The Rapture: punk, funk, moda & modelle
 

di: Fabio De Luca




Milano, fine giugno 2003. Chi è quella top-model che parla alle telecamere del TG5? Non si sa. E comunque non è con lei che abbiamo appuntamento: il nostro appuntamento delle 14.30 è con il gruppo del momento, quello del cui nome tutti - da un anno a questa parte - si stanno riempiendo la bocca. Raramente il termine "hype" ha avuto più appropriata declinazione che nel caso dei Rapture. Una prima fase post-grunge (incluso un album per Sub Pop) passata meno che inosservata; un singolo (House Of Jealous Lovers) che un anno e mezzo fa ha lasciato tutti con la bocca spalancata per quant’era visceralmente punk-rock ma al tempo stesso "permeabile" alla lezione ritmica di house, disco e funk. Quindi l’inizio del processo di santificazione mediatica, che li sbatte in prima pagina ancor prima di aver ascoltato una singola nota del misterioso e pluri-rimandato "nuovo album". Tutto torna: The Rapture sono a Milano per uno showcase all’interno della sfilata per la collezione autunno inverno DKNY Jeans di Donna Karan. Vengono fuori uno dopo l’altro tutti i peggiori incubi legati al fashion-business che fagocita alla Mars Attack tutti "i nostri eroi" indie-rock. Anche se probabilmente non è davvero il caso. Pur trasudando fashion, Vito Roccoforte (batteria: frangetta e caschetto nero) e Luke Jenner (voce e chitarra: un Roger Daltrey appena tornato da un viaggio di sei mesi in India) non sembrano banderuole al vento. Non sono fuffa, nè sono un’invenzione della molto modaiola etichetta che li ha (ri)lanciati, la newyorkese DFA. Hanno persino - incredibile! - una "storia" da raccontare...

Vito Roccoforte. Io e Luke siamo cresciuti insieme vicino a San Diego, poi ci siamo spostati a San Francisco per il college. E’ così che la band è nata. Quando il bassista originale si è sposato, per un periodo siamo andati avanti senza basso. Il nuovo bassista Matt Safer lo abbiamo trovato a New York anche se in realtà lui è di Washington DC. Come Gabe Andreuzzi, che è cugino di Matt e suona le tastiere, il sassofono e le percussioni...

Siete talmente perfetti come band, ed arrivati così perfettamente "oggi" che quasi viene il dubbio che qualcuno si sia messo attorno a un tavolo per inventarvi... Invece si sa che avete un passato, ad esempio avete inciso un album per Sub Pop. Però, ugualmente, la cosa di cui quasi tutti sono convinti è che ad esempio siano stati quelli della DFA a convincervi ad andare a vivere a New York dopo aver sentito i vostri demo e dopo aver intuito le potenzialità che c’erano in voi...

Luke Jenner. No, assolutamente no. Eravamo in tour, abbiamo suonato a New York, abbiamo deciso di fermarci lì. Quelli della DFA li abbiamo conosciuti dopo.

Vito Roccoforte. E la ragione per cui abbiamo deciso di stabilirci a New York non ha nulla a che fare con quello che sarebbe successo dopo. Ci piaceva New York, ci piaceva l’idea di vivere a New York. È da quando eravamo bambini che sognavamo di vivere in una vera grande città. San Francisco era grande, ma non è quello che io intendo con "grande" città: è ancora troppo South California. New York è una grande città. Lo so, è da provinciali, ma alla fine noi siamo dei provinciali...

Luke Jenner. L’idea che ci sia un progetto dietro The Rapture serve solo ad avere titoli di giornali da mettere in rassegna stampa.

Vito Roccoforte. Magari ci fosse stato un progetto chiaro sin dall’inizio: sarebbe stato tutto più semplice...


