The whole point of no return Poi arriva il giorno in cui uno dei tuoi tre eroi adolescenziali (dove per eroe adolescenziale si intende: individuo che sul tuo scaffale dei dischi in vinile occupa più di quindici centimetri di ingombro orizzontale), insomma, uno dei tuoi tre eroi adolescenziali ti si para davanti che sembra una scultura surrealista ove qualcuno abbia incrociato, come su un tavolo operatorio, lo scalpo di Alberto Fortis e e gli occhiali da johnlennon di un fratello Gallagher a caso.
Ti si para davanti vestito di una t-shirt D&G che manco l’ultimo dei tronisti («we-are-mod we-are-mod we-are-we-are-we-are-mod» bofonchia sardonico in un angolo del cervello un me stesso di vent’anni più giovane) e nei trenta minuti scarsi in cui il Destino ha deciso possiate dirvi tutto ciò che avete da dirvi è di una disponibilità davvero imbarazzante e quasi fuori luogo. Fuori luogo perchè noi si è crescuti nel culto di eroi vissuti come umbratili, scostanti e sempre un po’ scazzati, così come ce li raccontavano le immortali pagine di “Rockerilla”, e un mondo in cui, invece, gli eroi adolescenziali fanno gli amiconi con te e ti chiedono se va tutto bene e se per caso non vuoi anche tu una pinta (lui è alla terza o quarta della giornata) è un mondo - capite bene - un po’ troppo simile ad un film porno per essere praticabile senza imbarazzo.
Comunque, si, questo Magritte tridimensionale che è il tuo eroe adolescenziale numero tre sembra proprio intenzionato a rispondere a qualsiasi domanda tu abbia in animo di fargli. E quando da bravo repórter introduci - con discorsetto a lungo preparato e più volte provato di fronte allo specchio del bagno - il complesso argomento della legacy estetico-musical-emotiva da Egli srotolata lungo i tardi Settanta e gli Ottanta, e di come essa sia stata orgogliosamente ripresa dall’ultima covata di libertines e kaiserchiéfs, e quindi di come Egli si senta in questa veste, bene, a domanda Egli risponde raccontandoti che sua figlia quindicenne da qualche mese ha i poster dei Clash in cameretta e «ehm, pure una spilletta dei Jam sul giubbotto». E tu pensi: ma il punk non era circa l’ammazzare (metaforicamente, eh) i genitori? - e glielo dici, e lui educato ride - ma forse un mondo in cui la figlia di Paul Weller c’ha la spilletta punk del padre appuntata sul giubbotto è un mondo che si merita i Bravery e gli Stands. O no?
E poi Egli ti racconta che la settimana scorsa è stato con sua figlia, quella del giubbotto, a un concerto dei Kings Of Leon e, «merda, quelli si che sono forti». E i trenta minuti (che in realtà erano venticinque) son volati. E mentre ti alzi e incassi il «cheers, mate» del tuo eroe adolescenziale numero tre, tutt’a un tratto ti sovviene un altro giorno d’estate, un giorno di giugno 1983, quel giorno in cui all’uscita da scuola comprasti una rivista che si chiamava “Rockerilla” perchè in copertina c’erano gli Style Council, ed erano l’unico gruppo di cui si parlava in quel giornale (insieme a Yazoo e Culture Club) che avessi mai sentito nominare, e incredibilmente alcuni di quegli altri nomi che non avevi mai sentito prima (cito a memoria: Clock DVA, Crass, Not Moving...) sarebbero diventati tra i tuoi più fedeli compagni degli anni a venire. E, insomma, così.
