The Darkness: old Skool of Rock
 

di: Fabio De Luca




Avreste dovuto esserci. Se non c’eravate vi siete persi qualcosa. Il concerto milanese dei Darkness di fine febbraio - con timida codina televisiva la sera dopo negli studi di Mtv - è stato uno di quei momenti in cui uno si guarda attorno e intuisce che c’è un dettaglio o due che non tornano completamente. E - attenzione - lo si intuisce, appunto, guardandosi attorno, non necessariamente guardando verso il palco. Perchè sul palco c’è questa band di glam-pop-metal da tre milioni di copie vendute dell’album di esordio, i Darkness, ma la sorpresa vera è giù in platea. Giù in platea c’è un pubblico che sembra il grafico a torta di qualche studio sui consumatori di musica nel 2004. Ci siamo tutti, come fosse l’armagheddon. C’è lo zoccolo duro dei "metallari" (qualunque cosa voglia dire il termine nel 2004: probabilmente qualcosa che ormai ha più a che fare con i Limp Bizkit che con gli Scorpions). Ci sono gli ortodossi dell’assolo di chitarra (se ne andranno via soddisfatti: narra la leggenda, a proposito di schools of rock, che il cantante ed occasionale chitarrista Justin Hawkins si sia diplomato alla scuola di musica con tesi e relativo saggio su Ritchie Blackmore dei Deep Purple). Ci sono facce e montature d’occhiali che ti aspetteresti ad un concerto dei Franz Ferdinand; magliette dei Joy Division e degli MC5; pulloverini dell’Oviesse e sguardi divertiti e un po’ allarmati di chi era da tempo che non metteva piede ad un concerto. E poi l’età: ad uno sguardo anche solo superficiale è ovvio che si spazia tra i sedici ed i cinquant’anni, anche se la media è - giustamente - ben salda in mano ai twentysomething. Ciò detto, sarebbe bello poter concludere che tutto questo succede perchè i Darkness hanno trovato il modo di unire pubblici così diversi fra loro parlando ad ognuno nella propria lingua, in una sorta di magico ed ecumenico afflato universalista. Sarebbe molto bello, ma non è esattamente così. Perchè, fatti salvi i metallari (pardon, "metallari") e gli ortodossi della Stratocaster, il resto del pubblico che ha stipato l’Alcatraz fino al sold out - così come ha analogamente esaurito ogni singola data del tour inglese nel 2003, e vedremo nei mesi prossimi come andrà in America - è un pubblico che con il metal ma anche solo con il "rock" tradizionalmente inteso non ha nulla a che spartire. Lasciamo fuori quelli (comunque la cospicua maggioranza) che li hanno scoperti e sposati grazie a Mtv: gli altri sono curiosi della più diversa estrazione. Insospettabili new-wavers, imprevedibili indie-rockers, electro-clashers a corto di santi a cui votarsi. Del resto: di tutte le radio al mondo è stata l’emittente indie-alternativa londinese per antonomasia, Xfm, ad invitare lo scorso dicembre i Darkness alla propria festa di Natale come opening-act per i Libertines. L’accoppiata - insensata sulla carta - agli occhi ed alle orecchie del pubblico di Xfm ha invece funzionato alla grande.

Di certo c’è, a più livelli, la netta percezione che i Darkness siano molto più della semplice somma algebrica dei loro addendi, che in qualche modo misterioso ma al tempo stesso clamorosamente evidente dicano qualcosa di questo momento storico di passaggio. Non è solo il rock "che torna ad essere centrale" - i club che si svuotano e i concerti che tornano a riempirsi - e non è solo il patchwork di citazioni di cui si alimenta il loro suono (AC/DC, Deep Purple, Motorhead, Queen, Ted Nugent, pure certo metal da Fm americana anni Settanta). Una cosa interessante l’ha scritta la rivista inglese The Face, che lo scorso dicembre ha dedicato la copertina ed un ampio servizio (pomposamente corredato di foto firmate David Lachapelle) alla band e soprattutto al fenomeno di costume da loro rappresentato. "Dal modo in cui cuciono insieme elementi ben conosciuti in un collage intelligente ed avveduto", scrive The Face, "verrebbe quasi da pensare che i Darkness non abbiano tanto a che fare con la tradizione delle rock band quanto, invece, con l’approccio per frammenti della musica fatta al campionatore". Un’ipotesi sulla quale si potrebbe stare a discutere per pomeriggi interi da quanto è esile ed aleatoria. Però qualcosa di sensato c’è, se è vero (com’è vero) che nell’approccio pur scrupoloso e devoto dei Darkness alla materia del rock classico si coglie subito una differenza in termini di "religiosità", un’assenza di pesantezza che è - probabilmente - ciò che subliminalmente conquista anche le fasce di pubblico più estranee. Merito dell’"ironia"? Non solo. Quello dell’ironia è anzi il cliché che i Darkness sembrano odiare di più. Ovviamente uno dice: con quelle tutine di spandex che nemmeno Kylie Minogue agli Mtv Award, con quei falsetti "che sembrano il trapano del dentista" (The Guardian del 22 febbraio 2003), difficile pensare che possano non esserlo, ironici. E invece no. "La gente stenta a credere ai propri occhi quando ci vede" dice il chitarrista Dan Hawkins, fratello di Justin: "pensano che ci sia uno studiato intento di essere ironici, ma non è così. Non siamo ironici, stiamo semplicemente facendo quello che ci piace". Non c’è ironia, è tutto vero: vero rock alla vecchia maniera. Infatti: "Ciò che facciamo e che vogliamo fare è semplicemente rock da stadio" aggiunge Justin, "una cosa alla Van Halen, alla Bon Jovi. Musica che entra in contatto con la gente".

