(think fast, fail fast, fix fast)


Yesterday's Papers

(Re)Light My Fire: ce ne frega ancora qualcosa dei Doors? (Hot)

Trentemøller, il Vasco Rossi della techno (Hot)

I ♥ Pet Shop Boys (nonostante tutto...) (Hot)

The Hours: Damien Hirst ha fondato una band (o forse no) (Hot)

SXSW: la volta all'anno che Austin diventa la capitale dell'indie mondiale
(Repubblica XL)

Bob Marley: la leggenda del santo fumatore (Io Donna)

Mile High Punk: ragionare sui Sex Pistols a 10.000 metri d'altezza (Hot)

Lacuna Coil: la cui cantante, nel caso non si fosse capito, è gnocca (Repubblica XL)

Jim Kerr: che voleva dire, esattamente, "nuovo sogno dorato"? (Io Donna)

Coldcut: "È imprevedible quello che succede quando il suono incontra la vita" (Hot)

45giri: il formato che doveva morire (Hot)

Hard-Fi: quelli che Scarlett Johansson non ha mai sentito nominare (Repubblica XL)

Incontrare Ursula Rucker e chiederle: "ma tu scrivi prima la musica o i testi?" (Hot)

Arctic Monkeys: come internet trasformò un cartone animato in realtà  (Repubblica XL)

Tiga: "la prima volta che ti chiedono un remix è come la prima volta che baci una ragazza" (Hot)

Da Brian Eno ai Franz Ferdinand: di che cosa parliamo quando parliamo di "art-rock"? (Hot)

The Strokes: “il CBGB's? che si fotta” (Repubblica XL)

Confessions On a Dancefloor: Madonna e l'ultimo capodanno dell'umanità  (Hot)

Mister Cartoon: il tatuatore più famoso del mondo e il suo ferro da stiro (Hot)

Art Brut: "abbiamo formato una band" (Hot)

Ozzy Osbourne: un vecchio zio nella casa degli orrori (Repubblica XL)

Tracey, Damien e Grayson: sai tenere un Segreto? (Io Donna)

Scuola Furano: fuga dalla scuola media (Hot)

Roisin Murphy: quella sua maglietta stretta (Rolling Stone)

Violante Placido, per gli amici Viola (Io Donna)

Joy Division, the movie: non esattamente Last Days, e nemmeno The Doors (Hot)

30 domande a... WhoMadeWho (Hot)

Allun, Offlaga, Uochi Toki e gli altri: marziani italiani (Repubblica XL)

Devendra, Sufjan, Rufus: le radici in un passato immaginario (Hot)

Sigur Ros: niente più strategia dell'oscurità , o quasi (Repubblica XL)

Arcade Fire: sette musicisti, tre funerali e un matrimonio (Repubblica XL)

C30-C60-C90: il culto del mixtape (Hot)

"Piripiri-piripiri-piripiri-pi": più famosa di Yesterday dei Beatles (Io Donna)

Tosca + The Dining Rooms: due dischi, quattro musicisti e sette bambini (Hot)

E arrivò il giorno in cui i lettori del Corriere conobbero le Coco Rosie... (Io Donna)

Tattoo You: sì, nel 2005 c'è ancora qualcuno che scrive articoli sui tatuaggi (Hot)

Springsteeniani d'Italia: il culto di Bruce (Io Donna)

From Genesis to revelation: la dj-culture scopre il prog? (Hot)

It began in Ibiza: la Summer of Love e tutto il resto (Hot)

A Grottaferrata, a sentire il nuovo album dei Subsonica, mentre loro mi guardano strano (Rolling Stone)

Joss Stone: mind the Gap, please (Io Donna)

Red Bull Music Academy: la scuola per dj più pazza del mondo (Rolling Stone)

Sk8r boi 2005: la musica che gira intorno allo skate (Hot)

Antony & The Johnsons: "volevo essere Isabella Rossellini" (Rolling Stone)

Coldplay/Guns'N'Roses: scusate il ritardo (Io Donna)

World Wide Clubbing: prima viaggiare, poi ballare (Hot)

Moby: "voglio vivere come dentro una tomba"
(Io Donna)

Discoinferno: i dieci anni che cambiarono il clubbing a NY (Rolling Stone)

Belle de Jour: "anal sex is the new black" (Io Donna)

Optimo: i biscotti per cani e il futuro del djing (Hot)

Polyphonic Spree: il meraviglioso mondo di Tim DeLaughter
(Musica di Repubblica)

Mercury Rev: in segreta migrazione (Rumore)

EMA: (mica tanto) European Music Awards (Io Donna)

White Stripes: i Kraftwerk del 2000? (Rolling Stone)

Kasabian: il Gabibbo e Charles Manson
(Musica di Repubblica)

The Cure: la vita è un lungo fascinoso imbrunire
(Rolling Stone)

Miss Violetta Beauregarde: ultra-Violetta! (Rumore)

Franz Ferdinand: il successo è una cosa che succede
(Musica di Repubblica)

Lollapalooza: Woodstock per la Generazione X
(Rolling Stone)

Io tigro, tu tigri, loro Le Tigre... (Rumore)

Duran Duran: Wild Boys vent'anni dopo
(Musica di Repubblica)

Radio Dept.: Radio Free Sweden (Rumore)

Milano-Roma-Barcellona: trans Soulwax express (Rumore)

