Tattoo You: quando la musica ti si attacca alla pelle
 

di: Fabio De Luca




A discutere di tatuaggi e musica si ha una e una sola certezza: quella di finire col dire delle banalità. Sia che uno la prenda alta - e ragioni di naturale intersezione di due sottoculture unite dal bisogno di segni di riconoscimento forti (dico per dire: in realtà pagine di un certo spessore sul senso arcaico dei tatuaggi e come questo riverberi nelle sottoculture del dopoguerra lo trovate sul classico Sottoculture: il fascino di uno stile innaturale di Dick Hebdige) - sia che uno la prenda bassa, e si limiti a fare la conta delle molte star che hanno decorato in maniera più o meno indelebile il proprio corpicino. Perchè è vero che c’è più di un segnale a indicare come i due mondi - quello della musica, specie se "rock" in qualunque sua variante, e quello dei tatuaggi - abbiano numerosi punti di contatto, ma allora anche la birra, e perchè allora non fare un pezzo su musica e birra? (ops, meglio non dirlo troppo forte, o il mese prossimo...).

Breve riflessione preliminare. Il tatuaggio segna in genere un’appartenenza profonda e (si presume) duratura a qualcosa: uno stile, un linguaggio, un ideale. Quando rimanda a gruppi o simboli della scena musicale, il senso di apparenenza diventa atto di fede o addirittura vera e propria scelta di vita, anche in virtù dell’indelebilità del tatuaggio (contrapposta alla volubilità che è in genere, invece, connaturata ai gusti musicali). Inoltre, trattandosi alla fine dei conti di un "logo", il tatuaggio scopre con molto anticipo qualcosa che per noi è ormai esperienza quotidiana: la possibilità di veicolare messaggi anche articolati e complessi attraverso piccoli segni visivi immediatamente riconoscibili e facilmente decodificabili. Se ti tatui la mortecicca coi capelli fiammeggianti degli Exploited (un tatuaggio bicolore, nero e rosso, abbastanza in voga negli anni passati tra i teenager punk-estremisti americani nonostante l’ormai veneranda età anagrafica della band) è probabile che le vecchiette si scansino al tuo passaggio, ed è probabile che al di là del "riconoscersi" con gli altri fan degli Exploited fosse proprio quello l’effetto che volevi ottenere. Se invece, come il mio amico Nonci, scegli di decorare il tuo bicipite destro con la supernova che stava nella copertina interna di Marquee Moon dei Television, il novantanove per cento delle persone che incontrerai vedrà solo una patacca gialla fatta a spirale: ma con quell’uno per cento che invece coglierà la citazione saprai istantaneamente di poter condividere un mondo che non è solo estetico o di raffinati ascolti musicali...

Ci sono ovviamente dei "logo" che ricorrono più spesso di altri sulla pelle, e che anche per questo - cioè per la loro semplicità ed efficacia - hanno assunto con il tempo un significato speciale per chi decide di fregiarsene. I due universalmente più diffusi li si ritrova, inevitabilmente, in mezzo ad una babele di ragni, teschi ed altri segni, sul corpo del modello inarrivabile per chi coniuga l’interesse per il rock con quello per i tatuaggi: Henry Rollins. Vocalist nella prima metà degli anni Ottanta con i Black Flag - capostipiti della scena punk-harcore "impegnata" losangelena - e poi da solo con la Rollins Band, Henry Rollins è una delle figure più intense e dolorose, e al tempo stesso energetiche e politicamente interessanti, prodotte dalla gloriosa stagione dell’hardcore statunitense. Sul corpo di Rollins - che nelle interviste parla di tutto, ma pare non ami dare spiegazioni sul significato dei propri tatuaggi - spicca il semplicissimo e geniale logo dei Black Flag: quattro bande nere verticali leggermente sfalsate l’una rispetto all’altra che - mi ha spiegato sempre il mio amico Nonci, che non si è fatto mancare nemmeno quella - altro non è se non il disegno stilizzato di una bandiera nera che sventola mossa dal vento... Raramente il rock ha prodotto un logo di maggiore eleganza e capacità evocativa (anche se non conosci i Black Flag e la loro musica): siamo sullo stesso livello dello swoosh della Nike, per dire, anche se le implicazioni di marketing sono evidentemente differenti.

Comunque: la bandiera nera dei Black Flag in materia di tatuaggi è ormai un "classico", un simbolo che resiste - negli anni - sulla pelle di un sacco di gente. Come pure un altro logo piuttosto noto, anche questo presente sul corpo di Henry Rollins: l’omino stilizzato con un punto al centro del cerchio che gli fa da testa. Il disegno a quanto pare riprende una pittura rupestre preistorica (un geroglifico "olmec" o "toltec", si scopre facendo due ricerche in internet), ed è stato adottato a partire dalla prima metà degli anni Ottanta dal collettivo "industrial" berlinese Einsturzende Neubauten, quelli la cui strumentazione live - per un breve ma intenso periodo - comprendeva anche martelli pneumatici e seghe circolari. Per estensione, l’azzeccatissimo omino divenne in breve simbolo ufficiale e tatuaggio d’elezione di tutta la generazione industriale, superando di gran lunga l’altro logo allora di moda tra gli industrialisti più vicini all’esoterismo: il teschio con la croce a tre braccia simbolo degli Psychic TV e del Tempio della Gioventù Psichica di Genesis P.Orridge (e non dimentichiamoci pure - è proprio roba da cultori - il fulmine dei Throbbing Gristle, precedente incarnazione rumorista di Orridge: pure quello capita ancora di vederlo su qualche avambraccio).

Uno dice: ma allora sono solo il punk, il metal o l’elettronica industriale ad aver lasciato il segno nel mondo dei tatuaggi? In realtà pare proprio di no. Un gruppo (non-tatuato!) che gode di un incredibile ed in certa misura inspiegabile culto all’interno di certe frange della comunità dei tatuati (in realtà spiegabile, trattandosi di derive "emo" della comunità originariamente hardcore) sono ad esempio The Smiths. Senza andare tanto lontano, guardate il bassista dei torinesi Disco Drive, Andrea: all’interno dell’avambraccio destro ha una grossa scritta in caratteri gotici "handsome devil" (come la canzone omonima che sta su Hatful Of Hollow). E molti altri tatuaggi in tema - non belli e difinitivi come quello di Andrea, va detto - li trovate in una pagina dedicata del sito indie-porn irlandese supercult.com (il cui webmaster Chase Lisbon compariva anche nel videoclip di Irish Blood, English Heart di Morrissey). Ah, e se non l’avete mai fatto, magari buttate anche un orecchio all’album dei Rolling Stones che da il titolo a quest’articolo: tranne il titolo e la copertina in stile Panorama/Espresso non c’entra niente col tema qui dibattuto, ma Start Me Up non si discute...

(da: Hot, luglio 2005)