The Cure: la vita è un lungo fascinoso imbrunire
 

di: Fabio De Luca




La prima sala prove dei futuri Cure (allora si chiamavano Malice, era il 1975) fu un salone dentro la sagrestia della chiesa sconsacrata di St.Edward a Crawley, nel Sussex. Robert Smith e gli altri - alcuni dei quali ancora oggi suonano insieme a lui nei Cure - ci andavano ogni giovedì sera a farsi le ossa sui pezzi di David Bowie e Marc Bolan. Inutile stupirsi, poi, dell’etichetta "dark" rimasta appiccicata alla band per oltre un quarto di secolo... Ma limitarsi alla sola eredità estetica o suicida-depressiva sarebbe sleale, se pure è sicuramente vero che i Cure sono stati il cartamodello per decine di migliaia di piccoli robertsmith in cappotto nero e trucco pesante, alcuni dei quali ancora oggi in attività nelle grandi metropoli. Come tutti i migliori protagonisti della valanga successiva al punk che prese il nome di "new wave", The Cure sono stati - e riescono tutt’ora credibilmente ad essere - un riuscito amalgama di autentico e artificioso, di passionaccia che ti brucia le viscere e di cosmesi portata alle estreme conseguenze. Meno sacrali e corrosivi dei Joy Division, meno pompier e ammiccanti dei Bauhaus, meno furbetti della cugina Siouxie (nei cui Banshees lo stesso Robert Smith avrebbe militato a lungo come chitarrista) i Cure erano il Dna del blues del delta del Missisipi trapiantato nella provincia inglese più profonda e piccolo borghese, cresciuta a buone letture francesi ma priva degli anticorpi per sopportare l’ennui dei tempi nuovi. Al loro meglio i Cure raccontarono il lento scolorire delle giornate e la vita come fosse un lungo fascinoso imbrunire, citando ora Camus (Lo Straniero, ispirazione del loro primo singolo Killing An Arab) ora immagini oniriche che parevano un breviario di Sigmund Freud (A Forest: "improvvisamente mi fermo/ma so che è troppo tardi/sono perduto nella foresta/completamente solo"), salvo poi scuotersi con dischi rumorosi e nichilisti (il loro capolavoro Pornography del 1982). Tutto attorno c’era l’Inghilterra del post-punk, Londra che funzionava come una gigantesca calamita per tutte le anime inquiete. La Londra nella quale - mentre i Cure ancora provavano in sagrestia - Malcolm McLaren e Vivienne Westwood tenevano a battesimo i Sex Pistols nel loro negozio di abiti creativi "Sex", nella quale i primi punk tra cui Siouxie univano (follia!) le divise delle sottoculture gay e rocker, capelli ossigenati e giubbotto di pelle. I Cure non parteciparono se non in minima parte alla grande festa, rimanendo un po’ in disparte come si conviene a dei filosofi solo per caso prestati all’agone mondano del pop. Oggi li si guarda come si guarderebbero dei dinosauri in un parco a tema, talvolta facendo della facile ironia sulla panzetta di Robert Smith o sul suo make-up che forse ormai è un tutt’uno con l’epidermide del viso: ma è ovvio quanto la loro influenza si stagli imponente, anche a distanza di anni. Solo per fare due esempi: la voce di Robert Smith ha di recente fatto capolino su una traccia happy-techno francese (Da Hype di Junior Jack), mentre il bootlegaro supremo Kurtis Rush ha creato uno dei suoi ibridi più riusciti cucendo insieme The Lovecats con One Minute Man di Missy Elliott. E ai concerti italiani dei Cure la scorsa estate c’erano tre generazioni di fans, e i più giovani - quelli che guarda caso conoscevano a memoria le parole di Boys Don’t Cry - non sembravano esattamente dei sopravvissuti del dark.

(da: Rolling Stone: i 50 momenti rock, dicembre 2004)