Depeche Mode: l’heavy metal dello spazio interiore
 

di: Fabio De Luca




Varchi l’ingresso di un prevedibilmente lussuoso albergo in via Veneto a Roma, il genere dorato & damascato da convention di Scientology, e il meno che ti aspetti è che l’intervista a seguire sia quel genere di domanda-risposta ormai rodata dall’averla ripetuta già centinaia di volte a tutti gli angoli del pianeta. Il che in parte è vero, naturalmente. Non fosse che per un dettaglio: Martin Gore è stupendamente pieno di vita. Ti stupisce perchè comunque non te lo aspetti. Perchè ormai il mondo dei Depeche Mode sembra più simile a quello di Sting (astratto, slegato da qualsivoglia realtà "reale"). Che ti raconti della nuova casa a Santa Barbara in California dove si è trasferito da qualche mese con la famiglia o elenchi i suoi nomi preferiti della scena click’n’cut, la sua voce è calda ed entusiasta. Guarda con divertita nonchalance (certo, la nonchalance dei ricchi...) ai propri quarant’anni appena compiuti ed ai vent’anni - il compleanno ricorre proprio quest’anno - dal primo album della band, e sembra lui per primo stupito di quale strana creatura siano stati i Depeche Mode. Non hanno mai avuto le geniali intuizioni che hanno fatto grandi (e magici) gli Human League. Non hanno mai posseduto quell’istintiva confidenza con il pop che era dei Soft Cell, nè il disperato soul pulsante che faceva piangere la voce del cantante degli ABC. Sono però stati degli eccellenti amministratori del loro "circoscritto" ed efficace talento. Ben consigliati da Daniel Miller, l’uomo che li ha letteralmente "creati" inseguendo un suo sogno di versione techno-pop dei gruppi "di studio" di Phil Spector e che - cosa abbastanza rara per lo showbiz - è dal primo giorno il loro mentore e "fratello maggiore", i DM hanno serenamente veleggiato dal sereno pop degli esordi alla parentesi "industrial" di metà anni Ottanta (i singoli People Are People e Master And Servant) fino a tutta l’introversa e a tratti barocca produzione anni Novanta (inclusa la sporadica collaborazione con Wim Wenders per Fino Alla Fine Del Mondo).
Risultando, alla fine, i più citati da quella generazione "rock" adesso 25/30enne che ha nel suo DNA un antico debole - lo stesso che lega i gruppi "emo" agli Smiths - per la new-wave inglese dei primi Ottanta. Marilyn Manson ha debuttato anni fa con una versione di Sweet Dreams degli Eurythmics; qualche tempo fa gli Orgy hanno violentato Blue Monday dei New Order; Johnatan Davis dei Korn ha più volte dichiarato che uno dei suoi modelli nel modo di cantare è stato Simon Le Bon dei Duran Duran; l’influenza dei Depeche Mode periodo Master And Servant su Trent Reznor dei Nine Inch Nails è una realtà di fatto, e la passione di Maynard James Keenan dei Tool (e degli A Perfect Circle) per i Cure è più che un semplice sospetto.
Un fall-out difficile da spiegare se non in termini puramente generazionali e di imprinting anagrafico: la prima musica cui sei esposto da ragazzino è quella che ti rimarrà dentro per sempre. E nell’America dei primi anni Ottanta il techno-pop era veramente quanto di più marziano ed estraneo alla quotidianità si potesse immaginare, ed anche di più "exotico" se paragonato a quella che doveva essere la dieta delle radio FM e AM americane in quel periodo. C’era la novità e c’era la percezione che arrivasse da un pianeta lontano (cosa che poi era in parte vera, arrivando il techno-pop dalla remotissima Europa): ovvio dunque che a dei ragazzini dovesse sembrare pura science-fiction a misura di radio a transistor. I racconti di Juan Atkins, Derrick May e Kevin Saunderson - trio fondante della scena early-techno di Detroit - sulla straordinaria influenza avuta su di loro dal techno-pop europeo ascoltato alla radio sono storia nota tra gli appassionati. Ma se, come osserverà anche Martin Gore nell’intervista a seguire, l’influenza dei Depeche Mode sui futuri protagonisti della scena house e techno è qualcosa di prevedibile, assai meno prevedibile è appunto l’ascendente da sempre esercitato dai DM sul pubblico più vicino al rock ed al metal. C’entra evidentemente l’elemento dark da sempre presente nei DM, quella qualità languida e musona che non manca mai di mietere vittime. Fino al paradosso estremo: i DM hanno pesantemente influenzato - stilisticamente e narrativamente - tutte le migliori forme di rock ibridato all’elettronica degli ultimi dieci anni (su tutti: i Nine Inch Nails), e adesso sono loro ad essere influenzati da quelli che hanno influenzato. Al punto che alcuni tra i momenti migliori del nuovo Exciter sono puro Nine Inch Nails, ai limiti del plagio. "C’è in giro questo stereotipo" dice Martin Gore, "secondo cui noi saremmo una band triste, oscura e melanconica, ma noi non ci sentiamo così. Siamo convinti che la nostra musica sia piena di vita: per questo abbiamo scelto un titolo pieno di vita come Exciter".

