Sigur Ros: il mondo è più divertente di quel che potresti credere
 

di: Fabio De Luca




prima ora: FILOSOFIA
Le "oscure strategie" della tradizione radical-chic sbiadiscono e addirittura scompaiono al cospetto di un disco strategicamente oscuro da qualunque angolazione lo si guardi come il nuovo "()" degli islandesi Sigur Ros. Non così lontano né così diverso dal precedente Agaetjs Byrjun, () è attraversato da suoni percussivi come colpi sulla fusoliera di un aereo in fase di decollo ("effettivamente le dinamiche delle batterie sono una delle cose su cui abbiamo passato più tempo in studio", dicono), oltre che dalle consuete languidissime cascate di emotività inadulterata e liquefatta, e da quella sorta di "lingua perduta delle gru" che - come nel toccante racconto di David Leavitt - è il loro grammelot privato mezzo islandese e mezzo inventato. (Perchè avete chiamato questa vostra lingua Hopelandic? "Perchè la prima canzone in cui l’abbiamo usata si intitolava Hope"). Talvolta l’oscurità gioca brutti scherzi: come qualche mese fa a New York, quando in finale di concerto hanno fatto partire un filmato di esplosioni in sequenza, e qualcuno tra il pubblico se ne è avuto talmente a male da farglielo capire in modo tutt’altro che oscuro, lanciando al loro indirizzo una gragnuola di bottigliette di Budweiser vuote. Altre volte, invece, fa riflettere sull’importanza che attribuiamo al "riconoscibile", ad esempio alle parole: al condizionamento nei confronti delle abitudini, di ciò che "è sempre stato così", che è per l’appunto una delle cose che un titolo storto e impossibile come () tenta di scardinare. Poi, come spesso accade, succede che incontri i diretti interessati e scopri che neanche un decimo di quello che hai fantasticato sul loro conto in termini di teoria e intenzioni corrisponde al vero.

Cominciamo dall’inizio, dai fondamentali, dalla domanda delle domande, quella che "ognuno in cuor suo sogna di poter rivolgere loro" (come fossimo nel Total Request Live del paese dei Puffi) e che chiunque di qualsiasi radio o magazine a qualunque latitudine sta rivolgendo loro ad una media di tre/quattro volte al giorno, cinque giorni la settimana: per quale accidenti di ragione l’album non ha un titolo "normale"? Di quelli che non ti costringono a fare domande idiote destinate a rimanere senza una risposta soddisfacente? Anzi: la vera domanda potrebbe essere in realtà un’altra, variante appena più fantasiosa della precedente. Quando hanno deciso di intitolare l’album (), e ancor più semplicemente di non intitolare le otto tracce del disco, sapevano dell’inferno cui si sarebbero condannati di lì a poco? Prevedevano che la soporifera internazionale della stampa musicale ci si sarebbe attaccata come il polpo ad uno scoglio? Immaginavano che non li avrebbero più fatti vivere? Che ad ogni nuova phoner o FTF ci sarebbe sempre stata la faccina sorridente di un Lester Bangs in sedicesimi pronto a schernirsi con un "so che ve lo stanno chiedendo tutti ma, capite, nemmeno io posso esimermi dal chiedervelo"? Kjartan Sveinsjon, tastierista ventiquattrenne, giocherellando con un cestino di "fragole tedesche" rubato il giorno prima in occasione di un’altra session promozionale in Germania, casca letteralmente dal pero. "No, davvero. Ce ne siamo resi conto soltanto alla terza o alla quarta intervista. Alla quinta ci siamo detti che forse, tutto sommato, mettere dei titoli sarebbe stata un’idea migliore... Nooo, sto scherzando! La storia dei titoli è ok: desideravamo che attorno alla musica ci fosse più spazio e meno distrazioni possibile. La stessa grafica del libretto di copertina ha grandi spazi vuoti, bianchi...". Spazi che l’ascoltatore è inviato a riempire "in proprio"? "Non sono fatti apposta per quello, ma ovviamente si: se chi ascolta è stimolato a "rispondere" in qualunque modo, scrivendo la propria versione delle liriche, facendo un disegno o qualsiasi altra cosa, saremo felici di vederlo! Sul sito succede già qualcosa di simile con i testi: ed è molto buffo, perchè persone di lingua e cultura diversa - ad esempio giapponesi e americani e italiani - tendono a tradurre in "parole" e ad interpretare in maniera radicalmente diversa i suoni che costruiscono le nostre liriche!". L’altro Sigur Ros toccatoci in sorte, Orrj Pall, batterista, persino più magrolino e sconcertato del socio Kjartan di dover discutere questioni la cui rilevanza - per loro - sembra prossima allo zero, tace e acconsente.

