Black Rebel Motorcycle Club: belli, neri e ribelli
 

di: Fabio De Luca




Dicono che intervistare i Black Rebel Motorcycle Club sia una specie di inferno. Che fanno scena muta per la maggior parte del tempo, che di regola affrontano i giornalisti in due contro uno e che sono specializzati nel rispondere a monosillabi. Buone notizie: non è vero nulla. Il Black Rebel toccato in sorte a Rumore intanto è uno solo: Robert Turner, il bassista e cantante. E’ imbozzolato nel regolamentare giubbotto nero nonostante sia luglio e faccia un caldo da incubo, e davvero non sembra pericoloso. Mingherlino, gran matassa di capelli: ovviamente molto carino, un po’ tipo il Matt Dillon epoca Rumblefish, più delicato però. Sguardo vivace, acuto, anche se per i nove decimi della chiacchierata terrà il viso rivolto a lato e lo sguardo basso, la bocca piegata in un costante sorriso spigoloso tendente al lievemente annoiato. Evidentemente molto, ma MOLTO consapevole della sua carineria, Robert Turner recita il ruolo di ultimo erede di una lunga serie di intellettuali maledetti del rock con una capacità di immedesimazione che fa alternativamente venir voglia di stringergli la mano o di prenderlo a sberle. Parla, questo si: non bisogna davvero pregarlo. Parla con la voce regolata su un tono che non è silenzioso ma poco ci manca: un fruscio, una delicata brezza marina portatrice di mille parole e di nessuna. Sembra di stare dentro a uno di quei film indipendenti "da Sundance" di qualche anno fa, dove tutti i protagonisti parlavano continuamente fitto fitto, come un ronzio di fondo, e dove nessuno stava in realtà ad ascoltare quel che dicevano gli altri. Robert Turner parla, dice cose, e ignora con molto tatto qualunque tentativo di arrivare a dei punti fermi, di mettere dei paletti lungo la conversazione. A domanda diretta ti guarda sbigottito per due nanosecondi, come si fosse accorto solo ora che c’è anche qualcun’altro nella stanza: accenna una risposta coerente con la domanda, poi riviene trascinato dal suo irresistibile flusso di coscienza e lì rimane, perso lungo una tangente a noi (e ai più) ignota e incomprensibile.

Diciamo così: se fossi una ragazza di vent’anni con un penchant per i belli e scostanti, dopo cinque minuti, forse anche meno, avrei direttamente consegnato chiavi di casa e password del computer nelle mani del Black Rebel dicendogli "ok Robert, sono tua per l’eternità: fa di me quello che vuoi". Non sono una ragazza, non ho vent’anni, e quelli scostanti mi stanno pure un po’ sul cazzo perchè è tutta la vita che vedo donne innamorarsi di loro e non capisco perchè (o meglio: capisco perfettamente perchè, e in fondo al cuore giustifico, apprezzo e un po’ persino condivido). Diciamo però che non è esattamente questo che uno si aspettava. Uno pensa ai giubbotti di pelle, a "Il Selvaggio" con Marlon Brando, e come minimo si prepara ad accogliere il classico cazzone spaccamontagne. Quello che si trova di fronte, invece, è un gentile aspirante Lou Reed come ne vedi a decine, il pomeriggio, seduti da Starbucks. Neanche poi così tanto "rock’n’roll", con tutto che il rock’n’roll c’entra, eccome. Sin dall’inizio: l’esordio di due anni fa, Black Rebel Motorcycle Club, 300.000 copie vendute nel solo Regno Unito, nutriva l’incontenibile desiderio di rock’n’roll che circolava per il pianeta all’indomani di un quinquennio di ubriacatura electro. C’era "voglia di rock" nell’aria, c’era una scena garage sotterranea che però ancora non era pronta al salto in prime-time, e i BRMC hanno quadrato il cerchio facendosi carico di essere la risposta "visibile" alla voglia di rock.

La domanda che si ponevano in quel geniale perfetto epocale singolo che era Whatever Happened To My Rock’n’Roll - "che accidenti è successo al mio rock’n’roll?" - la diceva lunga: era la domanda che tutti noi in una maniera o nell’altra c’eravamo posti in quello stesso preciso momento. Il nuovo Take Them On, On Your Own, che a voler essere cinici è nè più nè meno l’album di esordio meno la splendida virulenza di Whatever Happened To My Rock’n’Roll, si ferma lì, a quella domanda. Anche se qualcosa in più c’è. Non lo si nota subito, ma c’è. È quel loro essere americanamente rock’n’roll e al tempo stesso guardare, con la spontaneità dei loro (poco più che) vent’anni, all’Inghilterra post-1985 ed al suo ruolo nella definizione di un suono che potremmo azzardarci a definire "psichedelico" e al tempo stesso moderno. Robert stesso del resto confesserà nel corso della chiacchierata che "molte delle band che amo - Verve, Ride, My Bloody Valentine - le amo per la loro capacità di non essere concise, ma al tempo stesso di non cadere mai nella semplice auto-soddisfazione". L’alchimia è esattamente uguale e contraria a quella che rese grandi e unici per un breve istante i Jesus & Mary Chain (ascoltarsi Ha Ha High Babe, con quei drones dinoccolati che davvero solo i J&MC nei loro rari magici istanti di lucidità). Di più: Take Them On, On Your Own è il disco "rock" che - retrospettivamente - ci si sarebbe aspettati dai Primal Scream se nel 1990 non avessero adottato la svolta a 180° che li ha portati a concepire Screamedelica. Tutto torna: i BRMC sono stati la prima avvisaglia di un incombente e tutt’altro che superficiale ritorno all’etica ed all’estetica del rock’n’roll dopo una lunga stagione di primato stilistico dell’elettronica, e riprendono esattamente da dove il rock si era compromesso con la dance, la techno e la club-culture. Per andare dove?

