a Come il sudoku nel 2005, essere linkati da Syria è il grande giuoco dell’estate 2006 - e questo blogghetto modestamente lo è. Dirò di più: essere linkati da Syria è il nuovo Kitsuné Maison: se non sei sulla copertina della compilation della popolare etichetta parigina e non ti linka nemmeno Syria, ahi ahi, forse è il caso che cominci a interrogarti sul tuo contare qualcosa in termini di cultura pop... ;-) (grazie a She per la segnalazione) |
a Oh quant’è vero, quant’è dolorosamente vero che non c’è niente che sia per sempre. Volevo scriverlo in lungo ed in largo - ieri - in un post profondo e doloroso, un post che partendo da uno stronzo di dj-set arrivasse a cogliere delle verità personali e magari pure universali. Poi la saudade ha prevalso, l'ispirazione è venuta meno, e quindi vi beccate la versione abridged.
La sostanza non cambia: sono reduce dal weekend di field-clubbing più malinconico della mia vita (laddove: dicesi field-clubbing atto del clubbing performato in luogo ampio ed aperto, ad es. un festival open air). Ho assistito alla fine di una causa nella quale ho profondamente creduto anche quando crederci non era nè bello, nè cool, nè eticamente difendibile. Ho assistito alla trasformazione di Fatboy Slim nei Dire Straits: il Mark Knopfler della rave generation. Ho assistito - in tempo reale, davanti ai miei occhi - alla sua museificazione. Perchè: come altrimenti vogliamo chiamarlo, se non “reperto archeologico”, un set inutilmente autocelebrativo, tenuto in piedi dagli stessi tic linguistici e trucchetti vecchi di sette otto anni («fatboy slim is fucking in heaven...»)? Da, in buona parte, gli stessi pezzi suonati due anni fa a Imola (e cinque anni fa al Maffia)?
E anche se i pezzi non erano esattamente gli stessi non importa, era l’attitudine ad essere spaventosamente “stessa”, spaventosamente polverosa, meccanica, pavloviana. Era la sensazione di essere di fronte non ad un dj-set, ma ad un format (stadium-arcadium-disko?!?) basato al 100% sui massimi comuni denominatori, sulla paraculaggine, sul mestiere, ed allo 0% su istinto e improvvisazione. Una noia, una noia mortale. E quindi, addio Fatboy: è stato veramente bello finchè è durato. Il tuo set al The End di Londra nel luglio 1998 rimane uno dei ricordi più belli ever (quell’apertura con Satisfaction Skank, che ancora era una sorpresa, di cui i giornali ancora non avevano parlato). Il problema è che tu sei rimasto lì, ’fuckin-in-’fuckin-in-’fuckin in heaven, io invece no. Cioè, credo di no, ma in realtà ne sono abbastanza sicuro. Dev’essere per questo che, lasciando il pratone dopo il tuo ultimo inutile mash-up basato sui tuoi vecchi successi, avvertivo sì una fitta di malinconia all’altezza del cuore, ma anche uno strano senso di serenità. Addio, veramente. |
Così per (Le) sport Sforzandomi un po’, fino ad oggi ero riuscito a rimanere completamente indifferente al fenomeno Le Sport. Poi stamattina è arrivato questo remix di Chemical Drugs, ed ho ceduto anch’io. |
