Londra: 333 italiani
 

di: Fabio De Luca




La coda fuori dal 333, in fondo a Old Street, è calma e ordinata come sono calme e ordinate le code fuori da qualunque altro club di Londra. La cosa che ti stupisce casomai è che, a differenza di quanto accade altrove, nei capannelli spontanei di gente che conta le cinque sterline necessarie a entrare senti levarsi più di un’esclamazione in italiano. Colpa di Liquid, serata interamente gestita da italiani che per un mercoledì sera al mese affida i piatti alla "comunità" dei dj italiani alternativi transfughi, chi per un motivo chi per un altro, nella metropoli londinese. Stasera in cartellone ci sono Liam J Nabb, Andrea Young, Beppe Cassetta e Simo: come sempre la sola regola è "niente nomi conosciuti", alla faccia di chi pensa all’Italia solo come alla nazione che ha dato i natali alla "happy-house" più impertinente e spensierata di qualche anno fa, o ai successi di classifica della scorsa estate firmati Tamperer (Can You Feel It) e Molella feat. Phil J (quelli del duetto con gli Heaven 17). A Liquid si ascolta e si balla elettronica ruvida e sperimentale, "drum’n’bass" sincopata, techno marziana; e al piano di sopra, tra proiezioni di gigantesche amebe di colore e loops di film in bianco e nero, ci scappano anche frammenti di Miles Davis ed Herbie Hancock fusi insieme al kraut-rock di scuola teutonica di Can e Tangerine Dream. Tutto opera di dj, designer e proiezionisti italiani trapiantati a Londra. Dopo i primi due mesi di prova Liquid attira un folla non ancora oceanica, ma sicuramente eterogenea e multicolore. Anche inglese, certo, come la piccola bionda Julie, che beve Bud dalla bottiglietta e dice di "non sentire poi così tanta differenza tra un dj inglese e gli italiani che suonano qui stasera". Aggiungendo immediatamente dopo, sinceramente costernata: "Oh, forse volevi che ti dicessi il contrario?".

La cosa più buffa però è che, pur senza dare per nulla l’impressione di una little-Italy versione electro, al Liquid si ritrovano mensilmente abbastanza storie di italiani fuggiti sotto l’ala protettiva della cool-Britannia di Tony Blair e soci da poter quasi pensare di scriverci un saggio di nuovo europeismo. Londra come ultima "terra delle opportunità". Tale è stata per Dario, 25 anni, di Milano, qui da tre. "Guidavo un van con le telecamere per una casa di produzione video milanese", racconta, "un lavoretto da niente, che però mi è servito a capire che quello del video era il mio ambiente. In Italia i corsi costavano troppo e non conoscevo nessuno nell’ambiente, quindi sono venuto a Londra per studiare video-making. Apparentemente la via più complicata, di fatto la migliore". E così è stato per Federico detto "Frigo", 34 anni, laureato in architettura a Firenze ed a Londra da solo quattro mesi. A lui le cose sono andate talmente bene che si considera "uno spot vivente" della Londra 1998. "Sono capitato a Londra senza averci troppo pensato", racconta, "mi ero lasciato con la fidanzata, era un anno che stavo cercando a vuoto lavoro nel mio settore, avevo un po’ di soldi da parte ed amici che mi potevano ospitare per un po’. Così mi son detto "boh, proviamoci". Mi ero dato due mesi di tempo, e quando mancavano quindici giorni alla scadenza ho trovato un posto bellissimo in mezzo a gente fantastica: lavoro in uno studio dove facciamo visualizzazioni di architettura su computer: animazioni, fotomontaggi, cose così. So perfettamente di essere stato molto più fortunato della media; la maggior parte di quelli che arrivano da fuori si adattano a lavori ignobili".

