Discoinferno: i dieci anni che cambiarono il clubbing a New York
 

di: Fabio De Luca




La Cappa Mazzoniana è esattamente quel che il nome suggerisce: la cappa di un camino. Sta in un braccio fino a poco tempo fa abbandonato della Stazione Terimini di Roma, lì dove una volta, secoli prima della "Ristorazione che Viaggia" e dei suoi panini di cartongesso, c’era un forno e si cuoceva il pane. Ora è un open-space adibito a mostre ed attività sociali varie ed eventuali. Stasera ad esempio c’è una festa: e adesso, che è più o meno ora di pranzo, è tutto un viavai di elettricisti, light-designers e gente che gonfia palloncini gialli. Non solo, però. Lì in un angolo buio c’è anche il dj. Che un dj si faccia vedere nel luogo dove suonerà i dischi con dodici ore d’anticipo non è esattamente una cosa consueta. Ma del resto David Mancuso non è uno consueto. Non lo è mai stato. Per i dj con un po’ di coscienza del proprio mestiere David Mancuso è una specie di figura paterna. È l’uomo che nella New York di inizio anni Settanta ha - senza volerlo fare - inventato da zero il mestiere di dj e la nozione stessa di "club". Lo guardi: massiccio, con una enorme camicia a quadri color vino fuori dai pantaloni. Non sapessi che è lui potrebbe sembrare uno degli elettricisti. Anzi no: lo sguardo è uno strano misto di vivacità, profondità e "qualcosa" di inquietante e misterioso. E unico. È come un Charles Manson "buono", uno dei Grateful Dead. Ha sessant’anni compiuti da pochi giorni e l’entusiasmo ed il sorriso di un bambino quando ti spiega - riuscendo a non essere mimimamente retorico - che "la musica è una manifestazione di Dio, dell’energia primaria, o in qualunque modo tu Lo voglia chiamare". Ti vengono in mente le storie lette su di lui. Sono tutte bellissime: a partire da quella di Sister Alicia, la suora che lo ha allevato nell’orfanatrofio dove è vissuto fino all’età di cinque anni. Un’orfanatrofio nella New York degli anni Quaranta non dev’essere davvero stato un gran posto, ma Sorella Alicia non perdeva occasione per tirar fuori il grammofono e organizzare piccole "feste" per i bambini: "si", dice David, "probabilmente è lei che mi ha trasmesso il piacere per la condivisione della musica".

Poi ci sono le storie sulla sua amicizia con il guru lisergico Timothy Leary, sulla decisone (nel 1969) di abbandonare il mondo dei beni materiali, sulle giornate passate immobile nella posizione yoga del loto fino ad essere ricoverato in ospedale vittima di una grave forma di catatonia. Poi il rientro "tra i vivi": il trasferimento a NoHo (North Houston), un’area precedentemente industriale dove - mano a mano che l’industria si trasferiva nel New Jersey - arrivavano gli artisti ed occupavano gli enormi loft dove l’affitto costava (ancora) pochissimo. Il loft di Mancuso era al numero 64 della Broadway. E’ li che - ispirandosi alla tradizione nera dei rent parties (feste private a pagamento che il proprietario di casa teneva per mettere insieme i soldi per pagare l’affitto) - Mancuso comincia a organizzare delle feste. Strettamente su invito: e lui che mette la musica non perchè abbia ambizioni da dj, ma perchè vuole creare un perfetto bozzolo emotivo per i suoi ospiti in ogni singolo momento della serata. "Poi, col tempo, ho capito che c’è come un terzo orecchio che guida l’interazione tra chi mette la musica ed il pubblico", racconta oggi. Il suo club nasce così: si chiama The Loft, una festa in casa, un reale momento di condivisione settimanale al suono del soul e della disco-music degli albori. I testimoni dell’epoca raccontano che Mancuso aveva raggiunto livelli sublimi nel suo obiettivo di costruire il perfetto bozzolo emotivo per i propri ospiti, lavorando sulle luci, l’apertura delle finestre e soprattutto sul suono. Già prima del Loft Mancuso era un frequentatore dell’alta fedeltà: dopo ne diventa il più straordinario esegeta. Al Loft nulla è lasciato al caso: la disposizione degli altoparlanti (Klippschorn, creati negli anni venti dall’ingegnere Paul Klippsch) risponde a precise leggi acustiche, la diffusione del suono è calibrata sin nei minimi dettagli e le puntine dei giradischi sono fatte su misura da una fonderia giapponese specializzata in spade da samurai!
L’ultima leggenda tramandata dice che oggi Mancuso suona raramente in giro perchè il suo dj-set ha un costo esorbitante. E non perchè lui pretenda chissà quale cachet astronomico, ma perchè Mancuso gira il mondo con quegli stessi giradischi, quello stesso amplificatore e quelle stesse casse acustiche che c’erano al Loft. Che poi non è nemmeno esattamente così - non sempre, almeno - però qualcosa di vero c’è. Ed è assolutamente vero che lui è un maniaco del controllo, che arriva nei posti dodici ore prima per sincerarsi che l’impianto sia stato installato secondo le sue scrupolose indicazioni. Ed è anche vero che - per essere un dj - David Mancuso è uno che ama il silenzio. O meglio, il suono silenzioso della natura. Lo ha detto in una storica intervista del 1975 al Village Voice, oggetto di culto tra i suoi fan, ma a chiederglielo lo conferma anche oggi: "la natura è il suono perfetto. Il modo graduale in cui il sole sorge, in cui il calore aumenta fino al mezzogiorno. il modo in cui i grilli cominciano a cantare dopo che ha fatto buio".

