Chemical Brothers: è iniziato in Africa-ka-ka-ka...
 

di: Fabio De Luca




1. IT BEGAN IN LONDON(DON-DON-DON...)
Londra, 15 novembre 2001. Qui, come in qualunque altro angolo del mondo dove sorga un ufficio della multinazionale discografica Virgin Records, la domanda sembra essere una sola, anzi due: "Hai sentito il disco dei Chemical?" e "Cosa ne pensi?". Fa indubbiamente piacere - in questi tempi di opinioni in caduta verticale - che il proprio pensiero su un disco venga tenuta in così alta considerazione. Per le prime tre quattro volte, almeno. Poi ti si para davanti l’ombra del dubbio che ai piani alti della multinazionale discografica a qualcuno il nuovo album dei Chemical Brothers, Come With Us, non sia piaciuto fino in fondo. Che è poi la cosa che un po’ tutti abbiamo pensato dopo averlo ascoltato un numero ragionevole di volte: bello, ma non sposta di una virgola in avanti quello che i Chemicals hanno già detto e fatto nei passati nove anni. It Began In Afrika è il morphing interrotto al 75% di Hey Boy, Hey Girl e Morning Lemon; Star Guitar è Block Rockin’ Beats senza un giro di basso ugualmente memorabile; The Test è una Private Psychedelic Reel in minore. Ugualmente, non di crisi creativa si tratta. Intanto perchè Come With Us è comunque sotto tutti i punti di vista meglio (più interessante, più pieno di idee, più divertente) della quasi totalità degli album di area "dance" sentiti nell’ultimo anno. È ancora campione in carica di un campionato tutto suo, il campionato del pianeta Chemical Brothers. E poi per un’altra semplice ragione: nel momento storico (cioè della propria storia) in cui altri avrebbero tirato fuori l’immancabile greatest-hits, i Chemical escono con un album che fa le veci di un greatest-hits - nel senso di catalogare stili e modi del proprio scrivere musica e di "fare il punto" sulla situazione - senza però esserlo. E c’è ancora un ultimo fatto: i ragazzi stanno crescendo. Tom (lo spilungone dei due) dovrebbe essere diventato papà più o meno in coincidenza con l’uscita del disco. C’è evidentemente un cambiamento - o un riassestamento su nuovi parametri - in corso. Se saremo fortunati i risultati li vedremo tra uno o due anni, con il prossimo disco. Se saremo sfortunati non uscirà più nulla con il nome Chemical Brothers, o i due si separeranno, o faranno un disco brutto e noi non ce ne occuperemo. E sarà un vero peccato, perchè intervistare i Chemical Brothers è una di quelle cose che uno farebbe volentieri anche tutte le settimane ed anche gratis. Perchè averli visti dal vivo due anni fa all’Alcatraz di Milano è una di quelle esperienze che ti ha lasciato con la sensazione di aver visto dentro il buco nero che dà su un’altra dimensione spazio-cronologica. E poi perchè sono le persone più pacifiche di questo mondo, ed anche quando non manifestano la minima intenzione di condurre "seriamente" un’intervista (dieci minuti su trenta passati a dibattere il fondamentale tema: "secondo te siamo meglio di Kruder & Dorfmeister?"...) qualcosa di sensato dal loro teatrino alla Bibì & Bibò riesci comunque sempre a tirarlo fuori. Senza contare il bonus derivante dall’aver concepito e messo nero su bianco una traccia come Pioneer Skies (numero 9 su Come With Us), che sembra Reality di Richard Sanderson ma non lo è... The brothers gonna work it out.

2. "QUANTE VOLTE, FIGLIOLO?"
Ed: Quante volte hai sentito il disco?

Due volte. Probabilmente non è abbastanza, ma alla casa discografica non lasciavano uscire le copie promo per paura che il disco finisse su internet.

Tom: Ci è finito comunque...

Ed: In parte, ma alcune canzoni sono cose che non c’entrano niente con noi.

Pare che i Daft Punk prima dell’uscita del loro ultimo disco abbiano loro stessi in incognito messo in rete delle "false" tracce firmate Daft Punk per disorientare i pirati...

Tom: Ha! Lo hanno fatto veramente?

Negano di averlo fatto loro stessi, ma persone vicine a loro dicono di si...

Tom: Sono troooooppo... troppo, ecco!

Secondo voi Come With Us è un disco che ha bisogno di maggiore attenzione rispetto ai precedenti dischi?

