti". E’ lecito dire che Amnesiac sia un passo in una direzione più organica? La voce di Johnny Greenwood è ormai un fruscio di scariche statiche che nessun Dolby riesce a ripulire. "Credo che "mutato" sia la parola più adatta". Altro rumore di fondo (Jonny sbadiglia rumorosamente).

Poi dai fruscii emerge una risposta inaspettata ad una domanda buttata lì un po’ per caso: se, cioè, capiti mai che nel corso delle session di registrazione emergano delle influenze musicali coscienti. Paradossalmente, per chi immagina i Radiohead come geni nutriti dal loro stesso proprio genio, la risposta è "si". "Ci sono casi in cui l’influenza è molto diretta, casi in cui cerchiamo di copiare qualcosa che ci piace, anche se in genere non ci riusciamo. In genere perchè pecchiamo di sovra-ambizione: non puoi pensare di copiare Charlie Mingus, è da pazzi. Allora magari non copi, ma cerchi di ricreare lo stesso effetto usando la tua musica. Questo è fattibile". Lapidario è invece il giudizio sulla pratica del remix: "Non ci interessano più, semplicemente perchè non ci interessa l’interpretazione che qualcun’altro potrebbe dare di una nostra traccia. Avrebbe più senso che fossimo noi stessi a fare dei remix dei Radiohead, ma a quel punto tanto varrebbe lavorare a del materiale nuovo". Pensi ci sia un sacco di spazzatura attorno? "Si, ma è anche molto facile evitare le cose che non ti piacciono: la cosa difficile è riuscire a vedere oltre gli stereotipi. Io ad esempio ogni volta che mi sono trovato a pensare "odio quel certo tipo di musica", poi - nel momento in cui ho scoperto che in quella musica c’erano elementi interessanti - ho dovuto ricredermi. Mi è successo con le big-band jazzistiche, finchè non ho scoperto persone come Charlie Mingus o Duke Ellington. Odiare la musica è pericoloso: in giro c’è persino della country music incredibilmente deviante ed eccitante".

(da: Rumore, giugno 2001)