a Sarò telegrafico, che poi devo tornare ai miei pennarelli colorati. (Sì, da stamattina il mio nuovo motto è: «We’re gonna change the world with our box of pennarelli Carioca da un euro e cinquanta»). Come da lussuoso flyer che allego - altrimenti, santommasi che siete, magari non ci credete - domani il proprietario di questo blogghetto suona i dischi all’Irish Museum of Modern Art di Dublino. Pare che il Summer Party dell’IMMA sia “la” festa del luglio dublinese, che l’IMMA faccia di tutto per tenere circoscritto l’evento e che la gente faccia a botte per trovare gli ambitissimi inviti... Quindi: se per qualche bizzarra coincidenza qualcuno di voi stesse leggendo da Dublino o dintorni, sappia che è autorizzato a stamparsi il flyer qui sopra e all’ingresso dire «mi ha invitato il dj» (e come estrema risorsa chiedere di Daniela Sabatini). Poi fatevi riconoscere, che facciamo la classica scena da italiani all’estero, ci diciamo l’un l’altro «campioni del mondo!» e cantiamo poo po poppo po po pooo fino a che qualcuno non ci rovescia un secchiello del ghiaccio in testa. Che James Joyce, David Holmes ed Enya mi assistano. Io, in omaggio al grande Holmes, qualunque cosa succeda aprirò il set con California Soul di Marlena Shaw. |
E nel 2010 canteremo tutti in coro un pezzo di Sufjan Stevens a Perché: se nel 2002 qualcuno vi avesse detto «durante la finale del 2006 tutti canteranno in coro un pezzo dei White Stripes» cosa avreste pensato? A me comunque la cosa che fa veramente paura sono i banner “Arrivederci a Sudafrica 2010”. Cioè: 2010?!? Magari è una roba da vecchiazze, ma a voi non fa paura la nozione stessa di 2010? Il fatto che sia lì lì per esistere, che si facciano già progetti sul suo conto?
A parte questo, da non tifoso la cui soglia di attenzione calcistica si attiva tradizionalmente solo oltre i quarti di finale, il mio pensiero va a quanto avrà rosicato ieri sera quella fichetta di Bangalter dei Daft Punk. C’è giustizia a questo mondo, oh se c’è. Tutti insieme adesso: «One mooore tiiiime...».
(E comunque - per la serie “senza rancore, eh” - sempre a proposito di Daft Punk, ieri sera EmmeBi mi ha mandato il seguente link, che vi giro...) |
Ovvero le disavventure della virtù Il mio dj preferito al mondo mi segnala un blogghetto che posta il nuovo singolo di Justin TimberlakeSexy Back, prodotto da Timbaland, che in effetti sembra un po’ una cover di E-Talking dei Soulwax fatta dai N.E.R.D. Ora manca solo Kelis con il sebastiAn remix di Bossy, e poi il weekend può avere ufficialmente inizio.
UPDATE: adesso che ci penso anche il nuovo singolo dei Muse sembra un po' un pezzo dei Soulwax. Che sia tempo di avviare una riflessione di ampio respiro al riguardo? a
a UPDATE 2: «ehi, quel Timberlake non solo ci ha copiato i suoni, adesso ci copia anche il personal stylist!» (David Dewaele, Soulwax) |
a Oh-oh: è morto Piermario Ciani. La Storia dell’Arte (Povera) del nostro paese lo tramanderà come uno degli ideologi del progetto Luther Blisset e per una ben architettata beffa al programma tv Chi l’ha visto?, oltre che come uno dei massimi teorici italiani della mail-art. L’ex adolescente degli anni '80 che abita in me però vorrebbe ricordarlo soprattutto come inventore (insieme a Vittore Baroni e Massimo Giacon) di una “cosa” chiamata TRAX, che non era un’etichetta musicale e non era un collettivo artistico, ma era anche un’etichetta musicale ed un collettivo artistico, e anticipò - tra l’inizio e la metà degli Ottanta - tutta una serie di concetti tra cui le nozioni di mash-up (geografico), di cut-and-paste (semiotico) e di network (emotivo).
