Io tigro, tu tigri, loro Le Tigre...
 

di: Fabio De Luca

Piazza Lionello Bettini. Controllate pure, esiste veramente. Esiste laggiù dove Milano diventa indistinguibile da qualunque suburbia planetaria, dove ad ogni respiro cemento e particelle di piombo mettono radici nei polmoni. A Detroit ce n’è una uguale, e forse persino a Olympia. Al centro c’è un malinconico "giardino", cioè quattro o cinque alberi gassati dal traffico e altrettante panchine messe in cerchio. La fauna è all’altezza dello sfondo. Neanche i teenager equadoregni o srilankesi che colonizzano le altre piazze della Milano extra-circonvallazione: no, qui sembra Blob (il film), "ci siamo solo noi e i mostri". Noi, i mostri, e un barbiere sui cinquanta con i capelli a trapezio che appena vede arrivare Kathleen Hanna, Johanna Fateman e JD Samson capisce subito, per antico istinto di barbiere, che quello sarà l’evento del mese, e rapido chiama a raccolta amici conoscenti e sfaccendati vari, che ora si affrettano a far tradurre alle visitatrici da Marte che lui, il barbiere, è uno che ai tempi faceva il rock’n’roll, che conosceva Celentano, che è pure stato in televisione. Rotolate dal tour-bus direttamente in questa specie di angolo di provincia urbana, Kathleen Hanna e socie non fanno una piega. L’unico loro desiderio, al momento, era uscire dal Rainbow, che notoriamente di pomeriggio - a dispetto del nome - è il luogo più cupo e deprimente del mondo. "Guarda lì, quegli ombrelloni gialli. Che c’è scritto sopra?". Ombrelloni gialli a piazza Lionello Bettini? Oh, certo: c’è scritto "Antica Gelateria del Corso", che a dirlo in inglese (Promenade’s Ancient Ice-Cream Parlour) suona persino più falso del passaporto olandese del signor Haagen-Dasz. Si prende posto a un tavolo di plastica sotto gli ombrelloni gialli. Rumore e Le Tigre al gran completo.

Ricapitolando: Le Tigre nascono ad un concerto delle Bikini Kill a Portland, Oregon, più o meno una decina di anni fa. Johanna, che all’epoca produce una art-zine femminista chiamata Snarla, dopo il concerto va nel backstage per conoscere Kathleen. Le due si ritrovano anni dopo, quando Kathleen, dopo la fine delle Bikini Kill, si trasferisce a New York. Johanna aiuta Kathleen nella produzione del suo disco solista come Julie Ruin: il prevedibile passo successivo è che le due - accomunate da una recente passione per la musica prodotta con strumenti elettronici - cominciano a scrivere canzoni insieme. Al progetto partecipa anche la video-maker Sadie Benning, che dopo la pubblicazione del primo album di Le Tigre lascia il posto a JD, che già collaborava alla band come roadie. Dal punk all’electro mantenendo la medesima attitudine, e conservando soprattutto lo stesso approccio (nel senso di "visione del mondo") femminista-radicale. La musica potrà pure sembrare della techno-giocattolo, ma Kathleen scrive testi che nel migliore dei casi parlano di dittatura del patriarcato, di coming-out, di abusi sessuali sui minori, di percezione del proprio corpo e di ricerca dell’identità. La commistione funziona oltre ogni immaginazione. Tanto per dire: il loro pezzo più famoso, Deceptacon, arrivato fino al circuito dei club electro-crossover grazie al notevole remix della cricca newyorkese DFA (quelli di Rapture, Lcd Soundsystem etc.) nel ritornello dice una cosa tipo "fammi sentire come depoliticizzi le mie parole". Verbi che, a rigor di logica, dentro una canzone pop non saprebbero neanche dove sedersi.