Mancuso è stato il primo di una lunga serie di dj quasi tutti - chissà perchè - oriundi italiani che hanno creato da zero la scena "disco" newyorkese negli anni Settanta. A forzare un po’ la storia si potrebbe dire che senza Mancuso non ci sarebbe stato nessuno Studio 54, nessun Danceteria, nessun John Travolta a mimare passi di hustle sulla pista luminosa del 2001 Odyssey. Se Mancuso fu il filosofo, il titolo di prima vera "superstar" spetta però a Francis Grasso, che a differenza di Mancuso, amava - eccome - i riflettori e il loro cono di luce. Atletico, bellissimo, Grasso passava da un flirt con Liza Minelli ad uno con una coniglietta di Playboy: è stato fotografato sulle pagine di Penthouse e nel 1971 ha avuto persino una particina di pochi secondi in un giallo, Klute (con Jane Fonda e Donald Shuterland: Grasso faceva sé stesso dietro la consolle del Sanctuary). Dove Mancuso fu un esploratore ed un selezionatore, Grasso è stato il primo ad intuire come il creare un "flusso" con i propri dischi fosse la chiave per stregare il pubblico giù in pista. La sua stella brillò per dieci anni - dal 1971 fino al 1981 - dietro i giradischi del The Sanctuary, un’antica chiesa battista sconsacrata al 407 di West 43rd Street, a Manhattan, ri-decorata con giganteschi dipinti di diavoli in pose pornografiche e con la consolle del dj sopra quello che nella chiesa era stato l’altare maggiore. Dopo un esordio "misto" in breve The Sanctuary diventò un club gay a tutti gli effetti, attirando una folla che spesso superava di tre volte la capienza massima del locale. Per la gente del vicinato fu come se Sodoma e Gomorra avessero aperto una succursale sotto casa: i vicoli attorno al Sanctuary erano - specie d’estate - una sorta di bordello a cielo aperto, e pure dentro il locale (nonostante una blandamente applicata regola della casa che recitava testualmente: "è severamente vietato scopare sul dancefloor") non è che si andasse giù leggeri. Grasso stesso, narra la leggenda, era solito sfidare le sue groupies a praticargli il sesso orale sotto la consolle mentre lui metteva i dischi, giurando (ed era vero!) che non avrebbe perso il "beat"... E in mezzo a tutto questo inferno c’era pure la mafia portoricana a gestire uno dei traffici di droga più fiorenti che si ricordino a memoria d’uomo. Fu proprio la mafia a segnare la fine di Grasso, facendolo picchiare - lasciandolo in fin di vita e orrendamente sfigurato - quando il dj manifestò il desiderio di lasciare The Sanctuary per aprire un proprio club.