Tra le tante imprese di Ciani per Trax ci tengo a rievocarne soprattutto una, la mostra di xerox-art intitolata “Rispondere a toner”. Io se fossi dio a uno che si inventa dei calambour così lo farei santo. Subito. |
Come disse il ragno della barzelletta, «cameriere, c’è della minestra nella mia mosca» a
a Giusto per darvi un’idea degli abissi di entertainment esplorati nel corso delle due settimane durante le quali non ci siamo sentiti (no, non ero all’estero; no, non sono scappato colla giornalista barcellonese nè colla moglie di James Murphy come sagacemente ipotizzato da qualcuno nei commenti qui sotto; no, non ho fatto nulla di nulla se non accumulare ritardi su ritardi in qualunque lavoro stessi facendo): il momento più avvincente è stato giovedì sera, davanti al televisore. Su Italia 1 c’era la replica de Il tempo delle mele, e durante la (lunghissima! io mica me la ricordavo così lunga) scena della festa in casa ho per un attimo capito che è lì, nel cuore di quella scena, che viene disegnato il dna da cui discende l’estetica - fighetta, sussiegosa, retrò per incapacità di essere realmente “post”, impacciata, immatura, eppure in qualche strano modo anche pienamente consapevole delle proprie possibilità, perfettamente fiduciosa del proprio essere solo all'inizio di un potenzialmente infinito processo d’ibridazione e di divenire - di gente come Justice, sebastiAn, Para-One, ed anche la sua schiacciante superiorità rispetto al clubbing italiano. (Cosa possiamo opporre alla straordinaria e visceralmente teenage - e dunque rock’n’roll - rifondazione “dal basso” delle regole del clubbing suggerita dalla scena della festa in casa de Il tempo delle mele? Le ambientazioni-disco di tutto il cinema italiano di sempre? quelle per cui il modello ultimo rimane il night che ospitava le imprese di tuo padre o di tuo nonno e dei suoi colleghi di lavoro nelle serate di libera uscita? Ecco, appunto: ci meritiamo i dj cinquantenni, m2o e il Billionaire).
L'altro momento notevole di queste due settimane è stato ieri, in una Milano svuotata di residenti come un corpo che ha perso sangue dopo un incidente stradale. C'era, in due tempi, il pomeriggio alla Feltrinelli di piazza Piemonte e la sera al Plastic, l’annunciazione al mondo della nuova band di Erlend occhialone Øye, The Whitest Boy Alive. Band basata a Berlino e composta da lui (che in un primo momento - oops! - si presenta senza occhialoni) e da altri tre tizi dei quali il meglio e il peggio che si possa dire è che potrebbero in tutto e per tutto essere degli attori porno d’altri tempi. Comunque: il concerto inizia gnàgnero, con quel poppettino gnàgnero che a me ultimamente fa venir voglia di Gimme All Your Lovin’, di Legs e in generale di greatest hits degli ZZ Top. Ve lo dirò in tutta sincerità: io ieri pomeriggio dopo i primi due pezzi mi son detto «me ne vado». E non: «me ne vado al piano di sopra a vedere due libri e intanto con un 30% di attenzione magari continuo a buttare un orecchio distratto al concerto». No, proprio «me ne vado a casa, non ne voglio più sapere di ’sta gnàgnera». Se sono rimasto è solo perchè mi ci ha trattenuto per un braccio il papa laico cascinotto Fred Ventura, rammentandomi (perchè io figurarsi se me lo ricordavo) che una primitiva traccia dei Whitest Boy Alive uscì un paio d'anni fa sulla raccolta Kitsuné Midnight (tanto per chiudere il cerchio con quanto detto sopra sulla Francia).
In effetti la cosa è assai strana: da un lato il concerto è gnàgnero in un modo quasi insostenibile, in un modo che ti fa sembrare che i tizi lì sul palco stiano raccogliendo i cocci di una personalità spezzata in troppi punti per poter essere rimessa insieme, e che come in un sogno da bignami della psicanalisi poi alla fine venga annunciato con rullo di tamburi che la personalità spezzata in troppi punti era la tua. Dall’altro, quel che fa la band tra l’inizio e la fine del concerto è in un certo senso il tentare di riportare in carreggiata il tutto trasformando progressivamente la gnàgnera in una specie di disco-music via via sempre meno piagnucolosa, al punto che alla fine il concerto (preso nel suo insieme) è come fosse una sorta di grande metafora di affrancamento dalla gnàgnera.
