The Streets: "pensavo di essere noiosissimo, pensavo che nessuno mi capisse"
 

di: Fabio De Luca




Se fosse nato in Italia sarebbe J.Ax degli Articolo 31. O, forse, un misto di J.Ax, Tiziano Ferro e Luigi Tenco (un Luigi Tenco in felpa Adidas, scarpe Nike e pinta di birra perennemente in mano!). Invece Mike Skinner è nato a Birmingham, Inghilterra, ventiquattro anni fa. Il suo nome d’arte è The Streets: perchè, dice, "tutto ciò che racconto viene dalla strada". Di storie di strada The Streets ha riempito fino ad oggi due album: Original Pirate Material e il più recente A Grand Don’t Come For Free. Niente a che fare con la poesia metroplitana di un Lou Reed, però, né con le storie a muso duro dei rapper da guerriglia urbana (anche se sono ormai in molti a considerare The Streets una sorta di "risposta inglese ad Eminem"). Quello di Mike Skinner è un rap sotto forma di flusso di coscienza, snocciolato sopra basi elettroniche minimali, quasi sciatte, e vagamente imparentate con lo stile "garage" (una sorta di ibrido tra hip-hop e drum’n’bass molto di moda un paio di anni fa). E le storie sono storie super-normali, di "geezers" come li chiama lui - vale a dire "tipi" - che vanno al pub, alla partita, cercano di rimorchiare una tipa, vanno a ballare nei club, si fanno di exstasy e canne e poi in preda alla fame chimica si fermano al baracchino notturno per un kebab. Il tutto raccontato così come Mike lo vede succedere nella sua vita ed in quella dei suoi amici, senza giudizi morali e senza alcun compiacimento.

Il "concept" dietro l’ultimo A Grand Don’t Come For Free, ad esempio, è la storia di uno (potrebbe essere Mike stesso: al riguardo lui non nega e non conferma) che conosce una, si innamora, la tradisce durante una vacanza con gli amici ad Ibiza, la lascia, poi capisce la cazzata che ha fatto e cerca di riconquistarla. Il tutto lungo undici canzoni, mentre sullo sfondo si snoda un’altra storia parallela di soldi guadagnati, bruciati in sciocchezze ma poi miracolosamente ritrovati. Il risultato è qualcosa che ha quasi più a che fare con il neorealismo che non con il "pop", al punto che adesso anche in ambiti accademici si comincia a guardare con un certo interesse a The Streets ed al suo lavoro sulla lingua inglese e sulle tecniche di narrazione. Alla fine quello fra tutti che si prende meno sul serio è lui stesso. "Poeta io? Ah ah ah, certo: The Streets il poeta di strada, no? Non scherziamo: il poeta è qualcuno che ha un’abilità particolare nel mettere insieme le parole. Io non ho quest’abilità, non scrivo le cose che dico per creare un particolare effetto. La mia abilità è di tipo musicale, casomai. Ma questo non fa di me un poeta".

Quando risponde alla nostra telefonata The Streets si trova in un hotel a Los Angeles, tappa di partenza per un breve tour americano. Poche ore prima si sono svolti due eventi entrambi a modo loro significativi: la sconfitta dell’Inghilterra da parte della Francia agli Europei di Calcio, e la sonora legnata di Tony Blair alle elezioni. Riguardo il primo evento Mike - smentendo la sua fama di hooligano - dice di essersi "divertito molto. Eravamo qui a Los Angeles, in piscina. Probabilmente eravamo gli unici in tutta la città a cui interessasse qualcosa della partita. E il tempo era fantastico, caldissimo!". Sulla questione Blair, invece, nicchia da furbetto: "Se ho votato contro Blair? Intendi i Blur? No, non mi piace la loro musica. Per cui si, ho votato contro. Eh eh eh...".

