The Strokes: "il CBGB’s? che si fotta"
 

di: Fabio De Luca




"Uhm... sai, non credo che verrà relmente chiuso, credo che alla fine si salverà". Nick Valensi è il chitarrista degli Strokes, ed è al telefono dal salotto di casa sua a New York. Sta parlando del CBGB’s, il leggendario locale nella Manhattan Bowery che ha visto nascere il punk e che adesso, da qualche mese, rischia la chiusura per questioni di affitti triplicati e speculazioni edilizie. Nick Valensi sta cercando di mantenere un contegno. Dice: "forse dovrebbero trasformarlo in un museo, in una attrazione per turisti. In fondo è quello che è, un pezzo di storia del punk. La Disneyworld del punk". Basta però lasciarlo scaldare ancora per qualche minuto e poi, oops, eccolo che sbotta. "Onestamente non capisco perché abbiano tante difficoltà a pagare l’affitto: non c’è un biglietto d’ingresso? Probabilmente stanno continuando a fare degli errori nella gestione. Sai qual è il punto? che trent’anni fa il CBGB’s era il posto più cool del mondo, il posto in cui nasceva la nuova musica. Ma ormai sono anni che ha rinunciato alla sua missione. So che qualcuno mi odierà perché dico questo e... ok, c’è una ragione personale: quando gli Strokes erano agli esordi i gestori del CBGB’s sono stati davvero stronzi con noi, ci hanno trattati dall’alto in basso, tipo "che accidenti vogliono ’sti ragazzini?". Se non sei attento a quello che di nuovo succede nella tua città vuol dire che non sei degno di gestire un marchio storico come quello del CBGB’s. Si, mi dispiace che scompaia un luogo leggendario come il CBGB’s, ma per come era gestito negli ultimi anni può tranquillamente andare affanculo". Fiuuu. Davvero qualcuno pensava che Valensi fosse realmente diventato conciliante?

Sulla fama di teste calde gli Strokes ci hanno costruito una carriera loro malgrado. All’epoca del loro debutto, nel 2001, al mondo non pareva vero di avere finalmente per le mani un gruppo rock "all’antica", nel senso di arrogante, pieno di sé, piantagrane e litigioso. Ok, c’erano stati gli Oasis, che in quanto a piantare grane non li ha mai battuti nessuno, ma gli Strokes erano pure stilosissimi nel vestire, aristocratici nei modi, gentlemen con le ragazze. E poi erano newyorkesi, e questo qualcosa vuol dire: se non altro in termini di faccia tosta e consapevolezza (o convinzione) di essere il centro del mondo. Che il disco di esordio - Is That It - fosse pure un lavoro di grande intuito rock’n’roll nel solco della più classica tradizione newyorkese (la profondità di un Lou Reed e la rabbia giovane di un Richard Hell) fu sì rilevante, ma - apparentemente - non quanto i vestiti e le risse. Seguirono anni concitati durante i quali agli Strokes, pressati dalla repentina fama e dallo sforzo per mantenerla, non restò che vivere secondo lo stereotipo che il mondo aveva costruito loro addosso. Il secondo album Room On Fire risentì in parte di questa situazione. "Riascoltandolo oggi", dice Nick, "quello che mi dico è solo: "ah, se avessimo avuto il tempo di soffermarci più a lungo sulle canzoni". È un album venuto fuori di fretta, abbiamo avuto due mesi per farlo, e in due mesi non c’è stato il tempo, ad esempio, di scrivere delle parti di chitarra migliori. Fretta, fretta... le canzoni soffrono della mancanza di tempo. Però fotografa perfettamente ciò che eravamo noi allora". Incluse le tentazioni di sciogliervi? "Mah, credo sia una cosa che capita a tutte le band sotto pressione. Ma no, in realtà non siamo mai stati sul punto di scioglierci. Anche nei momenti peggiori siamo stati sempre molto uniti. Abbiamo litigato, magari ci siamo detti le peggiori cose, ma siamo rimasti uniti".