Intanto per arrivare qui, in questo ameno baretto molto buddha e molto milanese a due passi dagli scaffali traboccanti di deodoranti incenso e sandalo delle botteghe di corso Como. Robertino mi guarda con sospetto. "Eeeeehi! Sono i fogli con i testi quelli che hai lì con te?". Ops, si. Le fotocopie sono ancora calde. Li ho avuti cinque minuti fa dalla casa discografica. "Lasciami vedere una cosa... mmmh... ce n’era uno che era sbagliato. Solo un paio di parole, ma cambiavano completamente il significato... mmmh... Eccolo: dentro In Like the Rose, dove dice "in like the rose/that grows in your soul", invece dovrebbe essere "in like the rose/that GOES in your soul"... molto più poetico. La cosa assurda è che ho trascritto io i testi...". Uno dice: ok, ho di fronte un gruppo di quelli per i quali le parole sono importanti quanto la musica, un gruppo di quelli che ci tengono che tu legga i testi e ci rifletta sopra e quasi si offendono se non li hai letti. E invece no. "Il problema è che se tu leggi il testo poi mi farai delle domande sul testo che hai letto", dice Robert (e il ragionamento non fa una grinza): "e io non so se mi va di rispondere... Si dovrebbe parlare di musica, poi si finisce per parlare di cose personali, ma sempre all’interno di una formula. Non puoi essere sincero in un intervista, non fino in fondo, per lo meno". Massimi sistemi, dunque. La chiacchierata comincia sotto i migliori auspici. Dio, o chi per lui, è con noi. O forse no.


Ho letto che avete avuto problemi con il governo americano per il testo di, appunto, US Government. Ho letto il testo, e onestamente non mi sembra un testo di denuncia politica, non perlomeno qualcosa che giustifichi l’intervento dell’Fbi...

A Los Angeles un paio di persone del nostro giro, persone che hanno davvero a cuore la nostra felicità, erano... beh, erano davvero spaventate per quello che sarebbe potuto succederci se avessimo pubblicato su disco quella canzone, hanno tentato in ogni modo di dissuaderci. Credo intendessero dirci che... insomma, anche se non è una canzone di denuncia, esisteva sempre il rischio che potessimo attirare dell’attenzione su di noi... che potessimo trovarci coinvolti in una situazione in cui eravamo sotto controllo "speciale"... Non ci vuole molto per attirare l’attenzione su di te. Allo stesso tempo la gente... [qui una pausa di circa quaranta secondi] ...la gente dá la sua propria personale interpretazione a ciò che legge, ed è questo ad essere pericoloso. Sai che voglio dire... dipende con chi stai parlando, cos’ha nella testa...

Ti da fastidio pensare che il mondo lì fuori si metta a sindacare su ogni singola riga che scrivi?

Fastidio...? No, non è fastidioso. E’... frustrante, alle volte. Ci sono cose delle quali non mi pesa parlare, ma altre delle quali farei volentieri a meno di... uhm... parlare. E ci sono persone che leggono quello che scrivi cercando di cogliere una sorta di "disegno" complessivo, di connettere frammenti di cose che hanno letto - o credono di aver letto - in diverse canzoni, e questo mi fa paura. Non ha niente a che fare con me, con noi o con la musica. You know...

Voi, fra l’altro, di problemi con il governo USA in effetti ne avete avuto uno, ma bello grosso. Il vostro batterista [inglese, rimasto negli USA ben oltre la scadenza del visto e quindi di fatto classificato come "clandestino"] si è visto negare il permesso di rientrare negli USA, cosa che vi ha in pratica costretto a rimanere oltre un anno a Londra, ed è questa la ragione per cui avete registrato lì il nuovo album...

E’ stata una storia molto dura. Eravamo come... come in prigione. Non esattamente, ma di fatto non eravamo liberi di andare dove volevamo. Che è... [trenta secondi di pausa] ...è esattamente come essere in prigione. Abbiamo cercato di non prenderla sul personale, come una persecuzione del governo americano contro di noi, perchè... si, ognuno, ogni paese ha le sue leggi, non è questo ad essere in discussione... Uhm... Bah, comunque: prossima domanda?

Beh, per esempio in che modo lo status di "prigionieri politici" fuori casa ha influenzato la creazione e la registrazione del nuovo album...