Gli chiediamo se non sia nervoso all’idea di confrontarsi con il paese nel quale è nato il rap, e che forse potrebbe avere delle riserve sul suo approccio così "inglese" alla materia hip-hop, ma anche su questo Mike sembra estremamente rilassato. "Credo che negli Usa nemmeno mi percepiscano come hip-hop", dice. "Per loro devo essere una strana cosa molto inglese. Io sono cresciuto ascoltando l’hip-hop americano: ancora adesso considero 50 Cent un genio. Ma sono finiti i tempi in cui cecavo di imitare l’accento della East Coast per essere più figo. In Inghilterra viviamo una realtà quotidiana molto diversa da quella americana, ed è quella che mi interessa raccontare". Al cui proposito: è ancora possibile per lui raccontare le minutaglie del quotidiano anche adesso che è - ormai - un personaggio pubblico da mezzo milione di dischi venduti? Lui dice di si: "la mia vita è assolutamente normale. Non ho legato con il mondo dell’industria discografica, non vado alle feste. Vedo i miei amici, gli stessi di sempre. Oppure sto in casa a provare nuovi software musicali per il computer".

Quello che lo stupisce, invece, è l’accolglienza che gli capita di ricevere in paesi non anglofoni. "Onestamente", dice, "pensavo di essere noiosissimo al di fuori dell’Inghilterra, per via della lingua che non si capisce. Invece dappertutto trovo persone entusiaste del mio lavoro! Boh, si vede che la mia musica non è poi così male, no?". Evidentemente no.

(da: Tutto, luglio 2004)




THE STREETS, A Grand Don’t Come For Free (Warner)
di: Fabio De Luca

Alla fine ne esci che sei a pezzi, dalla full immersion dentro questa sorta di musical elettronico di strada che è il nuovo album di The Streets. Non che sia più arduo della media o che ti metta particolarmente alla prova. Anzi, scorre via che quasi non te ne accorgi. (C’è chi dice: Mike Skinner ha indovinato un modello e lo ripropone all’infinito. Vero. Come l’esordio-sorpresa Original Pirate Material del 2002 anche A Grand Don’t Come For Free è minimale, lo-fi, ed è come raccogliesse le scorie di tutta l’acid-house, il trip-hop, il ragga e la garage ascoltati negli ultimi quindici anni. Riassemblati con il minimalismo della necessità e l’abilità del fare dei propri limiti tecnici una virtù ed uno stile). Il punto è quel senso di cosmica desolazione che si porta dietro: il volare deliberatamente basso quasi non ci fosse nemmeno un alto a cui aspirare, "nessun futuro" che non sia quello legato ai piccolissimi santini consumistici da pubblicità di FHM/GQ/Nuts: tv, dvd, sms... (tutti prima o poi elencati, in una canzone o nell’altra). Ken Loach non è poi così lontano, si direbbe. Ed è esattamente questo che la mesta rassegnazione del suono - immaginate qualcosa che è l’esatto contrario dei Massive Attack - sembra riflettere. L’orchestra di latta campionata nella traccia di apertura It Was Supposed To Be So Easy; il solitario loop di pianoforte sopra una semplice batteria elettronica di Could Well Be It; la robina alla Dizzee Rascal - spezzettata e con un rumore come di tuono trattenuto dietro - di Not Addicted. Skinner ci butta sopra le sue frasi e rime un po’ come gli viene, come al solito, petulante come un Eminem, anche se stavolta si concede un paio di svolazzi degni di Prince (I Wouldn’t Have It Any Other Way, evidente riprova del fatto che è tutto meno che uno sprovveduto). E in tema di concessioni, molto più della media concedono il singolo Fit But You Know It (che pare la versione per Playstation di Parklife dei Blur) e la ballatona con archi e chitarra acustica Dry Your Eyes - laddove Mike Skinner finisce per confondersi con Van Morrison e/o Nick Drake, per la confusione generale lo scorno di chi gli vuole male (e pare ne esista una versione con Chris Martin dei Coldplay a cantare il ritornello). Il neorealista è tornato: preparatevi a soffrire.

(da: Rumore, maggio 2004)