E invece, proprio a proposito di depoliticizzare le parole. Questa stessa notte, ora italiana, andrà in onda uno degli ultimi confronti televisivi (forse addirittura l’ultimo, nel frattempo si è perso il conto) tra Bush e Kerry. Le Tigre vogliono sapere se c’è un canale televisivo italiano che coprirà l’evento "con l’audio originale". Ma giusto per curiosità. Pure loro - che nel video del nuovo singolo New Kicks vestono tre graziosi abitini decorati con la scritta "Stop Bush" - non è che si aspettino niente di nuovo o inaspettato dal match. E anche se l’uscita del nuovo disco, This Island, è stata pianificata per anticipare di poco l’Election Day, in modo che tutti gli slot promozionali per il disco potessero implicitamente essere anche degli spazi di dibattito politico, non è che le loro aspettative sulle chance di poter realmente pesare sul risultato finale siano particolarmente vivaci. "Non siamo così ingenue da pensare di poter far cambiare opinione a nessuno" dice Johanna. "È ovvio che chi compra il nostro disco è già contro Bush. Il messaggio in realtà è un altro: New Kicks, specie il video, è una sorta di celebrazione del nostro essere anti-Bush. Ci piaceva far emergere anche il lato... festoso del nostro impegno politico, come dell’impegno di tutti coloro che in questi anni hanno lavorato per la pace". Il coro "Peace now!" (pace adesso!) che si ascolta nel pezzo è stato registrato a NY in occasione della marcia mondiale per la pace del 15 febbraio 2003. Idem per lo slogan "This is what democracy looks like/this is what democracy sounds like" (questo è il volto della democrazia, questo è il suono della democrazia). "Le immagini del video sono state quasi tutte girate durante la marcia" racconta Kathleen: "volevamo fosse qualcosa in più di un semplice documentario, qualcosa che oltre che un gesto di informazione potesse anche essere divertente, pieno di vita". C’è insomma anche dell’ironia nelle tutine "stop Bush". "Non la chiamerei ironia" precisa Kathleen, "ma solo perchè il problema politico che c’è dietro, la guerra, non è qualcosa su cui si possa fare dell’ironia. È piuttosto qualcosa che ha a che fare con il gioco: il tentativo di opporre ai giochi di potere il nostro giocare, il nostro entusiasmo".


Kathleen ha dei bellissimi occhi (non che cambi qualcosa: e comunque è una bellezza che non è solo e semplicemente estetica, evidentmente) che punta senza remore addosso all’interlocutore. Kathleen parla come chi è abituato a parlare e a spiegare in continuazione il proprio punto di vista. Con estrema e dettagliata precisione, ma al tempo stesso con la malinconica defatigante consapevolezza di qualcuno che ha ormai capito (e metabolizzato) che non saranno le parole a salvarci. Che ben lungi dal fare chiarezza, le parole saranno al contrario sempre origine di nuovi equivoci e divisioni. Le chiedo come il pubblico più giovane si rapporti - per quello che può vedere lei - con la straordinaria mole di "parole" che presiede al lavoro di Le Tigre: i testi, i rimandi letterari, le sterminate FAQ sul loro sito internet. "Riceviamo molte domande", dice: "le più disparate. Domande tecniche sugli strumenti che usiamo, confessioni di chi si riconosce nei nostri testi, di tutto. Riceviamo lettere, email, le ragazze e i ragazi si fermano a parlarci alla fine dei concerti. Quello che cerchiamo di fare e di mettere tutti loro in condizioni di orientarsi da soli, dare dei suggerimenti che poi possano sviluppare da soli". Il che mette Le Tigre in una strana "posizione contrattuale" con il loro pubblico: in un certo senso è come se inchiodasse Kathleen, Johanna e JD ad una sorta di continua responsabilità nei loro confronti. No?

Kathleen: Anni fa era così. In passato sentirmi un modello di ruolo nel senso più tradizionale del termine era una cosa che mi bloccava terribilmente. Essere lì sopra, sul palco, e vedere tutte quelle persone, giovani e inesperte, che si aspettano qualcosa da te, e tu devi fare le cose giuste, dire le cose giuste, prendere le decisioni giuste, perchè tutte le persone guardano a te come ad un modello. Finchè non ho capito che anche un modello di ruolo è una persona, una persona che sbaglia, che commette errori come tutti, e proprio far capire questo a quanti guardano a te come ad un modello era il migliore esempio che si potesse dare. È a quel punto che ho sentito meno pressione nel mio ruolo. I migliori modelli di ruolo sono proprio quelli che fanno quello che possono al proprio meglio, consapevoli di essere "umani". È importante quando una persona ti vede mentre commetti un errore, e poi tu riconosci di averlo commesso e vai avanti correggendo il tuo errore. Questo è un messaggio importante da trasmettere, e se vuoi il punk era proprio tutto in questa semplice considerazione.

Johanna: Non credo che i ragazzi e le ragazze abbiano bisogno di modelli tipo "Vergine Maria", nel senso di modelli assoluti, di icone. C’è piuttosto bisogno di qualcuno che ti ispiri, che abbia già percorso certe strade e che quindi abbia l’esperienza, qualcuno che ti apra una finestra sul "futuro" per così dire, sulle cose che potresti fare, sulle strade che ti si aprono davanti, su ciò che potresti diventare. "Siamo così, potete esserlo anche voi". Che ovviamente non vuol dire solo "ehi, anche tu puo fare una rock band come noi": ha un significato più ampio, vuol dire potersi esprimere liberamente, vuol dire poter seguire le proprie inclinazioni, la propria strada qualunque essa sia.