The Libertines: "vuoi sapere che si prova ad avere nella band un potenziale Sid Vicious?"
(Musica di Repubblica)

Gabrielle Drake: Pink (Moon)base
(Rolling Stone)

Janet Jackson: e Dio creò le tette (GQ)

Discocaine: viaggio al termine del nightclubbing (Hot)

Beastie Boys: To The 5 Boroughs (Rumore)

2004: dance is (not) dead? (Rumore)

The Streets: "pensavo di essere noiosissimo, pensavo che nessuno mi capisse"
(Tutto/Rumore)

Golia & Melchiorre: un Bugo, anzi due (Rumore)

Malcolm McLaren: comprereste un'auto usata da quest'uomo? (Hot)

Do you remember the Summer of Love? (Rolling Stone)

PJ Harvey: e alla fine arriva Polly (Jean) (Rumore)

William Gibson: non tutte le predizioni devono per forza avverarsi (Tutto)

The Darkness: old Skool of Rock (Rumore)

Morrissey: un alieno a L.A. (Rolling Stone)

Von Bondies: Detroit, botte & rock'n'roll (Rumore)

Courtney Love: la fidanzata d'America (Rumore)

Coldplay: livin' la vida glamour (Rumore)

Iggy, ti presento Peaches... (Rumore)

Black Rebel Motorcycle Club: belli, neri e ribelli (Rumore)

The Rapture: punk, funk, moda & modelle (Rumore)

The Queer is Dead: trent'anni di rock non-solo-eterosessuale (Rumore)

I Maniaci Dei Dischi: il futuro è un dj a sei mani (Rumore)

La strada di Zwan: Billy Corgan e il tempo ritrovato (Rumore)

"Così Tanto Amore da Dare": in giro per Londra a caccia di Dj Falcon (Rumore)

Massive Attack: 3D, cuore di tenebra (Rumore)

Sigur Ros: "il mondo è più divertente di quel che potresti credere" (Rumore)

The Osbournes: gruppo di famiglia in un inferno (Rumore)

Last Night a DJ Saved My Life: essere dj nel 2002 (Rumore)

Primal Scream: "il problema è che noi non siamo gli Oasis" (Rumore)

David Holmes: una vita per il cinema (Rumore)

My Bloody Valentine: soffice come la neve (ma caldo dentro) (Rumore)

Stuart David: fold your book, child... (Rumore)

Chemical Brothers: è iniziato in Africa-ka-ka-ka... (Rumore)

Money Mark: lo spirito delle persone si infonde nelle macchine (Rumore)

Non solo Anniottanta: il lato oscuro dell'Eighties-revival (Rumore)

Solex: ovvero Beck con le mestruazioni (Rumore)

Starsailor: "purezza" è la parola chiave (Rumore)

Lamb: l'opposto dell'amore non è l'odio, ma la paura (Rumore)

Verdena: paura & disgusto dalle parti di Bergamo (Rumore)

Quando incontri Bjork e poi parenti e amici ti chiedono: "ma com'è lei veramente?" (Rumore)

Copia Icona: Thora Birch e il congelamento di Kate Moss (Rumore)

The rhythm, the traxx, the Basement, the Jaxx... (Rumore)

Radiohead: "odiare la musica è pericoloso" (Rumore)

Damon & Jamie: Gorillaz nella nebbiaz (Rumore)

Tool: i Radiohead del post-metal (Rumore)

Depeche Mode: l'heavy metal dello spazio interiore (Rumore)

Soft Cell: quest'ultima notte a Sodoma (Rumore)

Die Moulinettes: brevi amori a Jesolo e Bibione (Rumore)

Future Pilot AKA: Wild Thing dei Troggs è l'equivalente pop dell'uomo delle caverne (Rumore)

Daft Punk: 0ne m0re t1me? (Rumore)

Kings Of Convenience: un mondo di canzoni ideali (Rumore)

Riot Grrrls 2001: girls just want to have fun? (Rumore)

La Crus & Avion Travel: i nuovi tradizionalisti (Rumore)

Me and Alan McGee: le etichette che hanno fatto la storia, da Rough Trade alla Creation (Rumore)

Giuliano Palma & The Bluebeaters: it's a wonderful, wonderful life (Rumore)

Il giorno che Roni Size mi mandò (quasi) a quel paese (Rumore)

Mtv (de)Generation: vogliono trasformarci in Arancia Meccanica, ma noi siamo più veloci (Rumore)

Belle & Sebastian: "talvolta al mattino mi sveglio e mi sento Andy Warhol" (Rumore)

Yoshinori Sunahara: il non-luogo dell'anima (Rumore)

Londra: 333 italiani
("D" di Repubblica)

Mr.Oizo: l'uomo che muove il pupazzo (Rumore)

Nine Inch Nails (e Marylin Manson): speranza e vaselina (Rumore)

Stupiti & Confusi: apologia (o quasi) di Chloe Sevigny (Rumore)

Mò Wax: non necessariamente trip-hop
(Dance Music Magazine)

Pop Life!: dai Beatles ai Boo Radleys passando per i Sex Pistols (Rockstar)

“Generazione M”: i ragazzi con la spina nel fianco (Rumore)

 

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Saturday, June 17, 2006

Un uìchend un po’ smoderno/2
Cioè, vabbè che sono sempre l’ultimo a sapere le cose, ma ho scoperto solo cinque minuti fa rientrando alla base che la festa più cool del fuoriSònar di stasera la fanno qui nella terrazza del mio hotel, e ci suonano Trevor Jackson, Prins Thomas, Tim Sweeney, Headman e qualcun'altro che adesso non ricordo.

