Allun, Offlaga, Uochi Toki e gli altri: marziani italiani
 

di: Fabio De Luca




Marziani italiani. Suonano, fanno dischi e concerti, ma forse non li conoscete. E non è strano, perchè non bazzicano la prima serata televisiva, la radio li tiene alla larga, i giornali che se ne occupano sono troppo piccoli. Il solito problema del nuovo che avanza e del vecchio che non vuole indietreggiare? Del mainstream tiranno che incatena ciò che di buono e originale ribolle sotto la superficie? Fosse così facile. Hai voglia accusare la tivù e i reality che alterano la percezione e omologano il senso estetico: il punto è che i marziani italiani sono veramente marziani, molto più marziani che italiani, e quindi difficilmente catalogabili, incasellabili, presentabili. Sono gente con facce strane che fa dischi ancora più strani, dischi che suonano troppo rumorosi oppure troppo silenziosi, comunque eccentrici, fuori asse, lontanissimi da qualunque nozione di "tormentone" o da qualsiasi strategia di marketing secondo cui una canzone andrebbe pensata già in funzione della suoneria di telefonino che se ne potrà tirare fuori. Comunque sia esistono, ed hanno un pubblico che li segue. Sono il superamento della celebre profezia di Andy Warhol secondo cui nel futuro saremmo tutti stati famosi per quindici minuti: loro, piuttosto, sono "famosi per quindici persone". Micro-idoli per micro-folle di appassionati: una galassia gassosa e frammentata di band la cui esistenza scorre parallela rispetto al paese reale dei tour da un milione di spettatori.

Partiamo da un punto qualsiasi di questa galassia. Dalle Allun ad esempio. Se vi capita di incontrarle su qualche palco in giro per l’Italia ciò che vedrete sarà un tavolo ingombro di frullatori, aspirapolveri, sveglie, trombette giocattolo e piccoli generatori di suono. Poi salteranno fuori anche un violino e una chitarra, tanto per rendere ancora più straniante e caotico il tutto. A manovrarli, sotto due pesanti mascheramenti alieni da B-movie (mica per caso parlavamo di marziani), Stefania e Natalia, amiche accomunate da un insolito destino. "Siamo nate quasi lo stesso giorno" dice Natalia: "io il tre di agosto, Stefania il quattro. Io però sono nata in Argentina, quindi se confrontiamo i fusi orari viene fuori che siamo nate lo stesso giorno". Un segno del destino, per questo l’ultimo album delle Allun si intitola Onitsed (cioè "destino" scritto all’incontrario). E non è finita qui: "abbiamo iniziato a frequentarci quando avevamo diciott’anni, ed è venuto fuori che da bambine andavamo allo stesso asilo, a Vigevano: probabilmente già eravamo amichette, giocavamo assieme, solo che non ce lo ricordavamo!". Così - quasi che il cortile dell’asilo fosse una scena primaria da ricreare e perfezionare per l’eternità - lo show delle Allun più che un semplice concerto alla fine sembra l’ora di "libera espressione corporea" di qualche asilo montessoriano. Di letture se ne potrebbero dare diverse e a più livelli: gli elettrodomestici usati come strumenti musicali ad esempio, e certe estemporanee "sfilate" di moda do-it-yourself, sembrerebbero quasi suggerire un abbozzo di critica sociale di matrice femminista. Ma "a noi piace parlare di "consapevolezza" più che di critica" dicono Natalia e Stefania: "siamo consapevoli degli stereotipi sulle donne, ad esempio quelli diffusi dalle pubblicità, e siamo consapevoli di come le bambine siano sin da piccole indirizzate a rispettarli. Quindi ci divertiamo a rovesciarli, tutto qui. E ci fa piacere quando il pubblico se ne accorge, quando riconosce che ciò che ad un primo sguardo sembrava solo "divertente" ad un secondo sguardo rivela un lato più profondo".

