Da Brian Eno ai Franz Ferdinand: di che cosa parliamo quando parliamo di "art-rock"?
 

di: Fabio De Luca




Premessa: per amore di chiarezza e filo conduttore semplificheremo un po’ tutto. Semplificheremo tutto già a cominciare dall’assunto di partenza, che recita quanto segue: l’art-rock - dato per buono il termine, che circoscrive quella sotto-directory del rock caratterizzata da una forte consapevolezza del proprio ruolo "intellettuale" e da un’estrema aspirazione alla ricercatezza - l’art-rock, dicevamo, è una brutta bestia da qualunque lato lo si guardi. E’ una brutta bestia perché nasce da un equivoco degenerato in senso di colpa: dalla premessa cioè che tutto ciò che è frutto di un grande lavoro concettuale sia meglio di ciò che invece non lo è. Punto. Poi ci sono mille eccezioni, ma il core business dell’art-rock è esattamente questo: segnare una differenza, indicare una superiorità. E qui va fatta subito la prima chiosa: l’art-rock come genere musicale non esiste. Brian Eno? Soft Machine? Radiohead? Certo, ma l’art-rock non è un genere musicale. Tant’è vero che già i tre nomi qui indicati spaziano in tre direzioni abbastanza differenti tra loro: espansione della forma-canzone verso il suono puro (Brian Eno), derive psichedelico-romantiche del jazz (Soft Machine), contaminazione tra indie-rock, space-jazz e forme compositive non-lineari (Radiohead). L’art-rock è un’estetica, un’attitudine. Una tag applicata dai critici e dal pubblico pensante addosso a quelle opere ed a quegli artisti che meglio li fanno pensare. E intendiamoci: emendarsi dalla forma canzone ed aspirare - ogni tanto - a qualcosa di strutturalmente e concettualmente più avventuroso di My Generation ("why don’t you f-f-f-fade away!") è una legittima aspirazione che chiunque è pronto a sottoscrivere. Il problema infatti sta altrove. Il punto non è apprezzare e difendere l’apprezzabilità di un mattone ripieno di panna e mascarpone come SYR4: Goodbye 20th Century dei Sonic Youth: il punto è costruirgli la cornicetta morale attorno. La tesi attorno a cui abbiamo girato attorno fino ad ora è che, non costituendo di fatto un genere musicale, l’art-rock è principalmente una categoria morale. E in quanto tale predisposta a degenerare nel fondamentalismo, nell’ossessione religiosa. Che in termini pratici significa: opere - osiamo dirlo? - pretenziose, spocchiose, autoreferenziali, oltre che (anche se quest’ultimo non sarebbe di per sé un crimine, ovviamente) assai poco divertenti.

L’esempio che a questo punto del discorso in genere sorge spontaneo, facendo colpevolmente d’ogni erba un fascio, è la maestosa, messianica, gloriosa e spesso supponente stagione del "rock progressivo" inglese (Genesis, Yes, Emerson Lake & Palmer). La spaventosa ansia che nasceva dal desiderio di creare un rock che eguagliasse per profondità, articolazione e soprattutto "dignità" la letteratura, la poesia o le arti figurative classiche, ha prodotto acutissime opere d’ingegno, ma anche terrificanti polpettoni dall’incerta digeribilità, ingombranti (in tutti i sensi) album tripli in cui l’originale principio attivo veniva talmente diluito da perdere qualunque efficacia, "opere rock" da cui era bandito qualunque senso del ridicolo. E la domanda a questo punto suona più o meno così: ma non c’è dunque modo di coltivare la nozione di art-rock dentro i confini della sobrietà, del pensare progressista e non solo progressivo? Mah, se interessa l’augusta opinione di chi scrive, il più puro, perfetto ed equilibrato (e purtroppo unico nel suo genere) esempio di art-rock al mondo è Baba O’Riley degli Who. Che parte da una classica struttura rock "evoluta", le innesta sopra un garbato ammiccamento (il sintetizzatore in apertura) al compositore minimalista Terry Riley, riferimenti (nel titolo) al guru indiano Meher Baba, e un testo che più compiutamente e visceralmente rock’n’roll non si potrebbe (quel richiamo alla "teenage wasteland", la "terra desolata dei teenager"...). La quadratura del cerchio, se una ce n’è. C’è pure un’altra possibilità, però. La possibilità cioè che con art-rock si voglia intendere - per estensione - anche tutti quei gruppi che, particolarmente in Inghilterra, sono venuti fuori dall’incubatrice delle art schools.

Quella delle art schools è una realtà profondamente inglese che qui da noi - con gli unici limitati riferimenti possibili che ci ritroviamo in casa, quelli al Liceo Artistico ed all’Accademia di Belle Arti - fatichiamo a comprendere. Dagli anni Sessanta in avanti il 70% dei musicisti inglesi scolarizzati è andato ad una art school. Il punk è nato nelle art schools. Malcolm McLaren si è diplomato ad una art school (dove ha imparato i rudimenti di lettrismo e situazionismo che l’avrebbero ispirato poco dopo nell’operazione Sex Pistols: "Sono un artista che al posto della tela usa gli esseri umani" è la sua citazione preferita di quegli anni). I Wire si sono conosciuti ad una art school. Tutta la vulgata punk-intellettuale di poco successiva ai Sex Pistols (Pop Group, Essential Logic, gli X-Ray Spex di Poly Styrene che in I Am A Poseur cantavano "anti-art was the start") proviene dalla "scena" delle art school. E tutto ciò ci porta all’ultima generazione di band inglesi. Tra le quali si respira una curiosa aria non solo di art school, ma proprio di ritorno tout court della "cultura" come valore. È curioso, perché in fondo sono lontani appena un decennio i tempi in cui la sacra candela del rock inglese era in mano ad una banda di tangheri ubriaconi come gli Oasis, per i quali il massimo dello sfottò nei confronti degli eterni antagonisti, i Blur, era apostrofarli come "studentelli" (il problema è che anzichè l’eroismo della matricola universitaria che si prepara a macinare cultura, i Blur incarnavano piuttosto una mesta figura di secchioncello alla prese con le dispense fotocopiate). Dieci anni dopo gli spotlight sono invece tutti per i Franz Ferdinand, che non più tardi di dodici mesi fa stavano sulle pagine di V Magazine a discutere con l’intervistatore attorno al tema "Rodchenko e l’Utopia Construttivista", e qualche settimana prima erano in redazione al Guardian a fare per sette giorni i guest-editor della sezione arti & cultura. Dichiarava in quegli stessi giorni Alex Kapranos (il carismatico cantante) che: "Essere una band è parte di un contesto culturale molto più ampio che non riguarda soltanto la musica: c’è una "consapevolezza visiva" che riguarda il modo in cui una band si veste, il design delle copertine". Ineccepibile. Vero art-rock, altro che storie. E poi gli Art Brut il cui nome è già una dichiarazione d’appartenenza. E il cantante dei Maximo Park che ha sempre con sé un libro, anche quando va sul palco, non si capisce se in massimo spregio nei confronti del suo pubblico (tipo: "siete così noiosi che nel caso mi porto un libro") oppure perché davvero non riesce a stare senza un libro a dargli conforto. Ok, è vero, lo faceva anche Morrissey. Non a caso un altro che con le categorie dell’arte (e dell’art) aveva confidenza.

(da: Hot, gennaio 2006)