Update delle 20.15: Prins Thomas ha una t-shirt verde tarocca de “Il Discotto”. La notizia ovviamente non è questa: la notizia è che esiste qualcuno da qualche parte di questo pazzo mondo che ha sentito il bisogno di produrre delle t-shirt tarocche de "Il Discotto"

Update delle 22.50: è arrivata la direzione dell’hotel a spegnere d’autorità la musica... pare che il pum-pum (sia pure il raffinato pum-pum di Prins Thomas) si sentisse fino al mare... Adesso si sposta tutto in una sala al piano interrato.

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Un uìchend un po’ smoderno/1
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A Barcellona il cielo è grigetto ma fa caldo. Lo spicchio di Barcellona che entra dalla vetrata della stanza - non tanto adesso, ma stamattina alle cinque, con le luci e il bagliore dell’alba imminente - sembra quasi la scena di ground zero in La venticinquesima ora di Spike Lee: due grosse voragini di terra rossa attorno a cui tre o quattro gru stanno riunite come medici ad un consulto attorno al letto di un paziente, e dove ora, nel sottile spazio solido tra le due voragini, ci sono dei ragazzi che giocano a pallone. In realtà basterebbe avere una stanza su uno degli altri due lati del grattacielo e il racconto sarebbe diverso: ad esempio potrei raccontare della Torre Agbar (il tozzo sigaro di vetro e cemento meglio noto a chiunque qui come “il vibratore”) a un metro dal naso, che di notte si illumina di blu elettrico e rosso come... beh, come un dildo special edition per qualche festa nazionale. Ma tutto questo non è importante perché sono qui per raccontarvi... del Sònar, no? Perché, come chiunque altro, sono a Barcellona questo weekend per il festival delle arti e della musiche elettroniche, no?

In realtà più no che sì: il programma del Sònar quest’anno era così prevedibilmente Sònar che due volte ho provato a leggerlo e due volte sono crollato addormentato prima ancora di arrivare a metà. Ma il destino ha strani percorsi, e quando avevo ormai deciso per il carnaio festivaliero di Imola (dove non sono mai stato, e dove una volta almeno nella vita bisogna andarci, e con Morrissey, Goldfrapp e pure i Depeche sembrava proprio che quella volta nella vita fosse questa), quando avevo ormai deciso, insomma, è arrivata la convocazione d’urgenza da parte degli Scissor Sisters, che hanno riunito a Barcellona tutta la stampa musicale planetaria per far ascoltare in anteprima il disco nuovo che esce a settembre, Ta-Da.

Ieri mattina quindi listening session del disco. Recensione: è il disco che Robbie Williams farebbe se rinunciasse definitivamente, completamente e irrimediabilmente ad ogni singola traccia, anche la più piccola, della sua eterosessualità. Con mia sorpresa la definizione sembra non essere dispiaciuta neanche al diretto interessato: non Robbie Williams, Jake Shears, il front-man dei Sisters («but you can call me front-queer, uhuhuh»), che un minuto dopo però era già imbronciato, perchè gli è caduto l'occhio sui miei fogli di appunti per l'intervista e ci ha letto le parole “Hall & Oates” («Perché vedo scritto Hall & Oates qui?». «Ma no, sono solo degli appunti per me, mica le scrivo ’ste cose». «Sì, ma perchè c’è scritto Hall & Oates?» «Ehm... perchè She’s My Man mi ricordava Maneater di Darryl Hall & John Oates, ma è un complimento». «Ah ecco, perché vedo che c’è anche scritto “U2 New Year’s Day but less masculine”. Anche questo è un complimento?» «Te l’ho detto, ’ste cose non le scrivo. Posso riavere i miei appunti adesso?» «Che c'è scritto qui? non riesco a leggere» «C'è scritto: “dove cade il limite tra diffondere una percezione meno tesa e drammatica dell’omosesualità ed essere un act di comedy-queerness?”. «Accidenti. Volevi veramente chiedermelo?!?»).

Poi, dopo una pausa pranzo durante la quale ho con scarso successo tentato di diventare amico di una giornalista spagnola più interessata al buffet che alla mia teoria su “il clubbing degli anni 2000 come esperienza di un eccesso di contemporaneità” (del resto anch'io ero più interessato alle sue tette che al suo racconto del viaggio a Roma con mammà e nonna in occasione del Giubileo 2000, quindi siamo pari), dopo c’è stata la traduzione di tutta la stampa mondiale di cui sopra nel luogo dove, si sussurrava a mezza voce, gli Scissor Sisters avrebbero tenuto un concerto segreto pomeridiano. «Non parlatene assolutamente con nessuno, è segretissimo» si è raccomandato il capo della promozione europea dell’Etichetta Discografica, e mentre lui raccomandava io già stavo al telefono con il mio dj preferito al mondo, ovviamente anche lui a Barcellona, e gli dicevo «qui gira voce che il concerto sarà in una chiesa sconsacrata fuori dal Sònar, anzi no, in un’area riservata dentro il Sònar, vabbè, tienti pronto che appena la combriccola della stampa mondiale scende dal pullman si crea un diversivo e si infila anche te nel gruppo».