Dice Kathleen: "Non è sempre facile essere ciò che siamo, avere le idee chiare ed andare sul palco a esporle. Alla fine dell’esperienza con le Bikini Kill ho dovuto prendermi del tempo per riflettere senza dover rendere conto a nessuno. Ancora adesso mi capita di incontrare persone che mi dicono "che strano, ero convinto che fossi una stronza femminista". E tutto per via dell’immagine che si era creata attorno alle Bikini Kill. Quando abbiamo fondato Le Tigre, nella nostra intenzione quello doveva essere anche un tentativo di trovare un nuovo modo di dialogare con la comunità femminista alla quale comunque ci sentivamo di appartenere. Un modo sincero e diretto, che superasse il muro di nostalgia e cinismo che sembrava aver contagiato la comunità stessa". Sembra il momento buono per provare a ricordare gli ultimi anni delle Bikini Kill e del movimento riot-grrrl: magari ricostruendo con l’aiuto di Kathleen la diaspora di tutta una serie di energie del punk politicizzato statunitense anni Novanta. Kathleen però vuole parlare soltanto a titolo personale: "La cultura DIY è ancora viva, dunque l’eredità degli anni Ottanta e Novanta non è andata sprecata, evidentemente. Magari oggi ha a che fare con il postare files mp3 nel proprio sito internet più che con l’organizzare i tour, ma lo spirito mi sembra lo stesso. Occasioni sprecate? Onestamente non riesco a pensare ad occasioni sprecate. Ti riferisci a chi ha fatto affari con le case discografiche? [in realtà più a chi ha fatto affari con le grosse società di management...] Le Bikini Kill ricevevano continuamente offerte di contratti da parte di etichette major, ma in quel momento pensavamo che la cosa giusta fosse rimanere indipendenti, ed è quello che abbiamo fatto". La cosa buffa è che il famoso supercontratto major perpetuamente rifiutato dalle Bikini Kill è finalmente andato in porto con Le Tigre proprio adesso, all’alba del 2004, nel momento esatto in cui chi più chi meno tutte le major stanno andando a bagno... "E’ vero", dice Johanna, "il momento è strano, ma in realtà il contratto riguardava quasi più il nostro vecchio catalogo che non il nuovo disco. Ci interessava che non andasse perduto, che fosse disponibile. È vero che l’industria discografica sta mostrando tutti i suoi limiti, però al momento rimane ancora il veicolo più efficace per avere un’esposizione su larga scala di ciò che fai, specie in un paese fatto per il 70% di provincia come l’America".

Ed a proposito di passato e presente, una cosa che spesso ci si chiede riguardo a Le Tigre alla luce della loro vena electro è se già ai tempi dell’ortodossia punk delle Bikini Kill fosse chiaro come un campionatore potesse essere "politicamente rilevante" al pari di una chitarra. Kathleen dice di sí. "Nel primissimo album delle Bikini Kill c’era anche un campionatore, che in quel momento usavo principalmente per campionare frammenti della mia voce. Mi divertivo a infilare nel mezzo delle nostre canzoni dei frammenti di pezzi famosi come You Spin Me Round dei Dead Or Alive...". ...Oppure Give Peace A Chance di John Lennon. "Esatto! Passare dal semplice campionare la mia voce per gioco a campionare frammenti di suono vero e proprio è stato naturale. Credo che l’elettronica e il campionamento siano un importante veicolo espressivo soprattutto per le artiste donne. Come donna io non sono mai stata incoraggiata ad imparare a suonare nessuno strumento: al college, quando con un paio di compagne per la prima volta abbiamo preso in mano le chitarre e cominciato a provare a suonare insieme, nel giro di una settimana ervamo lo zimbello di tutti. Con un campionatore sono in grado di prendere frammenti di chitarra o di qualunque altro strumento mi interessi, e - cosa ancora più importante - il campionatore posso abbastanza facilmente imparare ad usarlo da sola.


Davvero ancora oggi capita che le ragazze vengano scoraggiate a suonare gli strumenti? Davvero lo stereotipo è così forte anche dopo che personaggi come Courtney Love - nel bene e nel male - sono diventati dei punti fermi nel pop?

Kathleen: C’è un modo ancora più sottile per scoraggiare le donne, ed è il continuare a considerare implicitamente le band composte da donne come una "stranezza", una divertente eccezione alla regola. C’è voluta tutta la vita perchè le Bikini Kill venissero accettate come una "vera" band e non come uno scherzo, anche nel circuito del punk. E adesso che l’idea di una band composta da ragazze è finalmente entrata nell’uso comune, adesso c’è un’altro modo di scoraggiare le ragazze, ed è il dire loro "oh, state solo seguendo una moda"...