Ci sono molti stili differenti dentro Exciter: Disco, blues, addirittura gospel. Come è successo?

E’ semplicemente che tutti noi ascoltiamo musica molto diversa, e siamo aperti ad ogni genere di influenza. Non c’è mai nulla di premeditato nello scegliere un determinato stile piuttosto che un altro: siamo molto naturali nel nostro modo di comporre, e se un suono o una certa particolare atmosfera sono adatti ad una canzone cui stiamo lavorando, non abbiamo nessun problema a usarli.

E’ una libertà che potete permettevi ora che avete uno "stile" ed un seguito consolidati, naturalmente...

Credo che ora abbiamo soprattutto la sicurezza e la confidenza con il nostro lavoro per poterlo fare bene.

Fra l’altro, a dispetto di essere ancora considerati una band "elettronica", il vostro suono è sempre più organico, ci sono sempre più chitarre.

Siamo ancora una band prevalentemente elettronica, anche se negli ultimi dischi abbiamo in effetti utilizzato molti più strumenti organici che in passato. Quando abbiamo iniziato eravamo dei "puristi" dell’elettronica, non avremmo mai usato una chitarra o qualunque altro strumento che non fosse sintetico. Crescendo abbiamo capito che era un errore. Cioè: non che utilizzare strettamente l’elettronica fosse un errore di per sé, specialmente in quel momento storico. Era un errore ostinarsi, anche dopo, a non accettare nulla al di fuori di quel suono.

Qual’è stato il punto di svolta?

Non c’è stato un punto di svolta preciso. Tutto è cambiato quando abbiamo capito che ciò che importava realmente era il risultato finale, l’atmosfera di una canzone, non con quali strumenti era suonata.>

Nel vostro sound tutto - anche i suoni organici - è rigorosamente riprocessato elettronicamente: la voce invece è sempre molto "pulita", limpida, stavolta addirittura le parole sembrano scandite con attenzione...

Beh, la voce è l’unico punto di contatto umano tra noi e chi ascolta, è il canale attraverso cui vengono veicolate le emozioni...

E’ importante che si capiscano le parole?

Come band la nostra struttura è sempre stata molto classica, nel senso che c’era il vocalist davanti a tutti e dunque anche la voce è sempre stata spinta in primo piano. In questo senso sí, non abbiamo mai nascosto le parole, sono sempre state parole che potevi comprendere anche senza il booklet dei testi...

Per lo scorso album avete avuto dei remix estremamente interessanti fatti da Kruder & Dorfmeister, Dj Shadow, Gus Gus. A chi avete pensato per le canzoni di Exciter?

Dream On è il primo singolo ed abbiamo già commissionato dei remix a Kid 606, Octagon Man, a Matthew Bushwacka ed a Dave Clarke.

Beh, praticamente tutti i nomi più "caldi" in ogni singolo settore della musica elettronica!

E ci sono anche un altro paio di remix di altre tracce del disco che stiamo decidendo se e come utilizzare, nel senso che sono - ehm - forse un po’ troppo strani per farli uscire... Gli autori non hanno usato granchè della traccia originale, quindi non avrebbe un gran senso pubblicarli: magari li metteremo in rete, visto che probabilmente a qualcuno interesserebbero comunque.

Chi sono i remixatori strani?

Pole, Thomas Brinkmann... quello più pazzesco lo ha fatto Vladislav Delay: non solo non ha usato ASSOLUTAMENTE nulla della traccia originale, ma ha utilizzato un tempo differente, una chiave differente, musica totalmente differente e per finire anche il campionamento di una voce soul che canta delle parole che non centrano niente con la canzone originale... Voglio dire: non è più un remix, è un’altra canzone! Che senso ha?

Eh eh eh... sai com’è con questi musicisti concettuali... In ogni caso direi che avevate le idee molto chiare su che tipo di musicisti coinvolgere. Rispecchiano ciò che ascoltate nel vostro tempo libero o vi ha consigliato Daniel Miller?

L’una e l’altra cosa. Noi abbiamo proposto Kid 606 e Octagon Man, Daniel ha suggerito Thomas Brinkmann e Pole, e a quel punto tutti gli altri alla Mute si sono allarmati perchè speravano in un remix più commerciale, ed allora ragionando tutti insieme sono venuti fuori i nomi di Bushwacka e Dave Clarke.

Cosa ascolti abitualmente?

Molta elettronica, tutti i nomi che ti ho appena detto. Ascolto e compro molta più musica adesso di quanto non abbia mai fatto in tutta la mia vita: sono sempre alla ricerca di cose nuove, nei negozi, in internet... Tra l’altro occasionalmente mi capita anche di fare il dj...

Ma va?!?

Non spessissimo... a Londra ho suonato un paio di volte nella serata di Alan McGee, Radio 4...

Certo che è come se la storia avesse completato un suo ciclo: con i vostri dischi avete influenzato un’intera generazione di musicisti elettronici, ed ora sono loro ad influenzare voi con un suono che è remotamente figlio di quello che facevate agli inizi...