Ma non è stato necessario, visto che il secret gig era sì secret, ma solo nel senso che era unannounced. Il luogo invece era quanto di meno secret si potesse pensare: il palco centrale del Sònar De Dia, in mezzo al grande giardino ricoperto di turf verde acido del Centro di Cultura Contemporanea. Una specie di Ibiza ricostruita col Lego, una distesa di ragazzi e ragazze che prendono il sole gettando un orecchio distratto a quel che succede sul palco, e per i quali l'arrivo degli Scissor Sisters dev'essere stato un po' come se a Woodstock avessero ad un certo punto fatto salire i Village People (lo so che il paragone non è filologicamente corretto perchè nel 1969 i Village People ancora non esistevano, ma ci siamo capiti). Divertente, però.

Tralasciamo i dettagli inutili e avanti veloce fino alla sera, all’una di notte circa. Il Razzmatazz, anzi la “Sala Razzmatazz”, è a dieci minuti a piedi dal mio hotel, e questa è una cosa fantastica. L’idea che non dovrò combattere per trovare un taxi alle cinque del mattino... uuh, non sapete come mi mette di buonumore. In più il Razzmatazz è esattamente una di quelle cose che in Italia, con tutta la nostra industria del divertimento notturno del piffero, ce la sognamo: in pratica è cinque club perfettamente indipendenti - ma comunicanti tra loro attraverso un sistema di corridoi, scale e terrazze - riuniti dentro la struttura di quella che dall'aria potrebbe essere una vecchia, enorme officina. Il mood quindi è da archeologia industriale, scuola berlinese-squat-nordeuropea, ma con un paio di piccoli raffinati tocchi mediterranei (nell’uso del colore e dell’illuminazione, ad esempio) per cui ognuno dei cinque locali ha in realtà una sorta di sua fisionomia ed identità. A occhio ci staranno dentro duemila persone, e stasera ci suonano (fra gli altri) James Murphy, Ellen Allien, i Black Strobe dal vivo, il dj degli Scissor Sister etc etc etc. Ovviamente io sono lì soprattutto per rendere omaggio alla vecchiazza suprema James Murphy, che quando arrivo è già là che gira per la sala ancora semivuota. Che uomo, che stile: veste una T-shirt bianca con la scritta che non si capisce (una roba tipo “wasted” in qualche font di moda nel 1983) e che gli contiene a stento la panza; ha la barba mal fatta, pantaloni bianchi da turista americano in Europa e Superga bianche. È meraviglioso, è un figo che non ce n'è. È il Gérard Depardieu dell’indie-electro. Dovessimo mai fondare un movimento o un partito politico delle vecchiazze, egli ne sarebbe il presidente. Si organizzasse mai un “Festival delle Vecchiazze di Roccella Jonica”, egli ne risulterebbe il tronfatore naturale e incontrastato. Ma adesso viene il bello: Murphy era lì con la moglie, e con la sorella della moglie, ed anche con suo fratello. Insomma, la famiglia Murphy al completo.

• La moglie: magra, pallida, capelli neri corvini corti. Ha una postura curva, inequivocabile indice di insicurezza, ma per contro sfoggia numerosi dettagli curati - il taglio di capelli, i ninnoli appesi al collo - che denotano volonta di affermazione e probabile successo sul lavoro (che immagino sarà una tipica roba newyorkese, tipo responsabile di una galleria d'arte o PR di qualche casa editrice assai chic). Purtroppo un paio di spaventosi bermuda a saloppette decorati a motivi paisley (e, sotto, dei fuseax neri) la classificano immediatamente come la femmina peggio vestita di tutta Barcellona - ma forse anche di tutta Europa.

• La sorella della moglie: più alta, più verso i quaranta che i trenta. Più sicura di sé, ma penalizzata (come la sorella maritata) da un gusto estetico da profuga cecena: magari sono io esagerato, ma era dai tempi delle scuole medie che non vedevo una donna vestire jeans e giubbotto di jeans. In più per due volte ho visto Murphy che mentre slinguava la moglie faceva l’occhiolino alla cognata, e lo so che dovrei farmi i cazzi miei (che non è che siano pochi, fra l’altro), ma non riesco a non pensare alla spaventosa tresca che forse si sta consumando tra le mura di quella casa: ai coniugi Murphy che da un giorno all'altro rischiano di trasformarsi in due personaggi da romanzo di Johnatan Franzen.

• Il fratello: in tutto ciò il fratello di James Murphy è uguale a lui, solo meno vecchiazza. Veste una T-shirt bianca di Quincy Jones e balla come uno che è stato lasciato meno di una settimana fa dalla moglie ed ha appena preso la prima pastiglia di ecstasy della sua vita (e probabilmente anche l’ultima). Si agita, sorride, si struscia contro tutte ricevendone in cambio occhiate severe e compassionevoli che però lui miracolosamente ignora. Non vorrei essere nei suoi panni domattina, quando sarà svanito l'effetto della pastiglia, o della sbronza, o di qualunque altra cosa abbia preso.