Qui anticipazioni sull’album in uscita in autunno e lo streaming del nuovo singolo From The Floorboards Up (bello, fra l’altro). Qui invece altri dettagli su com’era vestito Paul ieri. |
A parità di “suoni che evocano la selvaggia natura sub-polare e lo scioglimento delle calotte artiche” Andare, stasera, a (ri)sentire i Sigur Ros a villa Arconati, oppure affrontare l'annuale scongelamento del frigo? |
Il meno che possiamo fare è salutarli Dato che sono una vecchiazza, ieri sera ho fatto fagotto e insieme a qualche altro centinaio di vecchiazze provenienti da tutto il Nord Est mi sono diretto alla volta de “Il Vittoriale” di Gardone Riviera, per il concerto dei Van Der Graaf Generator. Ora, non vorrei passare la mattinata a convincervi del fatto che - al di là che i tempi erano quelli e le estetiche dominanti quelle - i VDGG non sono mai stati esattamente una roba alla Yes e Jethro Tull: tra loro, tanto per capirci, correva la stessa differenza che anni dopo sarebbe corsa tra Joy Division e Siouxie/Bauhaus/Cure. Più interessante guardarli oggi: ok, i capelli bianchi; ok, le panze; ok, Peter Hammill secco come uno spaventapasseri che sembra un mash-up tra Maurizio Maggiani e Alberto Campo; ok, il pubblico seduto nella splendida cornice che riconosce i pezzi dal primo tsch, tsch, tsch di batteria. Ma tutto ciò già lo si sa, lo si mette in conto e lo si accetta come parte del biglietto. Ciò che davvero è interessante, invece, è perchè nonostante tutto ciò (e fatta la doverosa tara alle scorie di entusiasmo giovanile in the eye of the beholder) il concerto non fosse affatto la pozza di celebrazioni d’epoche morte e sepolte che uno poteva aspettarsi. Ed è interessante perchè invecchiare è un processo naturale e inevitabile, e sarebbe carino capire già ora se esiste una chance che il tour 2020 dei Belle & Sebastian o di Four Tet - quando sarete voi, o giovani lettori del blogghetto, ad andare nella splendida cornice di Gardone Riviera a far la tara alle A Century of Fakers e Legal Man dei vostri ricordi - possa essere un traguardo a cui decidere di arrivare vivi.
Non è, ovviamente, semplicemente questione di reggere fisicamente le due ore di concerto: pure i Pink Floyd ci riusicrebbero benissimo, probabilmente, ma la linea di demarcazione tra “essere una crosta del passato ancora in circolazione” e “essere un frammento di passato che ancora emana una seppur fioca luce” è sottile, e tutt’altro che scontata. Per dire: i Chemical Brothers visti dal vivo negli ultimi mesi stanno sempre più avvicinandosi alla prima categoria, pur essendo ancora parte della contemporaneità, mentre i VDGG visti ieri sera nella splendida cornice appartengono decisamente alla seconda. Probabilmente la discriminante sta nel numero di stereotipi e clichè a cui uno si appoggia. Quel che si percepiva ieri sera dai VDGG, ad esempio, più che “le vecchie canzoni” in quanto tali (ed erano tutte vecchie canzoni, ed in versioni perfettamente calligrafiche) erano le fonti cui quelle canzoni si erano - ai tempi - abbeverate: come fossero ancora vive, come non fossero ancora diventate un quadro appeso al muro. Ci sentivi il free jazz nel suo senso etimologico (non nella forma di virtuosismo fichetto o di giamburraschismo zappiano con cui l’ha spesso assorbito il rock dell’epoca), a momenti sembrava un cazzo di concerto di James Chance più che di quattro sessantenni il cui ultimo disco risale al 1978.
Poi, certo, dopo una serata così alla fine uno pensa che è proprio vero che tutto si conserva, proprio nel senso criogenico del termine, e che mai avresti pensato di vedere i VDGG due giorni dopo gli LCD Soundsystem e che i due concerti fossero - per ragioni dissimili, ma neanche poi tanto (vd. James Chance) - ugualmente significativi ed entusiasmanti. |
I went to Arezzo Wave and all I got was this lousy gossip about drummers Il batterista di una una nota band newyorkese cara ai lettori di questo blogghetto ha avuto un affaire con la fidanzata del batterista di un'altra nota band newyorkese cara ai lettori di questo blogghetto. Le due band suoneranno insieme, la settimana prossima, in un festival in Grecia. La cosa - com'è facile immaginare - rischia di dare un nuovo significato all'espressione "tragedia greca".
