Bob Marley: la leggenda del santo fumatore
 

di: Fabio De Luca




Chi non ama Bob Marley e la sua musica? Chi non adora riascoltare per la milionesima volta Get Up Stand Up o No Woman No Cry? Nessuno, è ovvio. Il sound del padre del reggae e la sua potenza iconografica (degna di un Che Guevara africano come ha osservato più di un biografo) sono una di quelle cose che appartengono di default al bagaglio di chiunque abbia anche casualmente, anche distrattamente frequentato la cultura pop "antagonista" degli ultimi trent’anni. Quello che è certo è che ogni pretesto è buono per ricordare Marley e tirare fuori qualche vecchio disco. E la prossima occasione è proprio lì dietro l’angolo: l’undici maggio saranno 25 anni dalla sua morte. Ricorrenza macabra, considerando che la dipartita di Marley da questo mondo non fu esattamente una pacifica e gioiosa assunzione al cielo, ma una dolorosa lotta contro un male incurabile. D’altro canto i sessant’anni dalla nascita già ce li eravamo giocati nel febbraio 2005, dunque non rimaneva molto da scegliere. Ci sarebbe in realtà un’altra ricorrenza, meno ufficiale e soprattutto non multipla di cinque (quindi un po’ meno autorevole sotto il profilo della "ricorrenza"): il 27 giugno prossimo fanno ventisei anni dal concerto di Bob Marley allo stadio San Siro di Milano.

Il concerto di Marley a San Siro fu uno di quei momenti che rischiano veramente di dividere la storia in un "prima" e un "dopo". Pura leggenda, puro regno dell’anedottica da reduce. Per i 100.000 italiani (più qualche svizzero) che quella sera d’estate del 1980 erano lì, è probabilmente anche l’unico anniversario marleyano plausibile. "Sono un miracolato a Milano. Sono uno di quei 100.000 che stavano a San Siro il 27 giugno dell’ottanta" scrive sul suo blog un ignoto nostalgico che a occhio oggi avrà attorno ai cinquant’anni. "Ricordo che cantai No Woman No Cry con le lacrime agli occhi e a squarciagola. Tutti cantavamo e ballavamo, tutti ci sentivamo amici e fratelli. Marley sembrava cantasse solo per te, ma allo stesso tempo anche per gli altri migliaia. Roteava la testa e sembrava che da ogni suo ciuffo crespo si sprigionassero scariche elettriche che ti colpivano al petto facendoti dondolare su un piede solo, come lui sul palco". Un clichè marleyano? Certo, esattamente come le "buone vibrazioni" o "le nuvole di fumo di marijuana" che anche senza averne letto uno si immagina (senza sbagliarsi di troppo) levarsi dal prato di San Siro. Ma a rileggere memorabilia come questi si capisce anche quanto dietro il cliché c’era davvero "qualcosa" - il carisma di Marley, la condivisione di una esperienza collettiva comunque strordinaria - e quanto quel qualcosa sia entrato nel dna di chi ha ascoltato la musica di Marley con Marley ancora vivo.

E si capisce anche quanto Marley e il reggae rappresentino, caso abbastanza unico, paragonabile forse solo ai Beatles ed agli Stones, una continuità generazionale che si è riprodotta senza strappi. Perché una No Woman No Cry "con le lacrime agli occhi e a squarciagola" l’hanno cantata in molti, anche anni dopo la morte di Marley. Anche oggi: magari - alla Nanni Moretti - in macchina, recuperata da qualche vecchia cassetta in fondo al vano porta oggetti; magari suonata da qualche imbarazzante cover band tra Sweet Home Chicago e Certe notti di Ligabue. Una No Woman No Cry - ma forse anche più d’una - sarà sicuramente risuonata in ognuna delle undici edizioni del "Rototom Sunsplash", il festival che ogni anno per circa una settimana a luglio raccoglie nella campagna fuori Udine qualcosa come 200.000 appassionati di reggae da tutta Europa, ed il cui nome "deriva dall’usanza di protrarre lo spettacolo fino a quando il sole fa "splash", ovvero schizza fuori dal mare per inaugurare il nuovo giorno". Parecchie No Woman No Cry (o forse era Get Up Stand Up) pare di ricordarle uscire pure dai sound-system che accompagnavano le feste di strada della "Pantera" studentesca del 1990, riconsegnando il reggae e più in generale "il ballo" ad un ruolo anche politico, intuizione che di lì a poco avrebbero percorso in maniera esplicita gruppi come i 99 Posse e tutto il primissimo rap italiano (in un fil-rouge che arriva fino a molte band "ska" di oggi), e in maniera più allusiva altri come Africa Unite o Sud Sound System.

Del resto: Bob Marley come Che Guevara, si diceva. Un’icona superficiale suo malgrado che però, accidenti, funziona. Un’icona che come tutte le migliori icone appena la vedi ricostruisce subito un intero mondo di significati condivisi. Esattamente come i capelli "rasta": quei dreadlocks meravigliosamente consegnati alla storia del cinema da Marco Cocci - il rasta figlio di papà in Ovosodo di Virzì - in tutta la loro ambigua valenza di scelta estetica "contro" ma anche di moda burina, totalmente slegata dalle motivazioni storiche originali (il precetto biblico, contenuto nel libro del Levitico, che prescriveva ai sacerdoti rasta di non tagliarsi i capelli in segno di rispetto alla divinità). Il lascito di Marley, la sua eredità, sono anche in queste piccole cose. Anche se - un po’ a sorpresa, va detto - la figura che più di ogni altra negli ultimi anni sembra averne raccolto l’eredità spirituale e materiale è la vedova, Rita Marley. Ad esempio è lei che lo scorso anno ha lottato con successo perché i resti dell’ex-marito venissero esumati in Giamaica e quindi seppelliti in Etiopia (come da sogno rastafari di un "ritorno all’Africa" di tutti i neri). La storia tra loro fu in realtà piuttosto controversa, ed è Rita stessa ad averla raccontata in un libro uscito due anni fa, No Woman No Cry: My Life with Bob Marley. Sposati nel 1966 e di fatto rimasti insieme fino alla morte di lui, i due hanno avuto una relazione nel migliore dei casi "discontinua". Addirittura, ricorda Rita, agli inizi del successo internazionale un discografico consigliò a Bob di mantenere "un basso profilo" sulla questione del matrimonio, per non "danneggiare l’immagine" presso le fan... Risultato: dei dodici figli "ufficiali" di Bob Marley solo tre sono figli anche di Rita: gli altri arrivano dall’unione di Marley con altre donne (e due - comunque riconosciuti da Bob - dall’unione di Rita con altri uomini). E in uno strano caso di gossip post-mortem, circa un anno fa è venuta fuori pure la storia, troppo incredibile per non essere vera, di una breve relazione - una settimana appena, una settimana di passione in un hotel di New York sul finire degli anni Settanta - tra Bob Marley e la super-editore-capo di Vogue Usa, Anna Wintour. Almeno in questo caso, però, nessun bebè coi dreadlocks ha reclamato paternità eccellenti.

(da: Io Donna, 29 aprile 2006)