Altro allievo di Mancuso fu Nicky Siano, assiduo frequentatore del Loft del quale copiò puntigliosamente l’impianto di diffusione sonora quando, nel 1973, aprì il proprio locale - The Gallery - in un loft sulla 22a. Nero, con pochissime luci, addirittura un po’ minaccioso, The Gallery era illuminato soltanto dai riflessi di una grossa mirrorball al centro della sala. Siano non fece mai mistero della sua intenzione di ricreare al suo interno l’atmosfera e lo spirito pionieristico del Loft in un contesto, per così dire, più "imprenditoriale". L’altra intuizione vincente fu il cercare di portare il seme della follia e dell’esagerazione che apparteneva ai club gay dentro un contesto eterossuale, e questo a Siano riuscì davvero bene: andare sopra le righe era il suo pane quotidiano, il senso della teatralità gli appartneva sin nel profondo (un quattro di luglio si presentò vestito come la Statua della Libertà!). La scena strettamente gay dal canto suo, cominciando ad annusare i tempi nuovi ed una più rilassata tolleranza nei costumi (il fall-out dei Movimenti di liberazione di fine anni Sessanta unito ad un più genrale ottimismo post-Watergate) non perdeva occasione per riscattarsi di una vita intera di repressione. Nascevano posti dove, secondo il modello inaugurato dal Sanctuary, il confine tra nightclubbing ed orgia era sempre più labile. The Baths ad esempio, tecnicamente poco più che una sauna gay trasformata in discoteca nei fondi dell’Ansonia Hotel, un ex-cabaret tra la 73a e Broadway dove ai tempi aveva debuttato Bette Midler. Oppure il Galaxy 21, sulla 23a, a pochi metri dal Chelsea Hotel: tutto nero, con un ristorante ed una sala-cinema (porno) al piano superiore. O ancora come Le Jardin, inaugurato nel giugno 1973 nei fondi di un hotel a Manhattan (110 West all’incrocio con la 43a) e destinato a diventare il luogo eletto di tutto il jet set omosessuale newyorkese. A differenza di Sanctuary e Baths qui l’ambiente era invece luminosissimo, confortevole, elegante. Non a caso Le Jardin fu l’ispirazione per quello che di lì a poco si sarebbe affermato come la madre di tutti i club newyorkesi (e forse del mondo intero), lo Studio 54.

Il contesto in cui lo Studio 54 debutta è quello di una scena "disco" ormai tutt’altro che underground ed evidentemente destinata a diventare un business gigantesco. Verso la metà degli anni Settanta le "discoteche" ufficialmente censite a New York sono circa 175, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di bar o pizzerie in cui il gestore aggiunge all’arredo una mirrorball e due giradischi. Nei due anni successivi è l’esplosione: le "disco" sbucano un po’ dappertutto, ma soprattutto nella zona delimitata tra Houston, TriBeCa, SoHo e la 12a West, una sorta di quadrilatero del clubbing progressista. Lo Studio 54 apre il 26 aprile 1977 negli spazi di un ex studio televisivo (che prima ancora era stato un teatro) al 254 di West 54th Street. L’idea è di un fotomodello molto in voga nella NY dell’epoca, Uva Harden, il cui ruolo nell’operazione viene però presto ridimensionato dalla presenza di Steve Rubell e Ian Scharger, due trafficoni tirati in mezzo nella disperata ricerca di fondi dopo che i primi finanziatori, due tipi legati al giro delle gallerie d’arte, erano finiti gambe per aria sotto l’accusa di furto da parte dalla vedova del pittore Mark Rothko... L’idea era di non badare a spese pur di riuscire a edificare il definitivo tempio del glamour: e così fu. Per la realizzazione furono consultati i migliori arredatori, architetti teatrali, esperti di luci e illuminazioni abitualmente impiegati a Broadway. Puro stile Versailles: il posto più bello e indimenticabile del mondo. Anche se la ragione per cui lo Studio 54 passerà alla Storia è ovviamente la quantità di V.I.P. e star assortite che la pierre Carmen D’Alessio riusciva sera dopo sera a convogliare dentro lo Studio, e di conseguenza la durissima selezione cui la gente "normale" era sottoposta prima di poter entrare. Le leggende al proposito si sprecano: la più famosa è quella della giovane coppia in viaggio di nozze di cui - sadicamente - lui viene fatto entrare e lei no, e lui pur di non perdere l’occasione la lascia ad aspettare, ancora in abito da sposa, al di là della velvet rope. Oppure quella del desperado senza nome che, respinto all’ingresso, cerca di intrufolarsi attraverso i tubi dell’aria condizionata, rimane bloccato e viene ritrovato solo quando, settimane dopo, il cadavere in putrefazione comincia a puzzare... Oppure ancora quella di Bernard Edwards e Nile Rodgers degli Chic, che rimbalzati una notte all’ingresso nonostante il loro nome fosse in lista tornano a casa e - furibondi - compongono una canzone il cui ritornello dice "fuck off!" (fottiti). Con il testo cambiato in "freak out!" sarebbe in poche settimane diventata il loro più grande successo ed uno degli inni definitivi della disco di ogni tempo.