E’ Kjartan, di nuovo, a riprendere la parola, richiesto di commentare una dichiarazione del chitarrista Georg secondo cui "non c’è alcuna ragione per dare dei titoli alle canzoni" (secondo quanto riportato da www.pitchfork.com). "Quello che voleva dire, credo" ragiona Kjartan, "è che non ha senso dare dei titoli alle canzoni di un album solo perchè c’è la convenzione che le canzoni su un album debbano avere dei titoli, perchè si è sempre fatto così. Tutto inizia dal fatto che i nostri brani non hanno dei testi veri e propri, o per lo meno che non ci siamo mai preoccupati di trascriverli: quindi è come se avessimo detto: "bene, non abbiamo testi da stampare sulla copertina del disco: vogliamo provare a non avere nemmeno i titoli?"". Ok, ma come la mettiamo con il fatto che - all’atto pratico - per chi ascolterà il disco le tracce non faranno altro che diventare "la uno", "la tre", "la sette" etc. Tanto non-lavoro per nulla? "Beh", taglia la testa al toro Orrj in uno dei rari momenti di (misurata) loquacità dell’incontro: "questo va bene: quello che non volevamo era che ci fossero per forza dei titoli da poter mettere in relazione con la singola canzone, che potessero suggerire... delle interpretazioni. I numeri sono ok".



seconda ora: EDUCAZIONE CIVICA
Prima considerazione dieci minuti dopo aver conosciuto i Sigur Ros: non assomigliano ai loro dischi. Uno pensa ai liquidi uragani di tormentate interiorità, alla foresta di arcane simbologie immobili sullo sfondo di fiammeggianti arrangiamenti pomp-wave, oltre che alle solite intramontabili trasparenze d’indaco: ciò che si ritrova di fronte, invece, sono due post-teenegers in tenuta da slacker professionisti (appena di poco spostati sul segmento neo-edonista, Kjartan almeno). Miu Miuccia Prada sarebbe orgogliosa di loro. Noi, ovviamente, anche.

Kjartan: Molti ci prendono in maniera tremendamente seria, ad esempio sulla questione dei testi "che non si capiscono", ma noi siamo anche estremamente ironici: molte cose che facciamo le facciamo solo per divertimento, per vedere l’effetto che fanno! Anche quando leggiamo le interpretazioni che danno dei nostri testi, certe volte siamo increduli per la profondità che viene fuori, altre ci pieghiamo in due dal ridere!

Certo che non assomigliate per nulla alla vostra musica: uno ascolta i vostri dischi e si fa un’idea totalmente diversa. Abitualmente non si pensa ai Sigur Ros come una band che ha il divertimento come una priorità...

Kjartan: Vuoi dire che i nostri dischi sono depressivi?

Sono "depressivi" nel senso che facilitano l’incanalarsi dei sentimenti depressivi di chi ascolta in una dimensione - mi vien da dire - "collettiva", condivisa. Non vorrei farvi sentire come una sorta di servizio sanitario nazionale, ma elaborare la depressione - specie nella fase adolescente - è un passaggio importante, e forse ascoltare i vostri dischi e vedervi dal vivo aiuta molte persone a entrare in contatto in modo positivo con la parte oscura di sé...

Kjartan: Mmmh, molta gente ci ha detto che i nostri testi funzionano come una specie di test psicologico, nel senso che essendo per la maggior parte dei puri suoni ciò che ci leggi è alla fine soprattutto "ciò che sei"... Ma anche questo non è un effetto ricercato: ci affascinano certi suoni, troviamo che cantare in quel modo sia straordinario, e troviamo interessante che ci siano persone interessate a cercare di dare un’interpretazione personale a tutto ciò, ma non è quello il punto di partenza del nostro lavoro!