Semplice, invece, la vicenda umana & artistica dei Rapture non lo è stata per nulla. Ok, ci sarà pure del romanzato in come loro la raccontano, ad esempio i mesi in cui sostengono di aver vissuto "in una roulotte sotto il ponte di Brooklyn, perchè non potevamo permetterci niente di più". Certo è che di biglietti con la faccia di George Washington non ne devono essere circolati molti nelle tasche dei Rapture; nemmeno quando, verso la fine del 1999, James Murphy (che poco dopo avrebbe fondato l’etichetta DFA insieme a Tim Goldsworthy) non è andato a vederli suonare in uno sfigato club chiamato Brownies in quello che passerà alla storia come il giorno che ha cambiato il corso della loro vita. "Soprattutto", ricorda Vito, "perchè da quel giorno abbiamo lasciato la roulotte sotto il Brooklyn Bridge e ci siamo trasferiti sul divano a casa di Murphy". Segue un lungo periodo durante il quale buona parte delle loro giornate viene spesa ascoltando musica (della più diversa) e buttando giù idee nello studio della DFA. Spunta l’idea di registrare un album di impronta più tradizionalmente rock e di affiancargli un secondo disco di remix. La Sub Pop però, con la quale i Rapture hanno ancora un contratto, risponde picche. Si decide allora di fare le cose a modo proprio. "L’ultimo EP che abbiamo registrato per Sub Pop", ricorda Luke, "in pratica lo abbiamo pagato noi, e in questo modo abbiamo di comune accordo considerato chiuso il contratto che ci legava a loro". Da questo momento DFA diventa il referente unico, artistico e commerciale, del progetto Rapture. Ma ancora il mondo non sembra essere pronto per loro. "Quando abbiamo registrato House Of Jealous Lovers ed alla DFA hanno provato a vendere in giro la licenza", racconta sempre Vito, "nessuno sembrava interessato ad una punk-band che usava delle ritmiche house. Così si è deciso di coinvolgere Morgan Geist e di fargli fare un remix. Unicamente per avere credibilità nei circuiti dell’elettronica...". Questa mossa genera però un imprevisto effetto domino proprio all’interno della band stessa. "Il remix di Morgan Geist ci ha influenzato oltre ogni previsione" aggiunge Luke. "Morgan ha utilizzato gli stessi elementi della traccia originale evidenziandone alcuni e nascondendone altri,e questo ci ha aperto la mente a come un pezzo possa essere "guardato" da un altro punto d’osservazione!". Al punto che adesso una traccia come Sub Killing nasce, ad esempio, da una canzone già registrata e finita di cui la band - non completamente soddisfatta - ha salvato solo le ultime quattro battute, le ha messe in loop e ci ha appiccicato sopra i vocals originali... "Questo è quello che intendiamo quando parliamo di trovare nuovi modi di usare la musica!".

Vi ha creato problemi tutta l’attenzione che si è condensata su di voi nell’ultimo anno, prima ancora di riuscire a pubblicare un album che indicasse con precisione cosa avevate in mente?

Vito Roccoforte. Se penso a tutto il tempo in cui a nessuno fregava nulla di quello che stavamo facendo... è stato facilissimo abituarsi a tutta quest’attenzione!

Luke Jenner. Siamo in giro da diverso tempo. Abbiamo avuto il tempo di vivere nell’oscurità: adesso ci interessa essere presi in considerazione, ci interessa che le persone ci vengano a sentire suonare, ci interessa il giudizio della gente.

Vito Roccoforte. Abbiamo vissuto entrambe le situazioni, l’oscurità e l’hype. Siamo stati dall’altra parte prima di essere qua, e neanche lì è tutto semplice. Il punto è che c’è una ragione per tutto: ogni cosa a suo tempo.

Riuscite a riassumere tutta la musica che avete ascoltato nelle diverse fasi da quando eravate ragazzini ad oggi, ed in che modo questa musica ascoltata è "diventata" The Rapture?

Luke Jenner. Ovviamente arriviamo da un retroterra "indie", anche se ci sono sempre piaciuta la dance in qualsiasi forma. In questo probabilmente siamo diversi dalla maggior parte delle altre indie-bands.

Vito Roccoforte. Rimanere legati sempre agli stessi valori alla lunga rischia di diventare noioso.

