Moby: «voglio vivere come dentro una tomba»
 

di: Fabio De Luca




Moby ha la faccia da serial killer in incognito. Una faccia alla Kevin Spacey in Seven, o meglio ancora in I Soliti Sospetti. La faccia di uno che non alza mai la voce, che tiene gli occhi bassi, ma che al tempo stesso ha chiaro in mente il suo progetto criminoso. Non alzare mai la voce e tenere gli occhi bassi sembra essere per Moby una specie di regola di vita. Non è semplice timidezza, è piuttosto un complicato modo per tenere a bada un ego che, lasciato libero di manifestarsi, farebbe di lui un Mick Jagger dei tempi d’oro, un Elton John, un Jim Morrison. Ad ogni buon conto: di lasciar manifestare il proprio ego Moby ne avrebbe tutto sommato il diritto. Specie da quando, nel 1999, da produttore "dance" popolare presso una ristretta cricca di appassionati Moby ha ottenuto l’upgrade ad artista da dieci milioni di copie vendute. L’album si chiamava Play, ed è probabile che ne conosciate almeno un paio di canzoni (anche se magari non sapete che sono canzoni di Moby), perchè una buona metà sono diventate colonna sonora di spot pubblicitari. Nel 2002 ha replicato con 18: identica la formula (ballate elettroniche, voce vagamente gospel) ed uguale successo in termini di presenza negli spot pubblicitari, anche se stavolta il mercato ha risposto in maniera meno entusiastica ("solo" quattro milioni di copie vendute). Adesso c’è un nuovo album, appena uscito: si intitola Hotel, e neanche a dirlo un primo pezzo, Lift Me Up, è già finito a far da sottofondo all’ennesimo spot telefonico della modellona australiana Megan Gale.

Interrogato al riguardo nella penombra di un ristorante milanese molto "design", Moby fa la faccia di chi è caduto dal pero e dice di non sapere chi sia Megan Gale. In compenso, circa il proprio successo come artista da classifica, racconta che "vendere milioni di copie dei propri dischi ti fa sentire strano, ma in fondo non è che la tua vita cambi poi così tanto"; e per buon peso aggiunge pure che essere ricchi è "interessante" (ma, sottointeso, non è che la tua vita cambi poi così tanto). Da due frasi così chiunque altro ne uscirebbe come uno snob pazzesco. Moby no: Moby ne esce come quello che è, cioè uno che da sei anni sta difendendosi dal proprio stesso successo mantenendo un’immagine pubblica che definire "di basso profilo" è ancora poco. Di lui si sa che è un vegetariano convinto (nella fattispecie: un vegano convinto), che si professa Cristiano, che è sensibile alla causa ambientalista e che non fa mistero dei suoi lunghi periodi di astinenza dal sesso ("perchè nessuna vuole farlo con me", dichiarò anni fa). Di recente ha alzato il coperchio sulle proprie simpatie politiche sostenendo attivamente la candidatura di John Kerry alla Casa Bianca, e richiesto di un commento sulla sconfitta del suo candidato Moby abbandona per un istante il suo inscalfibile aplomb e ti dice che "l’America non meritava un uomo intelligente e coraggioso come Kerry, e infatti ha scelto lo scemo del villaggio".

Altre storie che invece non si sanno sul conto di Moby (che lui non racconta, ma che vengono fuori scavando un po’): è rimasto orfano di padre all’età di due anni, suo padre è morto in un incidente stradale successivamente rivelatosi un suicidio mascherato, è cresciuto in povertà in una zona dove invece la ricchezza pro-capite è abbastanza alta (il Connecticut) ed era un ragazzino triste e solitario. Adesso che il ragazzino triste e solitario è diventato un uomo di successo, lo spettro del passato sembra fare capolino nel suo oscillare tra la luce dei milioni di dischi venduti e il buio del proprio understatement. Metafora non casuale: il suo appartamento, al quinto piano di un vecchio edificio a Little Italy, New York, ("lo stesso appartamento dove abitavo prima di diventare famoso", sottolinea) è noto per essere - le pareti, i pavimenti, i mobili - tutto completamente bianco, di un bianco che mette inquietudine. Basta però un gesto del suo abitante e il bianco si trasforma in nero: "la mia stanza da letto è la stanza più buia del mondo" racconta Moby; "ha un lucernario, ma ho fatto costruire uno speciale cancello che quando scende chiude completamente fuori la luce!". Quella del buio sembra essere una vera ossessione per Moby. Ad esempio: visto il titolo del nuovo album, Hotel, gli si chiede quali sono le caratteristiche che gli fanno amare o odiare un hotel. E lui: "deve essere possibile aprire le finestre: negli hotel spesso per ragioni di sicurezza o di aria condizionata le finestre sono sigillate, e questa è una cosa che mi rende nervoso. E poi ci deve essere una tenda completamente nera davanti alla finestra. Dev’essere così spessa che anche nel cuore del giorno la stanza possa essere trasformata in una tomba. Ho bisogno di oscurità assoluta per dormire...".

In realtà le ragioni per cui Moby ha chiamato il suo nuovo album Hotel sono quasi sociologiche. "Ovviamente passo un sacco di tempo negli hotel", dice, "e mi affascina la neutralità delle camere d’albergo, il fatto che, quando entri in una stanza, la trovi perfettamente asettica e anonima. Ma solo sei ore prima su quello stesso letto c’erano due che facevano l’amore, oppure litigavano, oppure un viaggiatore di commercio che guardava un film sulla tv via cavo. Entrare in una stanza d’hotel equivale ad entrare in una sorta di sospensione dalla vita reale: gente che a casa è assolutamente tranquilla, in un hotel finisce per ubriacarsi o dormire con una prostituta". Per la cronaca, l’albergo che Moby considera il suo preferito al mondo è The Landmark, a Londra. Per il trattamento principesco? Per il menu vegano disponibile a qualunque ora? Nossignori. "E’ silenziosissimo", dice Moby, "ed anche in pieno giorno puoi avere un buio perfetto! È forse il posto al mondo nel quale dormo meglio. Anche meglio che a casa mia".




[BOX] A proposito di diversificazione degli investimenti: una bella lezione arriva proprio da Moby, che sarà pure una star da quindici milioni di dischi venduti, ma un paio di anni fa ha deciso di lanciarsi in un’attività che con la musica ha poco o nulla a che fare. TeaNY: un café-ristorante vegetariano a Rivington Street, nel Lower East Side di Manhattan. "E’ un’idea", dice Moby, "che io e la mia fidanzata dell’epoca, Kelly, avevamo in testa da diverso tempo. A New York ci sono un sacco di ottimi ristoranti vegetariani: il problema è che la maggior parte sono estremamente "rigidi" e poco invitanti per chi non è convertito alla causa. Ad esempio non servono birra, nè vino, nè cioccolata, nè caffé. Quando abbiamo aperto TeaNY pensavamo ad un posto rispettoso delle regole vegane, ma che al tempo stesso potesse avere un’appeal anche per un pubblico non-vegetariano". Fedele al proprio nome TeaNY offre 93 diverse qualità di té, e da qualche tempo anche una linea di té freddi aromatizzati ed infusi di erbe in bottiglia che Moby e Kelly stanno iniziando a distribuire anche in altre città oltre a New York. E nel frattempo la storia d’amore tra i due soci-fidanzati è finita. "Ma a dire il vero", dice Moby, "andiamo molto più d’accordo adesso, come ex-fidanzati, che prima come fidanzati!".

(da: Io Donna, 26 marzo 2005)