Ed: E’ un disco nel quale devi entrare poco per volta, non riesci ad assorbirlo tutto in uno o due ascolti. Ci sono cose molto differenti tra loro: ci sono le strutture ritmiche, che sono comunque sempre il cuore di ciò che facciamo, ma ci sono anche momenti totalmente slegati dal ritmo, momenti di sublime bellezza elettrica...

Dopo quattro album sentite ancora la "pressione" dell’attesa della gente che si aspetta da voi sempre qualcosa di nuovo?

Ed: La pressione arriva soprattutto da noi due.

Tom: E’ vero.

Ed: Noi due insieme generiamo un sacco di pressione: è uno strano incrocio di frustrazione e sentimenti, ed aspettative. Quando inizi a lavorare c’è sempre questa strana sensazione, in lontananza, qualcosa che ti porta ad essere per certi versi persino disfattista, a ripeterti "stavolta non ce la possiamo fare". Ecco: quando questo sentimento raggiunge la piena consapevolezza, quando ti ritrovi davvero a chiederti se anche stavolta riuscirai a fare qualcosa all’altezza del tuo ultimo disco o dei dischi precedenti, quello è il momento in cui stai cominciando a guardare avanti, a lavorare a qualcosa di nuovo. Perchè è lì che non sei più legato a quello che hai fatto fino a quel momento, che tutto ciò che hai già raggiunto non ti basta più. Ovviamente il fatto di essere un progetto di successo ha il grande vantaggio di renderti consapevole che lì fuori c’è un’audience realmente interessata a quello che fai... poi quello che noi facciamo è essenzialmente "dance music", cioè musica pensata per funzionare con grandi quantità di persone tutte insieme - o anche piccole quantità, in realtà non fa differenza, ciò che conta è l’energia che ci metti dentro. Ma quando vedi tutte queste persone reagire in quel modo alla tua musica... beh... la sensazione che hai è che potresti davvero fare musica per sempre...

E’ buffo, perchè quello che stai descrivendo potrebbe adattarsi perfettamente a molte rock-band classiche del passato...

Tom: Questo è strettamente legato alla nostra natura, e non è assolutamente un problema. È legato al fatto ad esempio che non ci sono in giro poi così tante band di dance elettronica in grado di realizzare quattro interi album con la loro musica, e tutti di ottima qualità, o a reggere un concerto di due ore... Non so, posso dire che amiamo i dischi che abbiamo fatto fino ad adesso...

Beh, lo spero bene...

Tom: Nooooo, voglio dire che il lavoro che abbiamo svolto fino ad oggi ha probabilmente molti elementi per essere definito "classico". Quando facciamo un disco vogliamo che sia un disco... per certi versi "definitivo". Non so se definitivo rispetto a quello che altre persone stanno facendo nello stesso momento, ma di certo definitivo rispetto a noi, a quello che è il nostro lavoro. Forse questo è qualcosa che appartiene al format della musica rock...

In realtà siete una delle poche band elettroniche ad avere un forte appeal quasi "naturale" anche presso il pubblico rock. I casi non sono molti, forse solo i Prodigy e per altri versi Fatboy Slim: ma dei tre voi siete comunque quelli più elettronici, più "rave", eppure più vicini alla sensibilità del pubblico rock.

Tom: Si, è stranissimo, sembra che la gente riesca a sentire cose differenti nella nostra musica in base al mondo da cui arriva. Lo vedi anche dagli articoli che escono su di noi: se a scrivere è una rivista dance, buona parte di ciò che diranno sarà riferito a quelle determinate frequenze del nostro suono o a quelle modalità di produzione che fanno dei Chemical Brothers una cosa dance; se invece a scrivere è una rivista rock puoi stare sicuro che si soffermeranno su altri aspetti. Anche parlando con le persone di questo nuovo album, ci sono persone che lo hanno definito il più clubby tra i nostri album finora usciti, altri il più rock di tutti, altri ancora lo hanno addirittura trovato chill-out! In conclusione, sembra proprio che abbiamo raggiunto uno stadio in cui il modo in cui una persona ascolta un nostro disco è importante quasi quanto il disco stesso e come lo avevamo pensato.

La gente ascolta nel vostro disco ciò che in realtà ha già dentro di sé: sembra la formula del perfetto disco "universale"...