Poi a un certo punto arriva pure Jake Shears, in hot pants e t-shirt d’argento, che saluta tutta la famiglia Murphy con grandi baci e abbracci (sono tutti newyorkesi, è evidente che si conoscono). E dopo aver salutato tutti loro, abbastanza sorprendentemente, mi riconosce, mi viene incontro e saluta pure me con un calore come ci conoscessimo da vent’anni. «You were gorgeous this afternoon, on stage» gli dico. «I know» risponde lui facendo l'occhiolino. Che bello: per cinque minuti mi sento anch’io un po’ parte della grande famiglia disfunzionale newyorkese in trasferta a Barcellona. Un dj panzone, suo fratello divorziato di fresco, due profughe cecene, una Barbra Streisand electroclash intrappolata in un corpo di uomo e, special guest dall’Italia, un giornalista e blogger che non dorme da ventitre ore.

Ma il più bello succede poco dopo, mentre Murphy - monumentale dietro la consolle - sta mettendo i dischi. Lasciate perdere il fatto che ieri sera non fosse molto, uhm, comunicativo, che sembrava più che altro impegnato a svuotare un po' di più la pista con ogni nuovo disco (diciamo che il suo stile è suonare tre dischi così così e poi uno molto bello). A un certo momento mette una di quelle cose che sono tipicamente “sue”, un re-edit pirata della rarissima versione strumentale di You Should Be Dancing dei Bee Gees, sì, esattamente quella che stava su La febbre del sabato sera. Ovviamente appena la suona si precipita sotto la consolle un giovane diggeietto che vuol sapere cos’è. Io lo vedo arrivare e vorrei dirgli: «diggeietto, non penserai mica di importunare il monumentale Murphy nell'esercizio delle sue funzioni, vero? Hai la fortuna di essere nato nell’epoca di Google, non sai che lì sopra già ci sono tutte le risposte che cerchi?». Ma forte della propria giovanile impazienza e del proprio entusiasmo il diggeietto si sporge sopra la consolle e chiede. E il monumentale Murphy risponde. Però nel rumore e nella confusione la risposta si perde, e il diggeietto fa la faccia terrorizzata di chi non ha capito la risposta, ma non se la sente di dire che non ha capito. Ed a quel punto il monumentale Murphy, il monarca regnante di tutte noi vecchiazze, fa una cosa che pochi dj farebbero (a memoria d’uomo si ricorda un gesto analogo del lungagnone dei Groove Armada al 93Ft.East di Londra nel 2003): piglia il disco dalla valigia e lo allunga al diggeietto perchè possa con bell’agio ricopiarsi titolo, autore, etichetta e quant’altro. Subito sotto la consolle è un corri corri di altri diggeietti sbucati dall’ombra ed un passarsi di mano in mano il prezioso vinile, e poi un coro di «oh» e «ah», di penne che ricopiano veloci nei taccuini, finchè - esaurito il giro - il primo diggeietto non lo riprende il mano e, in punta di piedi, lo restituisce al monumentale Murphy, in questo momento più monumentale che mai.

E in quel momento pensavo che li amavo veramente tutti: la disfunzionale famiglia estesa newyorkese, le due profughe cecene, le facce sconosciute che ballavano al Razzmatazz, i diggeietti convinti che trovare quel disco il cui titolo ora era scritto sul loro taccuino cambierà la loro vita, tutti. Pensavo che ero dovuto andare fino a Barcellona (a intervistare un gruppo di drag queen electro) per ricordarmi di quel che può muovere l’incanto di una canzone. Pensavo al digeietto che l’indomani mattina avrebbe cominciato a battere tutti i negozi di Barcellona alla ricerca di quel disco - lo so, perchè un tempo anch’io ero esattamente come lui, e in fondo (molto in fondo) ancora un po’ lo sono, anche se molto più stanco e pensante. E adesso magari esco e vado anch’io in quel negozio che sta in un vicolo dietro la boqueria, e anche se ormai lo so che non esiste nessun disco che possa cambiare il corso delle cose - neanche di una singola serata - proverò a cercare questa ristampa Ballroom Records numero di catalogo BRH019. Poi, se la trovo, la lascerò là per il digeietto: perchè l’incanto che muove una canzone è davvero una delle ultime cose rimaste in cui credere.

PS: in realtà non lo so se scriverò una parte 2 di questo weekend a Barcellona. Dipende da quello che succede oggi. A dopo...

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Saturday, June 10, 2006

Ah, ecco. Adesso ho capito
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«Per noi che seguiamo il fantacalcio le settimane dei Mondiali sono come per voi che seguite la musica essere ad Austin durante il South By South West».

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Thursday, June 08, 2006

«Voulez-vous, un rendez-vous (à Pavia) tomorrow?»
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Ultima tappa nella prima parte del tour di presentazione del gioviale libercolo, in attesa dell'eastcoast summer tour (con apoteosi finale il 26 agosto al Cocoricò).

venerdì 9 giugno, ore 22.00
Spaziomusica, via Faruffini 5, Pavia
interviene:
• Borut Viola (degli Scuola Furano)
• Pier Vigevani (agitatore culturale pavese)

A dire il vero doveva intervenire anche il direttore di Rumore, Claudio Sorge, che però ieri si è ricordato che venerdì sera ci sono i Brian Jonestown Massacre a Milano e quindi non ce la fa. Pazienza. A seguire live set di Scuola Furano ed a seguire ancora dj set di (indovinate un po') Fabio De Luca e Borut. Per chi arriva a presentazione ultimata c'è un obolo di sei euro all'ingresso: per chi è già dentro durante la presentazione, invece, ingresso libero (messaggio subliminale: arrivate presto). Altrimenti ci si vede sabato sotto il palco degli Hot Gossip all'Idroscalo.