Non siete deliberatamente "oscuri", dunque. Tutta l’operazione di apparente "opacità" che vi circonda non risponde a una strategia per creare oscurità attorno al vostro lavoro...

Kjartan: No, siamo solo... a little bit insane, un po’ folli! In parte folli e in parte scemi... Ma anche estrememente seri per quanto concerne il nostro lavoro, e curiosi: curiosi nel senso di ricercare sempre qualcosa di nuovo, qualcosa che non conosciamo o che non abbiamo ancora sperimentato, ma con molta spontaneità, senza progettare troppo, un po’ come degli scienziati pazzi...

Qualche interpretazione da parte dei fans che vi ha sconvolto?

Kjartan: Proprio l’altro giorno c’era questa mail di un tale che ha sentito alcuni dei pezzi del nuovo disco nelle versioni live che circolano in rete, e diceva che ha ascoltato con attenzione i testi e si rallegrava del fatto che avessimo anche noi sposato la causa di questa religione che lui definiva "i figli di Ceylon"... Ovviamente non avevamo idea di cosa parlasse, ma poi abbiamo scoperto che questo tizio aveva scritto un libro appunto sui "figli di Ceylon", e dunque non aveva fatto altro che leggere nei nostri pezzi quello che più di ogni altra cosa avrebbe voluto leggerci...



terza ora: GEOGRAFIA
Volete sapere dove nascono le trasparenze d’indaco dei Sigur Ros? Glielo abbiamo chiesto, e siamo in grado di rivelarvelo. Nascono dentro uno studio ricavato da una piscina riconvertita, in mezzo al nulla dell’entroterra islandese. "Il riverbero naturale è fantastico! Non abbiamo nemmeno dovuto allestire pannelli fonoassorbenti o altre cose del genere, il cemento della piscina funziona perfettamente e già da solo dà una qualità particolare al suono" si entusiasma Kjartan. In quello stesso studio hanno registrato il loro ultimo disco anche i Múm: ai quali però - ve lo diciamo nel caso vi capitasse di parlarne con Kjartan o con Orrj - non è che i Sigur Ros adorino essere accostati. Kjartan: "Il luogo dove vivi ha indubbiamente un influenza su ciò che suoni: spesso non riesci a rendertene conto da solo, in genere sono le altre persone a fartelo notare. Nel nostro caso è fin troppo facile associare le distese desertiche dell’entroterra islandese con il nostro suono, o il fatto che in inverno ci siano solo due ore di sole al giorno... Cioè: io non me ne rendo conto, consciamente, ma è probabile che qualcosa arrivi fin dentro la musica. Non so. In realtà credo che più ancora degli scenari naturali il vero punto di contatto tra il nostro suono e il luogo in cui viviamo sia il silenzio. Me ne accorgo ogni volta che lascio l’Islanda, o anche solo quando sono in Islanda ma vado in una delle città sulla costa: dopo poco tempo mi manca il silenzio!".
Forse siamo arrivati al punto: forse è esattamente qui che il suono dei Sigur Ros diventa "universale". Grazie a questo particolare legame con gli spazi vuoti del silenzio che arriva dal di dentro, prima ancora che in virtù di quell’elemento "sognante" (che pure c’è, nella loro musica, ed è evidentemente preponderante) di cui Kjartan riconosce l’esistenza ma non riesce a identificare l’origine ("onirica la nostra musica? beh, probabilmente si, ce lo dicono in molti..."). Ancora Kjartan: "c’è un altro aspetto legato al luogo in cui viviamo, cioè la grande abbondanza di spazio e di orizzonte. Certe volte ti senti come ci fosse questo grande spazio che tu puoi riempire... Quando vengo nell’Europa continentale, se rimango troppo tempo in una città, questo spazio comincia a mancarmi. Esattamente come il silenzio. Credo che questo si senta nella nostra musica. Non ne sono sicuro, ma credo che si senta".
Chissà se c’è proprio questo, alla base dell’imprevedibile paradosso per cui internazionalmente ormai si conoscono più band islandesi (Múm, Trabant, Gus Gus...) che non - per dire - francesi. "Viviamo in un posto isolato dal resto del mondo" ragiona Kjartan, "forse questo ci ha aiutato a non accorgerci di come le cose stavano cambiando attorno a noi. Del fatto che muscisti importanti stavano cominciando ad accorgersi di noi e delle altre band islandesi". Orrj ci manda un messaggino dalla sua cella di isolamento: "dovreste conoscere la scena hip-hop islandese!".