Tom: Credo sia qualcosa che c’era anche nei dischi precedenti, ma su cui adesso abbiamo un controllo quasi perfetto. Cioè: non sul fatto di produrre qualcosa in cui ogni persona possa trovare ciò che cerca, questo è impossibile per chiunque, ma nel senso di avere più livelli di... di "comunicazione".

E’ un qualcosa che raggiungi nel momento in cui hai definito uno stile che è realmente "tuo", e soltanto tuo?

Tom: Probabilmente si, e probabilmente un punto a nostro vantaggio è il fatto di avere un forte senso della nostra musica, sapere sempre esattamente cosa stiamo andando a fare.

Quanto spazio rimane - man mano si cresce in esperienza ed anche in età anagrafica - all’istinto ed all’improvvisazione in sala di registrazione?

Ed: Realizzare un disco è sempre un processo estremamente istintivo. Sei in studio, crei qualcosa, poi quel qualcosa si evolve e diventa qualcosa d’altro, e tutto ciò non ha molto a che fare con la pianificazione o sedersi attorno a un tavolo a discutere. Sei tu di fronte allo schermo di un computer che provi, riprovi, fai degli esperimenti su come girano dei groove, dei suoni... La creazione di una traccia è qualcosa che succede, sulla base di quello che hai costruito prima, che hai caricato sul computer: ma non puoi decidere a tavolino come verrà fuori, devi solo lavorarci ed aspettare i risultati. In questo senso ciò che funziona di più è l’istinto.

Tom: Anche se può sembrare in contrasto con quello che ti ho detto qualche minuto fa, in effetti la forza di cominciare a lavorare ad un disco nuovo è che non sai fino in fondo dove andrai a finire...

Ed: Esatto. E’ un viaggio.

...Però arriverà un momento in cui vi fermate a guardare quello che avete fatto fino a quel momento e...

Tom: ...E’ il momento in cui diciamo is it what it is?, "ci siamo? è così che deve essere?".

Ed: Specialmente negli ultimi due dischi il lavoro è stato prima mesi e mesi passati ad accumulare e registrare, poi stringere, concretizzare questi mesi di lavoro dentro un’ora di disco. La riuscita del lavoro è quanto del disco che avevi in testa e sparso nelle ore di registrazione riesci a catturare dentro i settanta minuti finali.



3. FRATELLI DI PENNA
Quando scrivete una ballata tipo The State We’re In, per "spiegarla" ad esempio a Beth Orton che poi la canterà, dovete a vostra volta, ehm..., cantargliela?

Tom: Oh siiiii...

Ed: C’era una versione segreta di The State We’re In con Tom alla voce che valeva milioni: purtroppo qualcuno l’ha messa in rete e adesso non vale più nulla...

Tom: L’ho messa io su internet, per uccidere le speculazioni. E poi non ho nulla da nascondere sul mio modo di cantare!

Qual’è il modello, la "ballata" archetipa che avete in mente quando scrivete un pezzo come The State We’re In?

Tom: Uuuuuhmm, direi Pale Blue Eyes dei Velvet Underground.

E’ la ballata assoluta?

Tom: Beh, è una splendida canzone. Non è che ogni volta cerchiamo di scrivere una canzone come quella, però Pale Blue Eyes è un forte punto di riferimento.

Per contro dentro Come With Us ci sono derivazioni per così dire "disco-music" come Denmark, o Galaxy Bounce...

Tom: Assolutamente

Ed: Disco-music, acid-house, techno...

Tom: ...it’s one family under a groove!

Ed: Arrivano tutte, tchh-tchh... [fa un rumore di percussioni e colpisce a tempo la coscia con indice e medio. ndr], capito?, tutte dalla stessa origine, il battito del tamburo.

E’ per questo che "It Began In Africa"?

Tom: Yeahhhh... it began in afrika-ka-ka-ka-ka-ka......

A proposito: il campione della voce lo avete preso da quel remix di Norman Cook...

Ed: No, no, abbiamo scoperto dopo che lo aveva usato anche lui.

Tom: Cosa?!? Sta su un disco di Norman Cook?!?

Su un remix che lui ha fatto nel 1998 per la Urban [fra l’altro recentemente ristampato sulla b-side di una white-label intitolata Shaft In Africa. ndr]. Anzi, più che un remix in realtà è una specie di cut-up tra I Believe In Miracles delle Jackson Sisters e Cross The Tracks di Maceo & The Macks, che si apre appunto con il campione di voce che avete usato anche voi...