E’ stato... costoso! Abbiamo dovuto affrontare una luga serie problemi pratici, e tutto a spese nostre. La casa discografica avrebbe appoggiato il nostro rientro negli USA senza Nick, ma non intendeva prendersi cura di noi finchè rimanevamo a Londra. Noi, del resto, non ce la sentivamo di lasciare Nick da solo. Ci hanno proposto di cambiare il batterista, per evitare di fermare il gruppo: per un periodo l’abbiamo anche fatto. Ma non poteva funzionare. Loro non potevano capire. Quando ti succede qualcosa di inaspettato, e questo qualcosa ti colpisce, una delle possibili reazioni è la rabbia, rabbia e frustrazione... [va avanti per cinque minuti buoni, pause incluse, divagando attorno al tema di come il "non essere liberi di andare dove si vuole" ti riempia di rabbia e frustrazione]. Non è che ci mancasse casa nostra, ma era proprio il non essere liberi di poter scegliere dove andare ad averci causato sofferenza. Nel momento in cui abbiamo scelto di accettare quella situazione, in quel momento tutto è scattato. Siamo stati pronti ad affrontare senza alibi la relizzazione del nuovo disco.

Il primo album era stato registrato a San Francisco?

Il primo? Si... metà a San Francisco e metà a Los Angeles. Era un album molto mixed-up... molte delle canzoni sono state scritte con la chitarra acustica e soltanto dopo si è provato a incorporarle nel sound della band. Era... [pausa] un album la cui realizzazione progrediva man mano che imparavamo meglio a capirci tra di noi e acquisivamo sicurezza nel suonare assieme. Un album che ad un certo punto, alla metà esatta della sua realizzazione, è diventato un’altra cosa rispetto a quella che eravamo partiti per fare. È successo che siamo diventati una "band" nel vero senso del termine... una band con un suo suono... uno suono che parte dala batteria e man mano ingloba tutti gli altri strumenti... [seguono otto minuti di minuziosa descrizione su come in sala prove ognuno cominci a fare una cosa per i fatti suoi fino a che - magia! - il senso della "band" prende il sopravvento e tutti i groove individuali si ritrovano per incanto allo stesso modo nello stesso istante dentro la materia viva di una canzone...].

Da quello che racconti sembrerebbe che "semplicità" sia il concetto-chiave per capire i BRMC...

Oh... le limitazioni più che la semplicità. Limitazioni... band di tre elementi, tieni quelle fottute mani lontane dal banco di missaggio, non concettualizzare... Una band è qualcosa di troppo perfetto perchè cose di questo genere si mettano in mezzo sul suo cammino, capisci cosa voglio dire? [seguono sette minuti, pause incluse, su come e perchè - alla luce di quanto appena detto - il nuovo album dei BRMC sia "su un fottutissimo altro livello di illuminazione" rispetto a tutta la roba che si sente in giro adesso e come la riprova stia nel fatto che i suoi autori, e in particolare l’autore delle liriche, ovvero il signore che mi sta di fronte, sia riuscito in nove casi su dieci a "trovare le parole in dieci secondi anzichè in dieci ore"...].

Era questo che intendevi quando cantavi "I gave my heart to a simple chord/whatever happened to my rock’n’roll"? (ho dato il mio cuore a un semplice accordo/che diavolo è successo al mio rock’n’roll).

Intendevo... non so cosa intendevo. Dipende dal... dall’interpretazione. Dipende da cos’hai in testa tu quando mi fai questa domanda...

Seguono... ok, il resto già ve l’immaginate. Gli ultimi cinque minuti Robertino li passa a discutere con un interlocutore immaginario a cui chiede cosa gli passi per la testa e in che modo l’interpretazione influenzi il giudizio. Non sono più io l’interlocutore, non lo sono più da almeno cinque minuti. Il registratore ha già fatto per la seconda volta il click di fine cassetta, e Robert è ancora lì da solo che ragiona. Vengono per la seconda volta ad avvisarci, molto gentilmente, che il tempo a disposizione è scaduto. Scambio di sguardi con la responsabile della casa discografica. "Che devo fare?" Il punto è che pare scortese interromperlo, lui e il suo privatissimo flusso di coscienza psichedelico. Alla fine un "well..." strategicamente piazzato in una pausa più lunga delle altre riesce a ridestarlo. Senso di colpa da entrambe le parti. Io non vorrei pensasse che mi sono rotto le palle ad ascoltare per un’ora il suo stream of consciousness (cosa un po’ vera, almeno verso la fine); lui dice "non è esattamente il tipo di intervista che ti serviva, vero?". Ma invece no, è l’esatto contrario. "Questa intervista me la ricorderò", gli dico: "non hai idea di quante interviste ti scordi di averle fatte subito dopo averle fatte, ma questa me la ricorderò". Robert scuote la testa, accenna un sorriso e si prepara per la prossima intervista. Chissà se riprenderà il filo da dove l’ha interrotto con me oppure se per ognuno degli interlocutori resetta il flusso e ricomincia da capo. Ma soprattutto: che accidenti è successo al suo rock’n’roll?

(da: Rumore, settembre 2003)