quarta ora: EDUCAZIONE MUSICALE
Ancora sull’Hopelandic: "è un suono come quello della chitarra o delle tastiere: siamo in studio, improvvisiamo, e la voce segue gli altri strumenti con quelle meravigliose architetture di cui è capace. Non c’è nulla di organizzato, nè tantomeno di scritto". I "testi" quindi possono cambiare anche parecchio, da un concerto all’altro? "Esattamente come le parti di chitarra o di tastiera: ci possono essere delle variazioni, dei cambiamenti legati al momento, delle improvvisazioni, ma la struttura rimane quella, riconoscibile". La scrittura introversa ed a flusso, l’immagine circondata da un alone di culto ed il fatto che entrambi utilizzino un linguaggio per buona parte di fantasia, porta con il nuovo () più ancora che in passato a tracciare un parallelo tra i Sigur Ros ed una mai dimenticata band della new-wave inglese di metà anni Ottanta, i Cocteau Twins.

Kjartan: Ce l’hanno detto. Non conoscevo i Cocteau Twins.

E adesso che li hai sentiti?

Kjartan: Ehm, a dire il vero non li ho sentiti...

Fammi capire: non ti è mi venuta la curiosità di ascoltare un gruppo a cui praticamente tutti vi paragonano?!?

Kjartan: Non è che non mi sia mai venuta la curiosità: non è mai successo. Probabilmente in futuro succederà.

Il che, tradotto dall’Hopelandic, suona più o meno come "pippe da critico musicale". A questo punto meglio soprassedere, e scordarsi di chieder conto della similitudine (che pure c’è, è lì, e invoca giustizia) tra "la traccia numero quattro" ed Atmosphere dei Joy Division. Per non dire di quell’altra cosa che ci gira in testa da quando abbiamo sentito () la prima volta: che proprio le percussioni, grandi e roboanti - la vera novità di questo nuovo album - segnino una bizzarra continuità con il lavoro lasciato a metà dai Cocteau Twins una dozzina di anni fa, e che forse questa è la dimostrazione (empirica) di come in tempi diversi sensibilità simili arrivino ad elaborare simili linguaggi originali per raccontare la propria affollata interiorità. Radiohead anyone? "Non c’è nessuno cui ci rifacciamo" è sempre Kjartan a parlare "ci sono molti artisti che ci piacciono: siamo molto aperti e i nostri preferiti sono soprattutto quelli che esplorano zone poco frequentate della musica, ma nessun idolo". E quando eravate ragazzini? "Oh, da ragazzino, a cinque o sei anni, avevo il poster di David Bowie nella mia stanza" ricorda Kjartan. "Oltre a quello di Elton John" aggiunge Orrj.



RICREAZIONE
Immaginate la vostra band preferita, i Sigur Ros, mentre registrano una delle canzoni del loro nuovo album bardati di tutto punto sul fondo di una piscina vuota. "Improvvisiamo, entriamo in sala e improvvisiamo, poi teniamo le parti migliori e rielaboriamo le registrazioni" racconta Kjartan. "Oppure registriamo, facciamo passare un po’ di tempo per poter assimilare ciò che abbiamo registrato, quindi ri-registriamo tutto da capo. Ci sono tre tracce del nuovo album alle quali abbiamo lavorato così". E c’era molta differenza tra la prima versione del brano e quella finale? "In genere, più lavoriamo su una traccia, più il ritmo si rallenta". Tre canzoni dei Sigur Ros (una delle quali sta sul nuovo disco) sono finite anche sulla colonna sonora di Vanilla Sky di Cameron Crow. Ma la cosa pare non sia andata completamente a genio ai diretti interessati, a cui non è piaciuto che la loro musica venisse utilizzata strumentalmente per creare "da zero" un’atmosfera di un certo tipo dentro un contesto totalmente diverso. "Dare tre canzoni a Cameron Crow è stato un errore" dice Kjartan. Che, però, subito si corregge: "no, aspetta, forse errore non è la parola giusta... E’ che a me il film non è piaciuto. E’ un film con tempi totalmente differenti dai nostri. Forse una delle tre canzoni poteva andare, ma le altre due non c’entravano davvero nulla. Almost Famous era carino, comunque...".