Tant’è. Con la sola eccezione di Kerrang (che li ha definiti senza mezzi termini - e senza molto senso del ridicolo - "la più grande rock’n’roll band degli ultimi vent’anni"), tutta la stampa sembra aver posto l’accento sull’elemento ironico dei Darkness: chi apprezzandone la consapevole capacità di flirtare con gli ingombranti stereotipi del rock, chi (ad esempio Nme) liquidandoli come uno scherzo di cui "non rimarrà traccia nella storia del rock". Di certo ciò che rappresentano è una reazione - e pure netta - a quella sofferenza e introspezione che ha segnato il rock degli anni Novanta, dai Nirvana a tutto il nu-metal. I Darkness, per contro, vogliono essere "puro intrattenimento". E se questo volesse dire dover recitare la più perfetta versione tridimensionale mai immaginata di Spinal Tap... ok, è uno sporco lavoro ma qualcuno doveva pur farsene carico, no? Tenetevi forte perchè c’è da ridere: "gli Strokes?" si interroga Justin Hawkins con la sua boccuccia sapientemente imbronciata, "gli Strokes sono una merda: io voglio i virtuosismi, gli assoli di chitarra, i frontman che gridano". Segue più conciliante e articolata dichiarazione del bassista Frankie Poullain: "gli Strokes sono mollicci. Sono dei ragazzi carini, non dico di no, ma non ci trovo nulla di più. Noi abbiamo la spina dorsale, loro no. Questa è la differenza. Con gruppi così in circolazione, per noi è fin troppo semplice avere successo". "E comunque", conclude Dan, "nessuno di noi ha comprato dischi di band nuove negli ultimi dieci anni".

Questa è la rivoluzione che ci tocca per quest’anno. Che non sarà il massimo del rivoluzionario, ma almeno fa ridere, o sorridere. In un momento il cui anche nelle sue manifestazioni più originali (dai Von Bondies ai Liars passando per White Stripes e Rapture) il rock guarda indietro in maniera evidentemente ostentata e seriosa (e questo ci piace: sia ben chiaro che ci piace), i Darkness riportano invece tutto al suo minimo comune denominatore. Riff, air-guitar e concerti che ti mandino a casa con l’impressione di essere stato adeguatamente strapazzato. Un filmetto: come quando agli ultimi Brit Awards i Darkness - che in quell’occasione di Award ne hanno vinti tre di quattro nomination che avevano - hanno fatto la loro entreé sul palco preceduti da una falange di Hell’s Angels motorizzati. Tamarri, tremendamente tamarri. Ma di una tamarraggine talmente spontanea, consapevole e gioiosa da riuscire a passare per raffinato gioco semantico anche quando evidentemente non lo è. Ecco in cosa sono diabolici i Darkness, oltre che molto più paraculi di quanto vogliano dare a vedere. E aggiungeteci pure questa notizia dell’ultim’ora: intuendo (probabilmente, chissà) l’importanza di parlare ad un’audience il meno omogenea possibile, il prossimo passo annunciato dai Darkness è quello di un singolo insieme ai rappers statunitensi visti-anche-a-Sanremo Black Eyed Peas. Una mossa che - se confermata (fino ad ora c’è una dichiarazione d’intenti di Will.I.Am dei Black a BBC Radio 1) - ha tutta l’aria di poter diventare un caso paragonabile per impatto e portata all’epocale collaborazione di vent’anni fa tra Run Dmc ed Aerosmith per Walk This Way. Nel frattempo i Darkness si divertono un mondo, e quando guarda la gente in platea che risponde alle sue mossette ed ai suoi giochetti Justin - la cui lunga gavetta è adesso oggetto di leggenda tra i frequentatori del circuito dei pub "metal" di Camden - sembra veramente incredulo che tra tanti che fanno il rock tutta ’sta botta di culo sia toccata proprio a loro. Ed è ovviamente soprattutto quella punta di incredulità a renderci simpatico Justin: senza quella piccola ombra, senza quella finestra di consapevolezza di come vanno le cose nel mondo reale, forse sarebbero solo degli Europe come tanti altri. E non li troveremmo irresistibili come invece li troviamo irresistibili.

(da: Rumore, aprile 2004)