Beastie Boys: To The 5 Boroughs
 

di: Fabio De Luca




Poi qualcuno dirà che qui si parla di qualunque cosa meno che di musica. Ma pure loro, accidenti (loro nel senso di "etichetta discografica dei Beastie Boys"). Cacandosi sotto - con rispetto parlando - circa la possibilità che il qui presente disco potesse finire in Rete prima della pubblicazione, hanno fatto recapitare alle filiali in giro per il mondo centinaia di computer contenenti un software supersegreto all’interno del quale era criptato l’audio del disco, ed hanno quindi convocato uno per uno i giornalisti per l’ascolto. La cosa divertente è che era pure previsto che ai computer fossero collegate delle seggioline "acustiche" in grado di far sentire al giornalista seduto sopra tutta la vibrante potenza dei bassi di To The 5 Boroughs: forse per far dimenticare loro che in fondo sarebbe bastato collegare un qualunque walkman all’uscita della cuffia del computer, chissà... Comunque la seggiolina in dotazione alla filiale italiana non ha mai funzionato (questioni di voltaggio, pare). Questo giusto perchè lo sappiate.
E adesso il disco. Che è puro e semplice Beastie Boys, nulla di più. Proprio come li si ricordava: limpida e incontaminata old-skool, (ri)fatta benissimo, con la baldanzosa sicumera ed il raffinato aplomb di chi c’era ed evidentemente ha il cuore e il corpo ancora lì, anche se la testa nel frattempo è andata altrove. Old-skool che addirittura cita sé stessa senza remore: ad esempio in Triple Trouble, pazzesca, tutta costruita attorno al groove di Rapper’s Delight della Sugarhill Gang, la pietra filosofale dell’hip-hop. Oppure We Got The, dove il sample (tritatissimo, ma giureremmo che è quello) sembra Strong Island di JVC Force. Ch-Check It Out, il singolo, è puro cervellotico tormentone Beastie Boys senza punti d’appiglio e senza ritornello; Oh Word? è secca e (studiatamente) legnosa come certi dischi hip-hop, soprattutto inglesi, degli albori del sampling; That’s It That’s All è senza mezze misure electro alla maniera del 1983. Dunque, dov’è il trucco? Non c’è. C’è che i BB hanno fatto un disco di tributo al (loro e nostro) passato, e gli è riuscito molto bene. Un disco nel quale non dicono nulla di nuovo se non la loro gigantesca, titanica, smisurata bravura nell’essere sé stessi. Il che ha un evidente limite: a "fare i Beastie Boys" ed a rappare di Star Trek e di Star Wars e "microphone" che fa rima con "provolone" si rischia di restare Bevis & Butthead forever. E un po’ è così, certo. Questo è il lato più spaventoso e al tempo stesso affascinante di To The 5 Borough: l’evidente trasformazione dell’adolescenza in un lavoro a tempo pieno per i tre quasi-quarantenni Beastie, ormai specialisti nella scienza del negare - un po’ per scherzo e un po’ no - il tempo che passa. [Sarà ovviamente un caso, ma anche il bellissimo disegno di copertina di Matteo Pericoli - un illustratore molto legato al New Yorker - vede una New York con le Twin Towers "ancora su"...] Poi, certo, la "maturità" la trovi nelle sfumature: nell’abile tessitura electro-ragga di Time To Build ad esempio, o in The Hard Way che sembra la versione dub registrata sott’acqua di Intergalactic, o nel taglio punk (con un sample che potrebbe essere Sonic Reducer dei Dead Boys, o comunque gli assomiglia tantissimo) di An Open Letter to NYC, che loro dichiarano essere un po’ il cuore stesso di questo disco. Ma il rapping invece è sempre quello di una volta: petulante, cazzone, tale e quale a quando berciavano del combattere per il diritto di far festa. La loro arma segreta contro il tempo, evidentemente. Ora e sempre, Beastie Boys.

(da: Rumore, giugno 2004)