Appunto. E la maggior parte delle storie che senti raccontare qui al Liquid - quella di Beppe, dj la cui famiglia a Olbia ha preso il suo biennio londinese "come una specie di corso di laurea", quella di Tommaso detto Kino, che è a Londra da sette anni ed ora sta lavorando al nuovo disco ed al video della chanteuse francese Anne Pigalle - sono in realtà storie di insoddisfazione per quello che si è lasciato in Italia, di Londra come "ultima chance" giocata quando tutto il resto si è dimostrato inutile. Simone ad esempio, fiorentino, trentadue anni, che stasera suona una selezione di dischi "eclectic and electric" nella sala grande del Liquid, è a Londra da un anno e mezzo e fa il dj da dieci. Nei tre anni precedenti a Londra suonava dance "alternativa" nei privè dell’infinito divertimentificio riminese, proprio in quei posti che ti vengono in mente per primi quando pensi a Rimini ed alle sue megadiscoteche. "Mi sentivo in un vicolo cieco creativo", racconta, "non c’era rispondenza tra le cose che mi piacevano, che suonavo, ed il modo in cui la gente reagiva. Il sogno che mi ha spinto a Londra è quello di fondare un’etichetta discografica, di diventare un produttore "serio". Ho deciso di venire qui quando ho capito che giù stavo solo perdendo tempo. Appena arrivato per sei mesi ho fatto il cameriere, il classico lavoro di chi ha istantaneo bisogno di soldi, anche se pochi e sudati. Nel frattempo il mio studio di registrazione casalingo a Islington cresceva, tutti i soldi guadagnati finivano lì. Adesso lavoro fisso con il team del Liquid, e piano piano sto ricominciando a fare il dj più o meno a tempo pieno". Nostalgie dell’Italia? "Moltissime. Sarà banale, ma anche se qui frequenti gente che ti è più affine sai benissimo che gli amici di una vita li hai lasciati giù, che superati i tuoi trent’anni non troverai mai più da nessuna parte gente come loro. Londra è un posto molto "dry", se vuoi viverci devi accettare di sradicarti completamente dall’Italia. Finchè fai avanti e indietro tra Londra e l’Italia, perdi ogni volta il ritmo che Londra ti richiede, ed ogni volta devi ricominciare da capo. Londra, per accettarti come sua parte, esige una dedizione assoluta, nessuna nostalgia". Com’è allora che a Londra c’è pieno di italiani scappati dall’Italia? "Perchè la società italiana è uno schifo, no?" risponde Simo. "In Italia le strutture sono fatte solo per gli over-40: organizzazione, tassazione... Qui se la tua piccola etichetta discografica arriva faticosamente a stampare tremila copie al mese di un singolo, non hai subito il fiato sul collo del fisco come in Italia, ti lasciano vivere. Questo vuol dire che hai il tempo di crescere come imprenditore, e in prospettiva di creare un fatturato di cui tutta l’industria potrà beneficiare".

Un ritornello ben noto a chi lavora nel mondo dei club. Liam ha trentatrè anni, fa il dj "da più tempo di quanto me ne ricordi", ha pubblicato un paio di singoli "house" di buon successo sotterraneo ed è convinto che "a 33 anni è il momento di concretizzare qualcosa nella propria vita". Louise di anni ne ha poco più di 25, è nata e cresciuta a Londra ma ha vissuto gli ultimi quattro in Italia, a Firenze, insieme a Liam. Liquid è la loro creaturina: una serata alla settimana dove ballare i suoni più alla moda di Londra, quelli che non sentivi da nessuna altra parte, spesso suonati e mixati dagli stessi dj inglesi i cui nomi leggevi su Mixmag e i:D. Tenuta a battesimo nel 1996 in un disco bar del centro di Firenze, Liquid si è poi trasferita per un’estate alla villetta occupata dell’Indiano, quindi al Central Park. "Finchè", dice Louise, "arrivati alla vigilia dell’estate 1998 ci siamo scontrati con il solito problema: l’impossibilità di trovare un posto dove far continuare Liquid anche nei mesi estivi. A quel punto è arrivata la decisione di venire a Londra". "Liquid ormai non poteva crescere più di quello che era cresciuto" aggiunge Liam. "Era in forse il fatto stesso di poter vivere del nostro lavoro. E poi la burocrazia: per lo stato non eravamo nè un centro sociale nè un’associazione culturale nè un locale vero e proprio nè una Srl; non sapevano come inquadrarci, e ci creavano un sacco di problemi fiscali. A Londra è tutto più semplice, senza contare che appena la tua serata comincia appena un poco a funzionare e la stampa specializzata ne parla, automaticamente il tuo nome inizia a girare in tutto il mondo perchè le riviste inglesi di musica e costume sono lette dappertutto, in Italia come in Giappone". "Paradossalmente" osserva Liam, "la serata che stiamo facendo a Londra attira un terzo delle persone che venivano a Firenze, eppure l’interesse che ha sviluppato è almeno dieci volte maggiore".

"Adesso", conclude Louise, "stiamo pensando ad un programma di scambi anglo-italiani di artisti contemporanei, un esperimento per vedere come possano operare degli artisti in un ambiente come un club. Una cosa che in Italia non avremmo mai potuto finanziare: qui invece sì, grazie ad una sovvenzione statale espressamente destinata dal governo al Cinema ed alle Arti prelevandola dagli introiti della lotteria nazionale inglese".

(da: "D" di Repubblica, 15 novembre 1998)