Luke Jenner. La musica più interessante che c’è in giro oggi è l’hip-hop commerciale, perchè riesce ad essere credibile dal punto di vista della produzione ed al tempo stesso a parlare ad un pubblico enorme. La cosa veramente strana è questa: l’hip-hop è in giro da una vita, e il suo momento di maggiore successo è anche quello in cui stanno uscendo le cose più interessanti. La ragione è che l’hip-hop si è evoluto nel corso di un lungo periodo di tempo, e il pubblico in tutto il mondo ha evoluto il proprio gusto man mano che l’hip-hop si evolveva, così oggi l’hip-hop può essere commerciale pur essendo "di ricerca", senza dover abbassare i propri standard per incontrare quelli del pubblico. È la stessa cosa che succedeva negli anni Settanta con il rock: pensa a David Bowie...

Ok, ma qualche nome? A me ad esempio la prima volta che ho sentito House Of Jealous Lovers sono venuti in mente i Television...

Luke Jenner. Sono un po’ come i Grateful Dead, con quei lunghi assoli di chitarra...

Sono più "moderni"...

Luke Jenner. Beh, quando io li ho scoperti avevo ventidue anni e il CBGBs era chiuso già da tempo: per me appartengono alla storia, esattamente come i Grateful Dead. Non ho idea del contesto in cui sono vissuti.

Molti stanno cercando di creare una sorta di "genealogia" che parte da loro ed arriva oggi fino a voi...

Luke Jenner. Il punto è che rispetto a loro noi stiamo avendo MOLTO più successo. Bands come Television e Suicide sono partite con l’intenzione di essere bands di successo... avevano contratti con etichette grosse e tutto il resto: semplicemente non ce l’hanno fatta, a sfondare.

Ne riparliamo tra vent’anni, ok? In ogni caso: è difficile ignorare come il tuo modo di cantare abbia evidenti radici nel passato: Tom Verlaine dei Television, ma anche James Chance... Quello che vorrei capire è se si tratta di una coincidenza oppure hai realmente dei maestri "antichi" a cui ti rifai...

Luke Jenner. Mmmh, è una combinazione di entrambe le cose. Capita spesso che persone diverse riconoscano cose differenti nella nostra musica o nel mio modo di cantare, quindi... non so, è probabile che qualcosa di tutto ciò che ho ascoltato mi sia rimasto attaccato.

Vito Roccoforte. Ho letto un’intervista con James Chance, di recente. Diceva di ignorare completamente se ci fossero delle nuove bands interessanti a New York. Diceva di essere rimasto fuori dal giro e che non aveva veramente nessuna idea di quello che stava succedendo in città. Che dici: forse dovremmo mandargli il nostro disco?!?


Qualche ora più tardi: un gigantesco deposito municipale dei tram dalle parti di Lambrate, ovviamente svuotato dei tram medesimi. Nelle scanalature delle rotaie che dall’ingresso portano fino a dietro, nell’hangar principale, qualcuno (e non qualcuno a caso: qualcuno che sul libro paga di Donna Karan comparirà come minimo con la qualifica di environment stylist) ha collocato dei tubicini luminosi tipo quelli che si trovano sotto Natale nei negozi di elettricità. L’effetto è semplice ma suggestivo. Dentro poca gente (per gli standard delle feste milanesi della moda). Camerieri in T-shirt offrono micro-cartocci di patatine fritte e piccoli hot-dog, che nelle intenzioni del food-designer di Donna Karan dovrebbero probabilmente evocare una qualche ambientazione american white-trash. In realtà è tutto molto euro-chic: la colonna sonora jazz-lounge-brazil, gli effetti video sulla grande parete interamente ricoperta di tendaggi bianchi, i fiumi di gin-tonic in uscita dai due open-bar... E i Rapture? Sono nel loro camerino, un cubicolo bianco sovrastato da un rumoroso ventilatore industriale. Sono lì da soli, stravaccati, che bevono e chiacchierano. Di modelle nemmeno l’ombra. Chi immaginava storie licenziose di rockers e mannequin deve velocemente ricredersi: i due mondi, strano ma vero, si sfiorano ma non si toccano. Chiediamo a Vito se oltre ai pezzi del nuovo album The Rapture abbiano in repertorio anche cover di altri artisti. "Non stasera", dice, "perchè stasera ci lasciano suonare solo trenta minuti. Altrimenti si, facciamo Louie Louie, e Dumb Waiters degli Psychedelic Furs: abbiamo il sassofonista appositamente per quella".