Questo è assolutamente vero. Quando abbiamo realizzato i primi demo per il nuovo disco io stavo appunto ascoltando un sacco di questa elettronica minimale, e i demo hanno subito un’influenza decisiva da quel genere di suono. Ovviamente ciò che facciamo noi è diverso, e nella versione finita di Exciter non ne è rimasto molto, se non il desiderio di mantenere tutto il più semplice e minimale possibile.

Cosa vivi il fatto che - per paradosso - tra i vostri maggiori fans ci sono numerose band di metal?

E’ divertente. Ed è anche una cosa molto positiva, dal nostro punto di vista: nel senso che è ottimo ma anche un po’ scontato pensare di aver influenzato chi fa house o techno, ma il fatto di aver influenzato gruppi che neanche ultilizzano l’elettronica nelle loro composizioni significa che ad averli colpiti colpiti non era come facevamo musica ma proprio ciò che facevamo, cioè le canzoni! Se ascolti l’album-tributo ai Depeche Mode uscito qualche tempo fa, la cosa più incredibile è proprio cosa sono riusciti a fare con le nostre canzoni.

Forse l’anello mancante tra voi e le metal-band che vi ammirano sta in una comune attenzione al tema del "dolore". Il termine "pain" ricorre diverse volte anche in Exciter, oltre alle chitarre molto violente...

Eh eh, stai dicendo che siamo dei metallari?!?

Non dei metallari in senso stretto: forse dei "metallari interiori"... Evidentemente vi accomuna una straordinaria consapevolezza della nozione di "dolore"...

C’è sicuramente un elemento di oscurità in ciò che scriviamo, un elemento dal quale non riusciamo ad allontanarci. È una qualità specifica delle canzoni che scrivo, è sempre lì. Alla fine è diventato appunto un marchio distintivo dei Depeche Mode. Credo che potremmo anche provare a scrivere la più spensierata e solare delle canzoni pop, ma quell’elemento sarebbe sempre lì, verrebbe comunque fuori... Prendi I Feel Loved: è strutturata come un perfetto disco-anthem, ma allo stesso tempo se ascolti le parole ti accorgi che dicono "E’ la notte oscura della mia anima...". Come vedi non c’è nulla da fare: siamo fatti così...

Il fatto che siano passati quattro anni dal vostro ultimo album significa che il processo di "costruzione" delle canzoni nei Depeche Mode è un processo lungo e laborioso?

Il fatto che non facciamo più un disco all’anno come succedeva un tempo è più legato al fatto che è pesante tutto quello che c’è "attorno" all’uscita di un nuovo disco. Non siamo particolarmente lunghi nel processo creativo. Nel caso di Exciter dai primi tentativi per scrivere il nuovo materiale al disco finito sono passati circa quindici mesi. Non è un tempo lungo, per nulla. Se poi calcoli il tempo effettivo passato dentro lo studio credo che non saranno più di cinque mesi.

Come avete scelto il produttore, Mark Bell?

Come per i remixatori un po’tutti quelli che lavorano con noi hanno suggerito dei nomi, e alla fine abbiamo scelto quello che sembrava più adatto. Mark Bell è stato un’idea di Daniel Miller, ed è subito sembrato la scelta migliore. È uno abituato a lavorare in termini di "atmosfera", come dimostra il suo lavoro con Bjork, ed è esattamente ciò che anche noi facciamo da un paio di album a questa parte. Inoltre Daniel conosceva già personalmente Mark perchè aveva lavorato a dei remix per la Mute, e sapeva che era una persona anche umanamente affidabile.

Qual’è esattamente il ruolo di un "produttore" in un disco dei Depeche Mode? Voglio dire: tutti voi sapete programmare i vostri strumenti, ed avete accumulato una tale esperienza di studio che probabilmente sareste perfettamente in grado di produrvi da soli. A cosa serve l’orecchio esterno di un produttore?

In realtà non credo che possiamo considerarci dei produttori. Io ad esempio anche per i demo che preparo a casa lavoro insieme ad un ingegnere del suono ed un programmatore. Credo che il compito di Mark in questo caso sia stato di prendere i demo e portarli... ad un livello superiore. Lui ha quella qualità che cercavamo da tempo, cioè il riuscire a tradurre istantaneamente le idee in suoni, a discutere di quale suono ci vorrebbe e quindi andare dritto alla tastiera e crearlo esattamente come lo aveva immaginato. E’ un teorico con un elevatissimo grado di praticità: due qualità che raramente trovi combinate insieme.

Il produttore ha il compito di dare "unità" alle diverse tracce di un album?

Si. In un primo momento avevamo addirittura pensato di utilizzare diversi produttori per diverse tracce dell’album, ma poi abbiamo capito che era molto più importante avere una singola persona in grado di garantire la continuità, la coerenza allo scorrere del disco.

Com’è vivere in California?

Per uno nato e cresciuto in Inghilterra è veramente una di quelle cose che può cambiarti la vita: basterebbe il fatto che ti svegli ogni mattina con il sole che splende nel cielo...

(da: Rumore, maggio 2001)