Tom: Cioè, ABBIAMO USATO UN CAMPIONE CHE NORMAN COOK AVEVA GIA’ USATO?!?!

Ed: Te lo avevo detto, solo che te ne sei dimenticato. Del resto anch’io mi ero completamente dimenticato di quel disco...

Tom: CIOE’: CI DIRANNO CHE ABBIAMO USATO UN CAMPIONE DI NORMAN COOK?!?

Ed: Guarda al lato buffo della faccenda: per la prima volta nella storia potrà dire che lo abbiamo copiato, e non viceversa...

Tom: E’ veeeeerooooo... UARGH, UARGH, UARGH!!!

Ed: Comunque, tanto per essere precisi: il campione originale viene da un disco di spoken-word degli anni Ottanta, che è stato usato anche dai Jungle Brothers. Poi - ma è successo proprio un paio di giorni fa - guardando tra i miei vecchi dischi ho trovato questo remix di Norman Cook intitolato It Began In Africa: l’ho messo su e... non ci potevo credere. Avevo il disco, ma non mi ricordavo assolutamente che anche lui avesse usato il campione...

Tom: Ma noi ci abbiamo messo il "ka-ka-ka-ka-ka..." in fondo: è quello che rende grande il pezzo...

E gli archi del pezzo di apertura, Come With Us?

Tom: E’ un campionamento da una band chiamata The Evidence, una cosa funky-disco di qualche anno fa. E’ un perfetto inizio per il disco, vero?

E’ anche il classico pezzo perfetto per aprire un dj-set, se è per quello...

Tom: Siii, l’abbiamo provato. Mmmhhh, funziona che è una meraviglia. La stanza buia, piena di gente, sale il pezzo e... BOOM! tutto esplode...

Il solo problema con i pezzi perfetti per aprire un dj-set è che poi devi trovare un pezzo altrettanto valido come secondo, altrimenti la tensione cala e la gente capisce il trucco...

Tom: Abbiamo anche quello, abbiamo anche quello...

Oh, per favore, ditemi...

Tom: ...Song To The Siren dei Chemical Brothers.

Quella con la voce che fa "WAAAH-OH-WAH-OH-WAH-OH-WAH-WAAAAAAH"...?

Ed: Ecco, esatto. Quella.

Quindi la versione 12", che in effetti era molto meglio di quella che poi è finita su Exit Planet Dust.

Ed: Non era meglio, erano due cose diverse...

Tom: In effetti ci siamo accorti che il pezzo migliore da mettere dopo il pezzo di apertura del nostro ultimo disco era un pezzo che è uscito addirittura prima del nostro primo disco. Vorrà dire qualcosa?!?

Questo è un punto interessante, perchè è fin troppo scontato dire quant’è bello e quant’è super-prodotto Come With Us, ma il vero mistero è: come accidenti siate riusciti - nel 1992, sconosciuti, esordienti, poco più che ventenni - a tirar fuori un disco come Exit Planet Dust che ancora oggi lo ascolti e suona... WOW, suona!

Tom: Già, e pensare che è stato mixato nella mia camera da letto... almeno Song To The Siren. Ma è vero, dimostra che contano le idee più che il costo degli strumenti che usi. In un certo senso mi piacerebbe che le cose ci venissero ancora così... spontaneamente, con la facilità con cui ci venivano allora.

Non mi dire: è già tempo di cedere alla nostalgia?

Tom: No, non è un punto di vista nostalgico. O per lo meno non ho nostalgia di registrare i dischi in camera da letto.

Ed: E’ nostalgico nella misura in cui lo può essere guardarsi indietro ed essere orgogliosi di quello che si è fatto.

Vi conoscete e lavorate insieme praticamente da una vita: secondo voi è ancora possibile tracciare una differenza precisa tra voi due sia nel lavoro in studio che come djs?

Ed: Come djs io preferisco quei dischi in cui non succede molto tra l’inizio e la fine, lui gli altri.

Tom: Ma in realtà spesso succede che ognuno suoni i dischi dell’altro...

Ed: Credo sia perchè ci piace mischiare le cose, e perchè in genere mettiamo due o tre dischi per uno. Se in due ore di set decidessimo di fare un’ora ciascuno probabilmente quello che ne verrebbe fuori sarebbe differente, ma anche meno divertente, almeno per noi...

(da: Rumore, gennaio 2002)