Altre storie, altri marziani. Stavolta sul palco c’è uno spilungone ossuto che parla come un incrocio tra Caparezza e Noam Chomsky, o tra Caparezza e uno sleeper di Al Quaeda. Lui è uno degli Uochi Toki, che arrivano dai dintorni di Alessandria e fanno una specie di post-rap-italiano, ma molto post, così post che in realtà lo associ al rap solo perchè lui ha una felpa col cappuccio e parla sopra a delle basi (pressapoco) ritmate. Dice cose di perquisizioni, del fatto che a casa non ha una caffettiera moka e non ha divani, cose così. Tra il pubblico alcuni sorridono nervosamente, altri hanno l’aria atterrita di chi senza saperlo se l’è cercata. "Voi pensavate di divertirvi vero?" dice il Caparezza/Chomsky, che è straordinariamente antipatico ma anche affascinante, perchè evidentemente ha scelto la strada tutta in salita dell’incarnare la cattiva coscienza di chiunque si fermi ad ascoltarlo, cosa che fa di lui una specie di grillo parlante particolarmente incazzoso. La declamazione però dev’essere nel dna dei marziani italiani. Prendiamo il fenomeno dell’anno, gli Offlaga Disco Pax da Reggio Emilia: anche qui è la parola ad essere centrale, in un modo che richiama istantaneamente i modelli nobili dei punk emiliani CCCP e del noise letterario dei Massimo Volume. "L’idea era di approcciare il cantato in italiano nella maniera più estrema che fosse possibile" racconta Enrico, "saltando il cantato ed arrivando direttamente ad una forma narrata e parlata. Poi è arrivato Max, che non ha mai cantato e non era mai salito su un palco in vita sua, e già dal 2000 ci spediva dei racconti che scriveva. Gli abbiamo chiesto se gli andava di leggere alcuni suoi racconti sulle nostre basi, tutto qui". Quelle di Max sono storie "minimali" - si sarebbe detto qualche anno fa - di ordinaria post-adolescenza. Pensate al film-culto di Kevin Smith, Clerks, e immaginatelo riletto in salsa emiliana, bagnato in quella che gli Offlaga definiscono "ideologia a bassa intensità". Storie confinate tra Reggio e provincia, quelle del disco di esordio, Socialismo Tascabile, dove l’ironia stempera l’ideologia e la politica - pure lì, "dove il Partito Comunista prendeva il 74%" - è ormai un foto ingiallita. "Ho sempre trovato fantastico che in piazza a Cavriago ci fosse un busto di Lenin" dice Max, "e soprattutto che a nessuno - neanche a quelli che abitano lì ed hanno idee politiche di destra - sia mai venuto in mente di chiedere che fosse rimosso, anche dopo la caduta del Muro di Berlino. Per questo il busto di Lenin a Cavriago è per noi una sorta di baricentro esistenziale".

