Stupiti & Confusi: apologia (o quasi) di Chloe Sevigny
 

di: Fabio De Luca

"La prima cosa che noti in Chloe sono gli occhi. La maggior parte delle persone abbassa lo sguardo dopo una frazione di secondo di contatto; lei invece ti guarda fisso senza nemmeno accorgersene". Queste le prime parole con cui sul numero dello scorso maggio della rivista inglese Dazed And Confused viene introdotta l’intervista a Chloe Sevigny. Chloe Sevigny è la protagonista del film più discusso (insieme a Trainspotting) della scorsa stagione, Kids di Larry Clark, storia poco tenera e per niente ammiccante di un gruppo di pre-adolescenti newyorkesi alle prese con spiccioli di vita quotidiana. Lei, tanto per capirci, è la ragazzina quattordicenne che si becca l’AIDS perchè il suo fidanzato (che di regola "scopa solo le vergini", così da dribblare il rischio-AIDS) ha evidentemente sbagliato i suoi calcoli. Prima ancora la si era vista nel video di Sugar Kane dei Sonic Youth (era la modellina che sfilava senza nulla addosso) ed in quello di Big Gay Heart dei Lemonheads, oltre che sulla passerella per il lancio della collezione X-Girl firmata da Kim Gordon.



Chloe è l’archetipo assoluto di quel che si intende per "slacker". Guardatela: sguardo mai perfettamente a fuoco, viso acquoso, più che acqua & sapone; lineamenti che fai fatica a ricordare. Come se ad un certo punto del processo di strutturazione delle caratteristiche somatiche, d’improvviso tutto il meccanismo si fosse fermato: in attesa. Una metafora generazionale ambulante. L’ultima stazione in un percorso di rarefazione estetica che dagli anni Ottanta ad oggi, da Molly Ringwald a Patricia Arquette passando per Winona Ryder e Drew Barrymore, ha destrutturato non tanto i canoni della bellezza (che rimangono come sempre soggettivi) quanto l’oggetto stesso della rappresentazione. Un fascino che nasce dall’assenza di ragioni per cui si dovrebbe rimanere affascinati. Affascinante.

C’è in tutto ciò l’allusione all’incertezza diffusa in cui sono cresciuti i quindici/ventenni di oggi: il crollo delle illusioni, la paura verso desideri che (forse/probabilmente/chissà) non potranno venire soddisfatti. E allora l’unica cosa che rimane è guardarli in slow-mo, questi desideri, rimanerne affascinati ma lasciandoli fuori di sé. Vivendo quindi in uno stato di costante esitazione, sperimentando quella paralisi opzionale di cui Douglas Coupland definiva i contorni già nel suo romanzo di esordio Generazione X: "la tendenza, nel caso di offerta illimitata di alternative, a non sceglierne nessuna".

Da cui il girare in tondo, l’apparente non andare da nessuna parte. Esattamente come nei film migliori degli ultimi anni, dove apparentemente non succede niente: Hartley, Kar Wai, Wenders/Antonioni e l’ultimo bellissimo Rohmer. Come nella musica più intrigante degli ultimi mesi: i loop immobili della trance e del post-rock, la superficie anonima del trip-hop, il rock-muro-del-suono dai contorni fragili e timidini di tutte le straordinarie produzioni della Trance Syndicate di Austin, Texas (Furry Things e Starfish in testa). Immobilità apparente che equivale però ad una forma di resistenza passiva nei confronti della vita e del "dover scegliere". In una parola, slackness: letteralmente "pigrizia", ma l’equivalente italiano potrebbe essere "fancazzismo". Lo stupore come stile di vita: intervistato il mese scorso dal magazine inglese Blah Blah Blah sul suo personale rapporto con il successo Beck (uno per cui il termine slacker fu tirato fuori già tre anni fa) risponde che "è stato come se qualcuno mi avesse portato in una vacanza a sorpresa senza darmi il tempo di prendere lo spazzolino da denti". Stupore, disincanto, e sempre una sorta di non perfetto coordinamento con lo scorrere del tempo: un titolo come O-De-Lay già suona stranamente simile a O-Delay ("oh, ritardo")...

Stupiti & confusi insomma; come dire Dazed & Confused, che era una vecchia canzone dei Led Zeppelin ma più di recente anche il titolo di un film del texano Richard Linklater, il regista che per primo ha fissato sulla pellicola i temi di cui sopra (il suo esordio si intitolava guarda caso Slackers, anche se in Italia abbiamo visto solo Prima dell’Alba). Il tempo ci sfugge tra le dita. Vorremmo fare di più, decidere di più, amare di più: ma non possiamo, perchè tanto sarebbe inutile. Perchè tanto, come canta Billy Corgan, the world is a vampire...

(da: Rumore, luglio/agosto 1996)