Che gli Strokes siano una band unita è una sensazione che si avverte anche ascoltando il nuovo disco, First Impressions Of Earth, che è spigoloso e nel contempo capace di grandi ritornelli-killer come nella loro miglior tradizione, ma è anche un disco più maturo, più riflessivo, tenuto insieme da un riconoscibile filo conduttore emotivo e stilistico. Via quell’umore studentesco dei precedenti due, First Impressions Of Earth si avvicina (almeno a tratti, a scorci) allo status di classico. Nick non nasconde la soddisfazione per il risultato ottenuto: "abbiamo conservato il "nostro" carattere", dice, "ma siamo al tempo stesso migliorati, e molto". E in cosa è consistito questo miglioramento? "Uhm, nel prenderci il tempo che ci serviva, nel non dare nulla per scontato. Nel creare un disco che ogni volta che l’ascolti scopri qualcosa di nuovo". Ok, ma dal punto di vista personale dei cinque Strokes come individui: anche lì c’è stata una crescita? "Non lo so" dice Nick, "abbiamo cercato di vivere. Vivere nel senso di andare al cinema, vedere gli amici. Fare le cose... normali". A sentire Nick sembrerebbe quasi che la vita privata dei cinque Strokes sia una noia mortale: il trionfo della normalità, nonostante il glamour, i party, le fidanzate famose e tutto il resto. E sempre a sentir lui sembrerebbe anche che le loro cinque noiosissime esistenze acquisiscano spessore ed un senso soltanto quando gli Strokes entrano in sala prove, o in studio, o salgono su un palcoscenico. "Ora che l’album è finito stiamo provando le canzoni nuove per il tour" dice Nick, che quando torna a parlare della band sembra gli si illuminino gli occhi anche se è al telefono all’altro capo del mondo. "Partiamo la settimana prossima per il Brasile e sarà la prima volta che suoniamo le canzoni nuove in pubblico. Abbiamo una sola regola tra di noi quando registriamo: che come suonano in studio così le canzoni devono suonare anche dal vivo". Nel senso di conservare l’impatto del concerto anche durantre le registrazioni? No, la spiegazione è molto più banale. "Devo imparare gli assoli di chitarra dei pezzi nuovi. Sono... difficili. In studio riprovi tutto cento volte finchè non è perfetto, dal vivo devi riuscire alla prima".

Di certo dal vivo sarà difficile ricreare Ask Me Anything, la più particolare tra le canzoni mai scritte dagli Strokes: una malinconica tela d’organo sopra la quale Julian Casablancas dipinge la sua miglior faccia tosta da cantante confidenziale. "Ask Me Anything è probabilmente la cosa più strana che abbiamo mai fatto, soprattutto perché non ci sono chitarre, non c’è batteria e non c’è il basso... L’esatto opposto di una rock-song. Verso la fine della registrazione del disco abbiamo lasciato lo studio a New York e siamo andati in un posto nel mezzo di una foresta ad Upstate NY, non lontano da Woodstock. L’idea era andare lì per dare i ritocchi finali al disco, ma appena siamo arrivati la prima cosa che abbiamo visto è stato questo "mellotron", cioè una tastiera dei primi anni Sessanta, una sorta di antenato delle tastiere elettroniche che si usano oggi... i Beatles ad esempio lo usavano un sacco. Io ne sono rimasto immediatamente affascinato, ed è finita che ho passato tre giorni a suonarlo, cercando di capire che tipi di suoni se ne potessero tirare fuori. Un giorno Julian è entrato mentre stavo suonando, e si è semplicemente messo a cantare sopra ciò che stavo improvvisando, e poi gli è venuta in mente una melodia che aveva scritto alla chitarra, me l’ha fatta sentire e l’abbiamo adattata al mellotron, e in pratica Ask Me Anything è venuta fuori, così, rapidamente, dieci minuti al massimo". Dieci minuti: più del doppio di quanti ne rimangono ancora per chiacchierare con Nick. In pratica giusto il tempo per chiedergli spiegazioni su quel titolo - "prime impressioni della Terra" - che sembra quasi evocare degli astronauti che tornano a casa dopo una lunga assenza. "Lo so" dice Nick, "a me all’inizio non piaceva proprio. Però è quello che ci rappresenta meglio in questo momento. Dà l’idea di una band che è appena uscita da uno stato di ibernazione... che se vuoi è un po’ come ci siamo sentiti noi rimettendoci a lavorare insieme". A New York suona il cicalino di una sveglia, segnale che il nostro tempo è scaduto. "Il nostro sguardo alle cose oggi", conclude Nick Valensi: "è quello di chi vede il mondo per la prima volta".

(da: La Repubblica XL, gennaio 2006)