In ogni caso: state conservando tutti i take preliminari delle registrazioni di studio, vero? Vi torneranno utili quando sarete famosi come i Velvet Underground, e sarà il momento di tirare fuori il fatidico "cofanetto" degli outtakes...

Kjartan: Tra quanti anni? 25? Beh, non riesco nemmeno a figurarmeli, venticinque anni. Sarebbe già ok arrivare a fare un prossimo disco...

Eppure ne è pieno il mondo - ne conosciamo una mezza dozzina solo qui a Rumore - di persone che smanierebbero di poter essere assunte (anche part-time) dall’impresa di pulizie che nottetempo ha libero accesso al sancta sanctorum della piscina dei Sigur Ros ed all’archivio dei loro nastri "perduti". "Ti rivelerò un segreto" conclude Kjartan: "non faremo mai uscire i nostri outtakes. Siamo dei pessimi musicisti: i nastri di prova sono qualcosa di... imbarazzante!". Un impercettibile sbrilluccichio negli occhi del tastierista degli austeri Sigur Ros mentre si sporge in avanti a prendere la centesima fragola. "Per questa ragione, e solo per questa ragione, le cose che suoniamo sono così lente...".

(da: Rumore, ottobre 2002)





SIGUR ROS: 14 ottobre 2002. Rolling Stone, Milano
di: Fabio De Luca

Potere dell’immobilità: nulla sembra muoversi, nemmeno l’aria, lungo tutta la prima mezz’ora di concerto dei Sigur Ros. Come un anno e mezzo fa al Ciak, sempre a Milano, ma senza le candele e - stavolta - con un pubblico almeno tre volte più numeroso. Giovanissimi e casual, concentrati fin quasi a incrinare la calma perfetta dei loro visi angelici, i Sigur Ros riempiono con educazione e discrezione ogni singolo spazio vuoto attorno a sé. In platea faccine estatiche, un po’ rapite e un po’sconsolate, come emoticons imbronciati (due punti/linea/aperta parentesi). La tentazione è di guardarli ed ascoltarli come se tutto ciò che si vede e si ascolta fosse in realtà "qualcosa che non esiste". Ma non è così: non è semplice evasione, e se di mondi immaginari vogliamo parlare qui allora ce n’è uno completamente nuovo e creato da zero. Una Terra di Mezzo dove i suoni sono così lenti e dilatati da rendere significativi anche i silenzi: un crescendo di rarefazione e tensione che più che scaldare e coinvolgere tramortisce e intimorisce. Molto fa la voce fragile ed eterea del giovanissimo Jor Thor Birgisson, capace di cantare per ore ad occhi chiusi, immerso nel suo privatissimo mondo fantasy insieme alla prevedibile parata di elfi, gnomi, hobbits ed emù - ma anche, sullo sfondo, volti di splendidi bambini nordici avvolti da paesaggi metropolitani sgranati come in super-8. E c’è poi un’altra cosa in cui gli otto (quattro Sigur Ros + quattro "Amina Strings", la sezione d’archi femminile ospite) sono bravissimi: sovrapporre strato su strato di suoni e languori mano a mano che il concerto va avanti, progredendo - senza che quasi nessuno riesca a rendersene completamente conto - dalle astrazioni desertiche dell’inizio fino al muro-di-rumore di metà concerto. Vero rumore. Per il pubblico una sorta di imprevisto risveglio dalla trance, seguito di lì a poco dal lungo liberatorio applauso per la magistrale versione del loro unico pezzo assimilabile ad una "hit" (quello del video con i bambini che si baciano e giocano a calcio). Alla fine tutti felici e tutti contenti. Magia di questi strani islandesi: trasformare gli emoticons imbronciati in emoticons sorridenti (due punti/linea/chiusa parentesi). Poi, tutti a casa a dormire, sicuri - almeno per una notte - di sognare fate e folletti. E nelle orecchie, fino a mattina, un solo inspiegabile richiamo: ciiuiiiii...

(da: Rumore, novembre 2002)