Ancora altri marziani, ed altri baricentri. Bruno è un gigante buono coi dreadlock che ha più identità segrete di un agente della Cia. Per farsi raccontare la sua storia ci vuole almeno un intero pomeriggio, ma è un pomeriggio ben speso. Riassumendo: suona la batteria con i Bachi Da Pietra (art-rock concettuale), la chitarra con i Ronin (post-folk lunare) e ancora la batteria più altri strumenti con i punk-rumoristi OvO. In più gestisce un’etichetta discografica, Bar La Muerte, piccolissima e superspecializzata. Gli basta? No davvero. "Mi piacerebbe avere un gruppo hardcore", dice, "mi piacerebbe avere un gruppo garage, mi piacerebbe suonare il basso in una band come ho fatto per qualche anno con Bugo. Vorrei provare a fare della sperimentazione più vicina a forme della ricerca "colta". Suonare è come i gusti musicali: c’è chi ascolta un solo genere e chi può uscire da un concerto jazz ed entrare ad un rave sentendosi perfettamente a casa in entrambi i posti. Non c’è nessuna confusione: il cuore e il cervello sono gli stessi". Bruno racconta di essere un po’ un predestinato perchè già all’età di quattro anni "facevo impazzire mia madre: a tavola facevo un casino tremendo con le posate e piangevo di commozione quando i miei ascoltavano musica classica". A dodici anni le prime lezioni di chitarra, "ma a 19 sono entrato in crisi, quando ho realizzato che a 16 o 17 tutti i miei idoli avevano già fatto il loro primo disco... Ho appeso la chitarra al chiodo, finchè dopo un paio di anni mi hanno chiamato i Wolfango a suonare la batteria". I Wolfango furono una breve rumorosa meteora nella Milano di fine anni Novanta, ma dopo un anno di tour pure quell’esperienza cominciò a stargli stretta. Adesso Bruno gira soprattutto con gli OvO: "da Istambul a Vancouver passando per Messico, Balcani, Turchia, Jugoslavia in guerra, Scandinavia, Spagna, Portogallo. E poi gli Stati Uniti, da costa a costa. Negli USA abbiamo fatto un centinaio di concerti in tre anni, più di quanti ne fa in Italia un gruppo italiano medio!". Certo, il circuito è quello "antagonista" dei centri sociali e delle case occupate - non esattamente suite lussuose e macchine con autista, dunque - ma avere un proprio pubblico di fan dall’altra parte dell’Oceano è comunque una soddisfazione. "Ogni tanto ti chiedi se tutto questo sbattimento abbia un senso" confessa Bruno, ma non c’è dubbio che le lezioni di sopravvivenza spicciola imparate on the road uno difficilmente se le scorda: "nella Macedonia in guerra, quando soldati di 19 anni a bordo di carri armati ci fermavano chiedendoci che musica facevamo, sapevamo che dovevamo dire "heavy metal". Così ci avrebbero sorriso e ci avrebbero lasciato andare...".

Meno avventurosa la vita di Cinzia e Alberto, che dal 1997 nel loro appartamento al centro di Messina gestiscono Snowdonia, microscopica etichetta indipendente che eleva il "fatelo da voi" a filosofia di vita. Cinzia e Alberto l’hanno creata "per lottare contro la nostra pigrizia e dare a noi stessi una chance di non diventare zombie di fronte alla televisione", e lo spettro artistico è piuttosto ampio: "da Claudio Villa a John Cage, da John Zorn a Al Bano passando per la new wave", spiegano, e in catalogo c’è anche una folle compilation intitolata Lo Zecchino d’oro dell’underground, in cui band del sottobosco italiano (tra cui i Marlene Kuntz) sono state invitate a registrare un pezzo con uno o più bambini. Il risultato è sublime e un po’ inquietante, ma rende l’idea - come già nel caso delle Allun, o per ragioni non così dissimili nel caso di Fracesco C, il "Marylin Manson italiano" - del bisogno di regressione che abita nel cuore dei marziani italiani. "In un mondo in cui dei dischi pare non interessi più a nessuno" dicono Cinzia e Alberto, "noi amiamo perdere le notti dietro alle nostre edizioni in cinquecento copie". Nomi come Larsen Lombrichi, Faccions, Scarapocchio, oltre alla loro band di casa, i Maize. E a sorpresa anche un nome un po’ più conosciuto degli altri: Bugo. Prima di "firmare per una multinazionale" il cantautore/bluesman novarese aveva infatti debuttato proprio grazie ad una coproduzione tra Bar La Muerte e Snowdonia. A Bugo però questa storia dei marziani italiani non va mica tanto giù. "Non ci vuole molto ad essere "marziani" in Italia", dice: "basta che tu racconti cose un po’ diverse da quelle che la gente è abituata a sentirsi raccontare, ed ecco che sarai classificato come quello strano, quello diverso". Lo abbiamo incontrato mentre, in uno studio di Milano, stava cominciando la pre-produzione del nuovo disco insieme al produttore designato, Morgan, e gli abbiamo lasciato l’ultima parola. "Marziano? Sono solo parole, convenzioni. Per qualcuno che vive nei circuiti indipendenti magari Ligabue è un alieno, nel senso che non lo capisce minimamente. Per me il vero marziano è chi fa da anni i dischi tutti uguali perchè ha trovato un suo mercato e vuole sfruttarlo fino in fondo. E spesso sono gli artisti che raccontano le cose che la gente perbene vuole sentirsi raccontare". Parola di marziano.

(da: La Repubblica XL, ottobre 2005)