La filosofia dello Studio 54 era diabolicamente semplice: i "famosi" dentro, tutti gli altri fuori sperando di poter entrare a condividere qualche minuto di glitz & glamour con coloro i cui nomi apparivano sulle cronache mondane dei quotidiani. Andy Warhol, Calvin Klein, Grace Jones, Bianca Jagger... in Rete circola addirittura un foto d’epoca dove si vede lo scrittore William Burroughs accanto ad una Madonna ancora adolescente! E’ evidente come pochi anni fossero bastati a rovesciare completamente la filosofia del Loft: lì la missione era condividere, evangelizzare; qui lo scopo è rinforzare lo status dei "famosi" rispetto ai non-famosi. "Poichè la clientela qui da noi è parte dello spettacolo, dobbiamo essere molto selettivi su chi lasciare entrare e chi no" dichiarò Rubell all’epoca. E a complicare ancora più le cose ad un certo punto arriva anche il film di John Badham (liberamente tratto da un racconto di Nik Cohn), La Febbre Del Sabato Sera. Di fatto un musical, ma con un tiro neorealista urbano e una assai seducente morale a sorreggerlo: non importa che sei, non importa se nella vita sei una di quelle figure sociali tradizionalmente marginalizzate (chicano, oriundo italiano, ragazzo della classe lavoratrice...). La pista da ballo può essere per te "la" chance di esserci, di finire sotto i riflettori: sia pure per finta, sia pure solo per poche ore. La premiére del film è il 16 dicembre 1977, e poche settimane di programmazione bastano a creare un fenomeno di costume, a mandare la colonna sonore in cima alle classifiche in tutto il mondo (30 milioni di copie, record superato solo da Thriller di Michael Jackson) ed a fare del coattissimo-dal-cuore-d’oro John Travolta/Tony Manero il beniamino delle periferie. Il contraccolpo sul clubbing newyorkese è ovviamente ciclopico: aprono nuovi posti, decine e decine, alcuni dei quali vivono semplicemente raccogliendo le briciole dello Studio 54, cioè funzionando come "seconda scelta" per quelli che sono stati rimbalzati dalla velvet rope di Carmen D’Acquisto... E’ il caso dello Xenon, che stava proprio dietro Times Square e dove il dj era l’allora fidanzato (e futuro scopritore) di Madonna, Jellybean Benitez; o del New York New York sulla 52a.

Ovviamente un’espansione di questa portata non poteva durare in eterno. Nel 1978 già si colgono le avvisaglie di quella che un bel film di Whit Stillman del 1998 chiama The Last Days Of Disco, gli ultimi giorni della disco: i primi segnali di disaffezione da parte dell’intellighenzia radical-chic, un ancora impercettibile calo di consensi, una minore tolleranza verso eccessi e leggerezze in campo amministrativo da parte dei tutori dell’ordine. Il 14 dicembre gli agenti federali sferrano il primo attacco allo Studio 54: la leggenda dei sacchi della spazzatura pieni di banconote che ogni notte uscivano dalla porta sul retro per finire direttamente a casa di Rubell senza che il fisco avesse la sua parte non era tutto sommato solo una leggenda. Esattamente un anno dopo Rubell e Scharger finiscono in galera per evasione fiscale aggravata e continuata. Il club cambierà proprietà e verrà poco dopo riaperto, ma non riuscirà a ricostruire che una pallida imitazione della magia di "prima". L’ultima fiammata della disco a New York è l’apertura, il 20 settembre 1980, del The Saint, tra la 2a e la 6a, nei locali che fino a poco tempo prima avevano ospitato lo storico locale rock Fillmore East. Costato più di quattro milioni di dollari, The Saint tornava a rivolgersi ad un pubblico unicamente gay cui venivano garantite privacy e tranquillità (ed cui veniva chiesta una membership di 250 dollari all’anno). Nel suo dancefloor sovrastato da una calotta del diametro di 76 piedi non si ballava più la "disco", ma il nuovo suono dance dalle influenze ispaniche. Altrove, come al Danceteria, erano invece la new wave europea ed il punk intellettuale dei Talking Heads a spopolare. Gli anni settanta newyorkesi avevano ancora giusto una carta da giocare: il Paradise Garage, aperto nel 1977 dentro un ex-garage a West SoHo e rimasto l’ultimo rifugio per la comunità gay orfana di quel senso di libertà e sfida alle convenzioni che era stata la "scena" fino a qualche anno prima. Il suo dj, Larry Levan, è un’altra figura leggendaria e qualcuno lo ha definito "il Jimi Hendrix dei dj". Chiuso il Paradise, nel 1987, è come fossero definitivamente finiti anche gli anni Settanta, con il loro carico di sogni meravigliosamente edonisti e speranze insoddisfatte. Sarà per questo che, racconta Mancuso, "ancora adesso capita che qualcuno, specie europeo, vada nel luogo dove c’era il Paradise a vedere cos’è rimasto". E cos’è rimasto allora? Mancuso accenna un sorriso pieno di comprensione: "Automobili. Camion. Lo hanno ritrasformato in un garage".

(da: Rolling Stone, marzo 2005)