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Wednesday, June 07, 2006

Because I am your friend
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Premesso che quelli veramente fighi (tipo io, ad esempio) adesso di Never Be Alone dei Simian suonano la versione originale, quella uscita nel 2002, snobbando il pleonastico remix di Radio Slave e sorridendo con condiscendenza a chi scopre oggi il Justice vs. Simian remix. Premesso ciò, è da qualche giorno che in rete circola il video del Justice vs. Simian remix medesimo (che è stato di recente ristampato, da cui la condiscendenza di cui alla riga precedente). Il video - quel che si dice un clip tossico, al cui confronto Trainspotting è una pellicola proibizionista - ha il suo bel perchè, e il pezzo anche dopo averlo sentito alcuni miliardi di volte rimane pazzescamente pazzesco, non trovo altra definizione possibile.

E comunque: quant'è addictive linkare i video da YouTube, vero? Io ne linkerei tre o quattro ogni giorno. Qui ad esempio c'è il video di Never Be Alone versione originale.

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Tuesday, June 06, 2006

Download-it, unzip-it, check-it, trash-it.
Magari con i visual sarà un'altra cosa, ed essere stati lì neanche a dirlo, ma a sentire solo la traccia audio il famigerato concerto dei Daft Punk lo scorso fine aprile a Coachella è la cosa più noiosa del mondo.

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Sunday, June 04, 2006

Piuttosto lacerato (Rather ripped)
a

a
You keep me comin' home again
You keep me comin' home again


La prima volta che sono nato è stato all’ospedale San Martino di Genova, un lunedì di novembre che pioveva. Sono nato alle due del pomeriggio: fuori i lampioni erano già accesi e le macchine lungo corso Europa si muovevano lente. Pioveva talmente tanto che per anni a casa nostra per dire di una pioggia particolarmente intensa si diceva «piove come il giorno in cui sei nato». Sono nato un mese prima del previsto. I miei genitori erano soliti raccontare, con un certo orgoglio, che c’erano un’incubatrice e un’auto medica pronte a trasferirmi al reparto prematuri del Gaslini, l’ospedale pediatrico di Genova, ma che non ce ne fu bisogno. Urlavo e scalciavo come Iggy Pop ai tempi degli Stooges, ma non sembravo particolarmente sofferente nè prematuro. Al limite incazzato, come se mi avessero distolto da un gioco che mi piaceva molto.

When you were gone,
I met a friend
She taught me how to
Live in the end
You keep me comin' home again
You keep me comin' home again


La seconda volta che sono nato è stato qualche anno più tardi, nove o dieci direi. È successo di fronte alla vetrina di un negozio di dischi al piano terra del “grattacielo della Sip”, unico angolo di skyline vagamente metropolitana dentro a una città arroccata con le unghie e con i denti nel suo passato di repubblica marinara. Non che amassi particolarmente i dischi: in realtà a parte un paio di 45 giri di Sanremo quasi non sapevo che fossero. Mia madre andava da un parrucchiere al primo piano del grattacielo e io ogni tanto l’accompagnavo, silenzioso e invisibile come Tom Verlaine. Credo fosse questa la ragione per cui mi ero accorto che al piano terra c’era un negozio di dischi. Un giorno entrai chiedendo se avevano la sigla del telefilm “La famiglia Partridge”. Non amavo particolarmente i dischi, ma amavo molto i telefilm di Rai Uno alle 19 e 20. The Partridge Family era una serie di discreto successo negli Stati Uniti su una madre che, dopo la morte del marito, trasforma la famiglia superstite (lei e cinque figli di età variabile tra i sei e i diciassette anni) in una band di bubblegum-rock che gira l’America a bordo di uno scuola-bus decorato come un quadro di Mondrian. Douglas Coupland da qualche parte in un suo libro una volta menzionò la “mascherina per dormire Reuben Kincaid” e io segretamente sapevo di essere l’unico italiano ad aver capito esattamente a cosa si riferiva (Reuben Kincaid era il manager della famiglia Partridge, oltre che, secondo me, il sex toy segreto di Shirley Partridge). Questo, unitamente al fatto che per molti anni uno di miei autori di canzoni favoriti si chiamasse Andy Partridge, l’ho sempre visto come una sorta di premonizione retrospettivamente avveratasi.
Sfortunatamente però, al negozio al piano terra del grattacielo della Sip non avevano idea di cosa fosse la sigla del telefilm “La famiglia Partridge”.

Are her eyes
Brown or blue?
How does she keep her
Static cool
My heart and soul
Are rocked up in her eyes
A little blink I recognize
A little blink, yeah, that's my prize