Johanna: Se fai il confronto con dieci anni fa ci sono meno ragazze che formano gruppi, che fanno musica. È un processo molto sottile quello dello scoraggiare, qualcosa che agisce in profondità, in genere ancor prima che tu decida di provare a metterti in gioco. Ti faccio un esempio: anni fa lavoravo in una galleria d’arte che organizzava spesso collettive di artisti esordienti, e numericamente le ragazze che proponevano i loro lavori alla galleria erano sempre di gran lunga meno rispetto agli uomini, ma al tempo stesso i loro lavori erano, in genere, molto interessanti. Tra gli uomini, che erano molti di più, la percentuale di lavori mediocri o scarsamente significativi era decisamente più alta. Non è semplicemente statistica, è qualcosa che ha a che fare con la fiducia in te stesso che ti viene - o non ti viene - instillata quando cresci.

Ovviamente siete consapevoli del rischio che anche il femminismo e la consapevolezza politica, quando incontrano il mainstream, rischiano di diventare un cliché.

Kathleen: Credo che diventi un cliché quando ti limiti a definirti in opposizione rispetto a qualcosa. Se formi una girl-band solo come risposta ad un music-business dominato dagli uomini, sei un cliché. Se invece lo fai per scoprire qualcosa, per comunicare qualcosa, per condividere il tuo entusiasmo vero qualcosa, allora non sei un cliché, sei te stessa. Definirsi come opposizione a qualcosa è in realtà un ottimo modo per rendere un tributo a ciò a cui ti opponi.


Un paio di ore più tardi il Rainbow è pieno per poco più di metà. La gente gira in tondo mentre dai muri scende il northern soul suonato dalle due dj in divisa da hostess. Finchè sul palco non sale una specie di ragazza ansiosa di farsi benvolere. Infatti le prime parole che dice sono: "Ciao, sono Violetta Beauregarde e qui non siamo al Plastic, quindi voi siete fuori luogo". Noi siamo fuori luogo? Tutti? Qualcuno in particolare? Venti minuti più tardi, e al quindicesimo o sedicesimo richiamo alle "fighe di legno" giù in platea, si arguisce che è solo questione di metafore (e Violetta ne sa a pacchi). Ok, strilla come il peggior incubo del vostro gatto. Ok, è come Nick Cave a 45 giri con sotto una cover-band glitches di John Zorn. Ok, dopo che ha fatto tre pezzi uno farebbe volentieri lei, in tre pezzi. Ma c’ha per-so-na-lità, e noi antichi clienti del Plastic in fondo c’accontentiamo di poco.
Poi qualche demente mette un disco degli Skunk Anansie, per dieci minuti buoni.
Poi arrivano Le Tigre. Che attaccano Deceptacon e immediatamente come per sortilegio il Rainbow si trasforma nella glam-elektro-disco dei sogni di ognuno. Com’è facile intuire dale premesse, il sound è kitschissimo e nel contempo anche molto sobrio e "moralmente" punk. Spicca la similitudine con il live show delle Chicks On Speed, e spicca anche come Le Tigre siano circa un milione di volte meglio. Sono anche meglio di loro stesse su disco, parecchio meglio (su cd This Island fatica non poco a decollare). Dal vivo il suono ha molto più corpo, più presenza, riempie perfettamente il palco. Kathleen ha i capelli tirati indietro, la frangetta e una tutina tipo William Shatner in Star Trek. Con le altre due allestisce (ogni tanto) delle coreografie degne di un quiz dell’ora di cena, e tutt’a un tratto è come si fosse usciti dal lato sbagliato della trombetta del tempo e fosse di nuovo il tempo delle Go Go’s, dei Tom Tom Club. Al terzo pezzo arrivano anche le chitarre, mentre sullo schermo a fondo palco scivolano immagini del gioco del Tetris. Scorrono i pezzi. Fra i tanti si segnalano: uno la cui base sembra No Escape dei Seeds nell’indimenticabile versione 1979 dei Cabaret Voltaire, e la cover di I’m So Excited delle Pointer Sisters che sta anche nel nuovo disco e che nella versione tigrata sembra una roba costruita con i pezzi avanzati da Atomic di Blondie. Bello, tutto molto bello.
Poi, infine, mentre gli occhi bellissimi e stanchi di Kathleen si posano su una lunga fila di ragazzi e ragazze che le vogliono parlare post-concerto (e lei ascolterà tutti, parlerà con tutti), si è fatta mezzanotte e c’è ancora un venerdì sera che magari qualcuno vorrà portare a termine. Finita la militanza, inizia la fattanza. Tutti al Plastic, tutti al Plastic. Pare che c’è un concerto di una che si fa fotografare le tette su internet. Una che c’ha pure un blog, tanto moderna che è. Pare che all’inizio lei dica robe del tipo: "ciao, sono Violetta e qui non siamo al Rainbow, dunque voi siete fuori posto". Baby, tu non lo sai, ma noi si adora essere fuori posto. Eccoci, arriviamo. Solo un ultimo sguardo agli occhi stanchi e bellissimi di Kathleen.

(da: Rumore, novembre 2004)