Lo si è capito anche meglio la sera, al Plastic. Tardi, incredibilmente tardi. Dopo che la sala dove fanno i concerti ci ha messo una vita a riempirsi, mentre nell’attiguo boudoir tutte le drag queen della Lombardia cantavano in coro classici minori di Mango e Anna Oxa divertendosi come delle pazze e non si riusciva nemmeno a entrare da quanta gente c’era, ed Erlend occhialone diceva: «voglio farlo qui il concerto. Posso farlo qui? Sembra molto più divertente. Al limite se qualcuno mi dice le parole posso anche fare il karaoke». Quando poi il concerto è finalmente iniziato, io di nuovo dopo i primi due pezzi me ne sarei andato via, e lì al Plastic non c'erano nemmeno dei libri da sfogliare, così mi sono messo buono buono in un angolo, seduto, aspettando che la gnàgnera si volatilizzasse, come da bambino aspettavo che passassero il mal d’orecchie o la febbre.
E in effetti dopo un po’ i giri di basso si sono fatti più solidi, gli arpeggi di mini-moog più acidi, la voce di occhialone meno efebica. Non grossi cambiamenti, sfumature piuttosto. E poi ho capito. Sapete cosa sono The Whitest Boy Alive? Lo so che è da critichini musicali del cazzo fare i paragoni usando i nomi di altri gruppi (sconosciuti, per di più), ma sono “Josef K remixati da Larry Levan”. Ora potrei impiegare il resto della serata per spiegare chi sono i Josef K e chi è Larry Levan, oppure dare per scontato che chi è giusto che sappia già sa ed agli altri probabilmente non interessa (e poi comunque c’è sempre Wiki-pedia). E in ogni caso non è questo il punto. Non è una scorciatoia semantica: The Whitest Boy Alive sono esattamente “Josef K remixati da Larry Levan”, fatevi una ragione del fatto che non esiste al mondo un singolo modo migliore per definirli.
E quando alla fine hanno esaurito le loro canzoni e la gente (in proporzione non altrettanto numerosa come le drag queen che cantavano Donna con te, ma comunque abbastanza numerosa), la gente continuava a urlare e applaudire, allora si sono guardati, e il suonatore di mini-moog ha iniziato un arpeggio che pareva proprio la bassline di Music Sounds Better With You degli Stardust, e quando ci si è attaccata anche la chitarra, tiritit-tiritit, a quel punto è stato chiaro che si trattava proprio di Music Sounds Better With You degli Stardust, cui è seguita You Just Keep Me Hanging On delle Supremes (ma forse la versione che avevano in mento loro era quella di Kim Wilde) e infine Show Me Love di Robin S. E chissà com’è che le cover, la Covermania, sono sempre la cosa migliore di tutte, l’unica antenna che sembra riuscire a metterti in comunicazione con qualcosa di più grande, più grande di te e più grande di ciò che eri venuto a sentire. Le cover sono i rifugi antiatomici del pop, il luogo dove correre quando tutto il resto attorno è finito, nella speranza che esista ancora - una volta riaperto il portellone pressurizzato - un futuro paragonabile al passato.
E poi ancora, tornando a casa nella notte alla radio c’era la replica dello show di Joe T Vannelli, e Joe T Vannelli e Justine Mattera stavano presentando Join The Chant di Nitzer Ebb, un classico EBM di quando io avevo vent’anni, ed è a quel punto che ho avuto la certezza che in realtà il mondo è finito più o meno attorno al 1997, il giorno in cui Mina coverizzò due pezzi degli Afterhours, ricordate? E quando tutti i Whitest Boy Alive avranno finito di coverizzare le Robin S, e quando tutti i Joe T Vannelli avranno esaurito i Nitzer Ebb da recuperare, allora, in quel preciso istante, non resterà altro da fare se non guardare in faccia la realtà e accettare che il mondo è finito nel 1997 e che, forse, fuori dal portellone pressurizzato c’è solo una grigia polvere lunare. |
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