C’è un momento in cui uno si rende conto che le cose che desidererà dalla vita saranno difficili da trovare, più difficili da trovare della media delle cose che la gente in genere desidera dalla vita. Non è solo questione di snobismo e non è solo questione di non accontentarsi di quello che c’è a portata di mano: o forse anche sì. Cos’è che disegna (e designa) i nostri desideri? Difficile dirlo. Forse noi stessi, ma forse anche no. A scuola ci raccontavano con trasporto di come Cristoforo Colombo non si fosse accontentato di ciò che conosceva già: se lui si fosse accontentato delle tranquille rotte del Mediterraneo mica l’avrebbe scoperta l’America, no? Questo era il messaggio. Ovvio che poi uno si ritrovi a farsi delle idee, a strutturare certe scale di valori. Onestamente non posso dire che tutto questo mi fosse chiaro già allora, ma quel momento dentro il negozio di dischi al piano terra del grattacielo della Sip credo di averlo rivissuto centinaia di volte, negli anni dopo. Il modellino di astronave che desideravo dopo averlo visto su quel catalogo non era mai disponibile per l’Italia. Le scarpe da calcetto che mi stavano comode erano sempre il modello uscito di produzione l’anno prima, «provi al negozio di piazza Campetto, forse ne è rimasto un paio». L’album degli spagnoli Duncan Duh su Creation bisognava ordinarlo, e se va bene riuscivi ad averlo un mese e mezzo dopo. I 12” di Chicago-house in Italia non si trovavano da nessuna parte (e non c’era ancora internet, no). Le Etnies nere col filetto giallo non le teneva nessuno in tutta Roma, (sì, nel frattempo c’era internet, ma «we don’t have any retail in Italy and no, we don’t do mail order, sorry»). Le giacche sciallate in quel certo modo non le fa nessuno, giusto Prada, ma comunque non in nero. Persino i miei cereali preferiti, Nestlè Fitness & Chocolate, sembrano più rari dei denti di gallina: dei tre supermercati a distanza praticabile da casa mia, a Milano, solo uno li tiene, e nemmeno sempre. E, inutile che ve lo dica, le pochissime donne di cui mi sono innamorato nella mia vita erano dei pezzi unici di collezioni sexy e demenziali, pezzi unici difficilmente sostituibili, anche oggi nell’epoca di eBay. Avere gusti di nicchia è una condanna: oggi vorrei innamorarmi della prima che incontro, vorrei che mi piacessero i dischi di Ligabue e vorrei lavarmi i capelli con un qualsiasi shampoo della Garnier o fare colazione con dei qualsiasi cereali Kellog’s, ma ormai è troppo tardi per cambiare.

A white horse sittin’ right there by her side
Hard to ignore
Hard to disguise
She'll never ever
Realize...


La terza volta che sono nato è stata un anno dopo la seconda, o forse due, ed è stata pure quella di fronte alla vetrina di un negozio di dischi. Era primavera, ed ero con tutta la famiglia in un posto nell’estremo Nord-Est d’Italia per il matrimonio di un cugino. La tizia che il cugino stava per sposare, a sentire gli annali della famiglia, era una specie di farmacia ambulante di antidepressivi, stimolanti e altre sostanze non esattamente legali del tipo di cui, all’epoca, si sentiva parlare con voce di circostanza giusto al telegiornale. Infatti i due nel giro di un anno finirono per essere il nostro equivalente familiare di Nancy Spungen e Sid Vicious, o Kate Moss e Pete Doherty (con tanto di micro-scandalo su un tabloid veneto). Erano simpatici, però. La mattina del matrimonio lei, la futura cugina acquisita, ascoltava a tutto volume Heroes di David Bowie. «David Bowie» dissi. «Conosci David Bowie?» rispose la futura cugina acquisita sinceramente stupita che un idiota di bambino grasso conoscesse il divino Bowie. Non conoscevo David Bowie, conoscevo Heroes di David Bowie perché su Telecity passavano il video come tappabuchi prima dei cartoni animati, ma quella fu ufficialmente la prima volta che me la tirai da esperto.
C’era un negozio di dischi vicino alla casa dei miei zii. Io continuavo a non possedere nemmeno un disco, ma il pomeriggio del giorno dopo il matrimonio passai mezz’ora appiccicato alla vetrina guardando sgomento e affascinato la copertina di Supernature del re della disco-music francese Cerrone. Non era la solita copertina con le principesse sci-fi nubiane mezze svestite genere Boney M, tutt'altro: era la foto di un tavolo operatorio con sopra pezzi di uomo e di animale, “supernature” appunto. Qualche anno fa ho intervistato Cerrone. Immaginatevi un pappone caduto in disgrazia, immaginatevi Hugh Hefner perseguitato dai creditori: tanto per darvi l’idea di cos’era Cerrone quando l’ho conosciuto io. Visto che lui non aveva granchè da raccontarmi, gli ho raccontato io per filo e per segno la cosa che ho appena raccontato a voi. Lui fu contentissimo. Disse che era felice perché colpire la fantasia di un bambino era esattamente quello che voleva raggiungere con quella copertina - anche se nelle intenzioni avrebbe voluto anche ci fosse un risvolto filosofico “per adulti” nell’immagine, un’allusione al superomismo, alla dicotomia tra Dio e Uomo ed a Friedrich Nietzche (risvolto che si è perso nella fumettosa realizzazione del photo-set, suppongo).