[Disclaimer: non trovo traccia su Google di festival prossimi venturi in Grecia dove suonino entrambe le band newyorkesi di cui sopra. Prendete il gossip per quello che è. E nel caso di update non si mancherà di farvi sapere] |
Il solito media che influenza il messaggio Com’è che i Black Wire lo scorso anno quando scaricavo gli mp3 dai blogghetti inglesi mi piacevano tanto, e adesso che ho in mano il cd li trovo di una noia micidiale? |
Smetto quando voglio Forse aspettandosi che tutti noi lo si inondi di mail per convincerlo a ripensarci, oggi pomeriggio Danny Rampling, uno degli inventori della Summer Of Love inglese del 1988, ha annunciato al mondo che la notte del prossimo 31 dicembre sarà la sua ultima notte come dj. Dopodichè, basta: «We are all products of our experiences and 2005 finds me in my own personal state of peace and harmony. I’m going to Break For Love - this will be my final year as a professional DJ»
Un raro caso di onestà stilistica? di “it's better burn out than fade away”? Chissà. Per una curiosa coincidenza, comunque, a fine anno Rampling inaugura un poshissimo ristorante a Londra... |
Heavenly Sunday Social/2 Nell’eventualità qualcuno dell’inclita platea di lettori del blogghetto passasse dalle parti di Genova domani pomeriggio/sera, come già il mese scorso il tenutario qui dalle 18 fino a tarda sera suona i dischi nel posto chiamato “Banano Tsunami”, ovvero la splendida terrazza dietro la pista di pattinaggio nel Porto Antico. Si comincia acustici e si finisce elettronici, e in mezzo qualunque cosa, inclusa una recentemente recuperata versione disco di Higher Ground di Stevie Wonder ad opera di tali Disco Rock Machine (1979) e il remix di The Boxer dei Chemical Brothers fatto dalla famigliola DFA. Tutto (quasi tutto, diciamo il 90%) vinile, no chiavette USB. Ingresso libero e tanta simpatia. |
Nulla si stronca mai veramente Infatti, dopo la pur dura presa di posizione di qualche mese fa, ecco puntuale l’incensamento del nuovo disco. [guardiani dell’etica, una delle due riviste è fuori commercio quindi non vale la regola che non si recensisce lo stesso disco per due riviste diverse].
Four Tet Everything Ecstatic [voto: 4/5] Con un gran guizzo stilistico ed un doppio avvitamento degno di un tuffo dal trampolino olimpionico, il genietto principe dell’avanguardia londinese - Kieran Hebden - riparte dalla lucida essenzialità del suo humus, fatto di laptop e suoni sgretolati nelle proprie componenti base, per arrivare a stati di coscienza e conclusioni vecchie di trent’anni. E il cerchio, meravigliosamente, si chiude. Quel che una volta si diceva “progressive” (le vecchiazze all’ascolto non mancheranno di cogliere similitudini tra Sun Drums And Soil e Darkness dei Van Der Graaf Generator) rivive qui come fosse l’ultima moda da nightclub berlinese. Egli è un genio. (da: Rolling Stone, giugno 2005)
Si dice in giro che il “progressivo” - inteso come rock progressivo, il lato colto e virtuoso degli anni Settanta - stia tornando di moda. Che paura, dirà qualcuno. Ma anche che meravigliosa occasione per mettere alla prova i linguaggi nati per ultimi (in questo caso: l’elettronica minimale figlia spuria della techno) su teritori meno porosi e frammentari del solito. In Everything Ecstatic più che evocare i fantasmi del progressive Kieran “Four Tet” Hebden - veterano della scena “laptop” londinese - ne richiama il senso di avventura e di sfida all’ignoto. Vengono in mente (con le debite distinzioni) i Van Der Graaf Generator o i momenti più “free” dei Roxy Music, e nel complesso Hebden riesce ad essere convincentemente anticonvenzionale pur senza cadere nei cliché dell’anticonvenzionalità. Che in alcuni momenti l’effetto sia come se il lettore cd si sia inceppato o sia impazzito è ovviamente parte del divertimento. (da: La Repubblica XL, giugno 2005, numero fuori commercio) |
Live Eight Wonder: una cascata di Diamanti Su Repubblica di oggi Ilvo Diamanti commenta a margine il Live8 di ieri in un lungo articolo dal titolo «La giovinezza senza i giovani», la cui tesi di fondo è che il Live8 lo ha sí emozionato, a Diamanti, ma gli ha anche fatto un po’ tristezza. Perchè - considerata la percentuale di vecchie carampane presenti sul palco centrale e su quelli di contorno - l’impressione era quella di assistere ad una versione via satellite di qualche Rotonda Sul Mare, più che allo spettacolo segno-dei-tempi e sguardo-al-futuro che il Live8 avrebbe invece voluto (o dovuto) incarnare.