Si accendono le luci. Sipario e applausi. Dal palco arrivano accordi elettrici e nervosi. La passerella, che è a livello terra, occupa una buona metà dello spazio. Solite falcate marziali e imbronciate. Solite felpe tagliate alte sull’ombelico e tute da benzinaio effetto "vintage". Alcuni capi carini, in verità. Le T-shirts nere "New York" ad esempio, molto "electroclash", che devono essere il gadget stagionale di DKNY (con gioia ne troveremo una nel package "per la stampa" consegnato all’uscita!). La gente siede ai bordi, su semplici panche di legno o direttamente per terra. All’altra estremità c’è il palco, basso come la passerella, da cui escono modelle & modelli dietro i quali si delineano le sagome dei Rapture. Ancora oltre, sullo sfondo, l’hangar. Lunghissimo. Vuoto. Spettrale. Sobriamente illuminato da piccoli spot blu e arancioni. L’effetto è lugubre ma affascinante: sembra un po’ la sala turbine della Tate Gallery a Londra, e riesce a evitare persino la prevedibile retorica trombona sul decor post-industriale e sullo street-style che vampirizza i luoghi urbani del lavoro "materiale". Su tutto aleggiano i Rapture, il cui suono caotico e disarticolato sembra veramente il suono della fine del mondo. E’ strano quanto poco diano l’idea di "gruppo" a vederli sul palco: sono come quattro figurine ritagliate su uno sfondo bianco, ciascuna facente storia a sé, senza nessuna relazione con le altre. Non sono particolarmente energetici, nè particolarmente disperati. Sono apatici, pur nel loro modo caotico di esserlo. Però hanno indubbiamente qualcosa di strano e di speciale: un nervosismo di fondo che ti risale dal pavimento sú per i talloni e le cosce, e non ti lascia staccare gli occhi dal palco. Finisce la sfilata: adesso ci si può avvicinare fin sotto il palco in una buffa imitazione della classica "transenna secca" da concerto rock (ovviamente non c’è nessuna transenna: noi siamo qui e loro un metro più in là). Sono molto più "Clash" ed al tempo stesso molto più oscuri che su disco. Sono lisergici, dilatati. Il modo in cui il sax aggredisce basso e chitarra è pura vertigine. E sono rock’n’roll, certo. E funk, in quel loro modo spigoloso che li ha fatti istantaneamente diventare il nome di riferimento di tutto il revival punk-funk. Quando sul finale attaccano House Of Jealous Lovers, introdotta dall’inconfondibile staccato di campanacci, capisci perchè è un anno che in giro non si parla che di loro. Il mistero è come riescano a tenere insieme l’aspetto oscuro e quello funk. Perchè è vero: a sentirli (ed ancor più a vederli) vengono in mente i Cure e vengono in mente i Joy Division. Ma c’è dell’altro, MOLTO altro: solo che è talmente metabolizzato da renderne difficile l’identificazione. Qualche ottuagenario in platea tira fuori il nome di Martha & The Muffins, sfigatissima band canadese dei primi Ottanta che a suo tempo tentò, con seguito di culto, la stessa commistione tra dark e funk che oggi rivive nei Rapture.
Mezz’ora dopo, di nuovo nel backstage, Vito accenna un sorriso. Quando Martha & The Muffins incidevano il loro unico hit-single, Echo Beach, lui aveva da poco imparato a fare la pipì nel vasino. "So chi sono", dice, "ma non credo che nessuno di noi abbia mai sentito un loro disco". Poi ci pensa un attimo. "E sai una cosa?", aggiunge: "non credo proprio che vorremmo rimanere un gruppo di culto, un gruppo di cui tra vent’anni ci si ricorda a malapena il nome!". Lo dice ridendo: ma è ovvio che è esattamente questa l’intenzione dei Rapture...

(da: Rumore, settembre 2003)