You keep me comin' home again
You keep me comin' home again
When you were gone
I was out of my mind


Mi piacerebbe poter dire che la quarta volta che sono nato è stato ieri mattina, ma non sono sicuro che sia esattamente così. Dubito si possa nascere in eterno, specie dopo una certa età, e probabilmente non è neanche così che deve andare. Comunque: ieri mattina, sabato, ero di nuovo con il naso appoggiato alla vetrina di un negozio di dischi, e il negozio di dischi era di nuovo quello al piano terra del grattacielo che nel frattempo non si chiama più “grattacielo della Sip”. Guardavo le file di cd con occhio clinico, senza fretta, come i giocatori di borsa in pausa pranzo guardano i feed video di Bloomberg Television nelle vetrine delle banche vicino a piazza della Scala. Fila di cd dopo fila di cd, ero sempre più vicino a convincermi che ormai i dischi mi hanno già raccontato tutte le storie che mi potevano raccontare (PS: dev’essere per questo che da un po’ di tempo ho cominciato io a raccontare delle storie, qui sul blogghetto). Ero lì che aspettavo di vedere qualcosa che mi stupisse, e un po' sembrava un sogno, un sogno di quelli che fanno increspare di impercettibile piacere gli angoli delle labbra degli psicanalisti. Non ho idea di quanto tempo sia passato: ricordo che a un certo punto la copertina di St.Elswhere degli Gnarls Barkley mi ha fatto venire in mente un cane beagle di nome Pluto che mi aveva annusato i piedi nella veranda di un bar ad Austin, un paio di mesi fa. Che si chiamasse Pluto a dire il vero l’avevo deciso io, perché indiscutibilmente conteneva tutta la plutaggine del mondo in termini di ficcare il naso tra le scarpe della gente e lasciarsi pazientemente fare di tutto dalla bambina di un anno figlia dei due padroni. «Credevo ti fossi addormentato» ha detto il proprietario del negozio quando sono entrato. «Penso che prenderò il nuovo dei Sonic Youth» gli ho risposto. Nel corso degli anni abbiamo cercato un sacco di volte di capire se c'era lui dietro il bancone e fu lui a dirmi che non avevano la sigla del telefilm “La famiglia Partridge” la prima volta che entrai in questo negozio. Un rudimentale tentativo di ricostruire la mia scena primaria, sì, nella speranza di potermi finalmente liberare da quel grumo di delusione infantile che ancora si annida nelle vene e nei capillari del mio cervello come una costante potenziale causa di aneurisma. Ma niente da fare. Come dire: da un tot di anni torno in questa città più o meno un weekend al mese a fare il bravofiglio, e quando il sabato mattina passo di qua ho sempre la netta sensazione di passarci perchè una parte di me ancora non si è rassegnata a non aver trovato quel disco della famiglia Partridge, e in cuor suo spera sempre che quel sabato sarà la volta buona.

I had a friend who laughed all the time
I had a friend who cried all the time
I had a friend who screamed all the time
I had a friend who lied all the time


Uno potrebbe pensare che in questo posto almeno mi ci sento, per così dire, “a casa”, ma invece no. Non mi ci sento a casa per nulla. Ve lo dico io, invece, dov’è che mi sento a casa: nel nuovo disco dei Sonic Youth, Rather Ripped. Mi ci sento a casa tantissimo. A metterlo su mi sembra di entrare a casa mia in un modo che quasi mi viene da piangere, in una casa come te la sogneresti in uno di quei sogni in cui sei in un posto che nel sogno è familiare anche se poi da sveglio non riesci a riconoscerlo come un posto in cui sei stato veramente. È un disco placido, solido e sicuro: un disco di canzoni surf da cartone animato intellettuale (ad esempio: Incinerate) che sembrano dirti che le tue emozioni non si vaporizzeranno in una nube di condensa se le terrai troppo a lungo chiuse dentro. Un disco di canzoni “familiari” (perché in fondo è come se già le conoscessimo un po’ tutte), come una passeggiata in un bosco d’autunno con qualcuno che ti dice i nomi di tutte le piante. Il disco di una famiglia rock’n’roll. I Sonic Youth sono l’unica famiglia che molti di noi abbiano mai avuto, nelle frequentazioni del rock almeno. La famiglia rock’n’roll perfetta, molto più della famiglia Partridge. Nella foto interna sono quattro pazzesche vecchiazze dignitose, una vera famiglia: i Fantastici Quattro in un remake per il Tribeca Festival, con la testa così nella luna da non essersi nemmeno accorti (pare gliel’abbia detto Coco, la figlia di Thurston Moore e Kim Gordon) che What A Waste è uguale alla sigla di Friends. Però consapevoli del fatto che più passa il tempo e più è come se il mondo ti regalasse un microscopio per guardarti dentro, solo che per la maggior parte del tempo non lo usi. Rather Ripped è una delle lenti di quel microscopio, in un certo senso.

(Sonic Youth, “Reena”)

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Thursday, June 01, 2006

Me and Bobby Gillespie (2006 revisited)
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- Adoro le canzoni di redenzione, sono le mie preferite. Il problema è che per scrivere una canzone di redenzione convincente devi tu per primo esserti sporcato le mani nel peccato.
- Beh, quella dovrebbe essere la parte divertente, no?
- Uhmm?
- Voglio dire, hai la fama di uno che ha molto peccato...
- Sì, sì. Ho molto peccato. E mi sono divertito. E ho scritto canzoni. Ho fatto tutto quello che potevo fare.
(Bobbie Gillespie, mezz'ora fa, sul nuovo singolo dei Primal Scream Country Girl)

Si storce un po’ quando uno parla di Martin Duffy come “Martin Duffy dei Felt”. «È stato più anni nei Primal Scream che nei Felt, eccheccazzo». Però rispetto alla volta scorsa (e soprattutto rispetto alla volta in cui all’appuntamento per l’intervista non ci si presentò proprio) è proprio un agnellino. Qui invece un articolo uscito domenica scorsa sull’Observer Music Monthly, molto meglio (o almeno: molto più lungo e dettagliato) di quello che scriverò io.

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