Scrive Diamanti: «(...) il messaggio inespresso e implicito in una manifestazione come quella di ieri è che i “giovani” protagonisti della nostra epoca non sono cambiati. Vent’anni dopo, sono gli stessi. Le stesse facce, le stesse voci. (...) Vent’anni dopo il centro della scena culturale e musicale non sembra essersi spostato di molto. I giovani e gli adulti ad ascoltare gli stessi musicisti. Che hanno l’età dei genitori. Quasi che le generazioni più giovani non fossero più in grado di imporre tendenze, gusti, protagonisti.» La realtà è che in molti lo si è pensato, ieri, quello che oggi Diamanti scrive in buona e ragionevole prosa. Magari solo come fugace riflessione durante la breve esibizione romana dei Duran Duran (più dignitosa, va detto, di quella di vent’anni fa al Live Aid), magari senza nulla togliere - ma anche Diamanti non lo toglie - alla bellezza dello spettacolo, alla giustezza della causa ed al fatto che ieri si sono viste esibizioni e (soprattutto) ascoltate canzoni che in molti casi appartengono ormai al dna stesso del pop.
Il pensiero casomai - ed è veramente un pensiero a margine, lo so - è su come di tutto ciò che è successo nella musica negli ultimi vent’anni, cioè nello spazio tra il Live Aid ed oggi, di tutti gli stili, i linguggi e le tecnologie che hanno cambiato il modo di definire e persino scrivere il pop, di tutto ciò non sia rimasta traccia visibile sul palco del Live8, e dunque nella coscienza stessa del pop. Niente Chemical Brothers, niente Underworld, niente Prodigy, niente Fatboy Slim. Niente Foo Fighters, niente QOTSA. Niente nu-punk e nu-metal (tranne Audioslave e Green Day, però decentrati sul palco di Berlino). Persino l’hip-hop, dopo vent‘anni e dopo aver colonizzato le chart di tutto il mondo, è ancora una curiosa stranezza, marziana, e come tale confinata al palco americano (Philadelphia) e gestita dal man in black Will Smith.
Poi è ovvio che uno show planetario come il Live8 lo allestisci pensando ad una sorta di “minimo comun denominatore” del gusto, e così è stato - ottimamente - fatto. Rimane però una sorta di curiosa sensazione: quella di evento che, alla fine, abita uno spazio/tempo tutto suo, tutto mitico (Paul McCartney con gli U2!), tutto leggendario (si riformano i Pink Floyd!), slegato dallo scorrere cronologico delle epoche e dunque condannato - e ovviamente non è detto che sia la peggiore delle condanne - ad avere come unico interlocutore il passato o quelle parti di presente che quel passato devotamente omaggiano. Nello specifico i Coldplay, sulle cui spalle gravava - e in un modo anche piuttosto “televisivamente” visibile - il ruolo di essere “quelli nuovi”, quelli destinati a raccogliere l’eredità degli U2, quelli dei quali fra vent’anni al LiveRight si dirà «guarda, guarda come sono imbolsiti rispetto al Live8!». Tutto ciò non significa necessariamente - come dice Diamanti - che le generazioni più giovani non siano state in grado di «imporre tendenze, gusti, protagonisti», ma - certo - continuando a dare per scontato che i Foo Fighters siano “troppo difficili” per il pubblico medio, e che i Chemical Brothers sono per principio “meno rilevanti” dei Pink Floyd, si continua ad alimentare una sorta di equivoco cronologico grazie al quale sembra, talvolta, di vivere dentro l’equivalente pop dell’Inghilterra vittoriana.
Del resto, rimanendo alla diretta di casa nostra: se Giovanni Floris (fra l'altro bravissimo a gestire le decine di sindacalisti e missionari che “bisognava” intervistare per dare uno spessore politico al circo musicale) in apertura candidamente ammette che gli unici nomi che gli dicono qualcosa sono «quelli di stasera», cioè i Pink Floyd; se la cronista che lo affianca disannunciando l’esibizione di Elton John e Pete Doherty dice «ed era Sir Elton John, affiancato da uno molto, molto meno famoso di lui»; tutto questo non fa che rinforzare per l’ennesima volta il messaggio che l’attualità, il condiviso collettivo, stanno lì, attaccati con le unghie e con i denti a Elton John ed al ricordo degli U2 a Live Aid. Che Pete Doherty sia in questo momento il personaggio più interessante della scena pop inglese (per molte ragioni, parecchie delle quali assai controverse e non strettamente musicali) non conta, non è abbastanza, e soprattutto lui non appartiene ai nostri ricordi, non è già nel nostro database. O, per dirla con un paragone che piacerebbe anche a Diamanti, è un po’ come quei venticinquenni alla ricerca di prima occupazione quando si trovano di fronte a “offresi lavoro: richiesta esperienza di lavoro”...
[PS: non ho visto Robbie Williams, ma sono sicuro che la sua è stata l’esibizione numero uno di tutto l’ambaradan live8esco. Ma tanto adesso fanno il dvd, no?] |
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