My Bloody Valentine: caldo come la neve (ma soffice dentro)
 

di: Fabio De Luca




La migliore definizione resta quella pronunciata da Kevin Shields nel 1991 e riportata su Rumore circa un anno fa all’interno di un servizio sugli anni d’oro della Creation: "Ognuno degli strumenti che usiamo - chitarre Jaguar, amplificatori Vox e Marshall, effetti - già esisteva negli anni Sessanta. Potenzialmente i nostri dischi sarebbero potuti uscire perfettamente uguali già negli anni Sessanta. La tecnologia è la stessa, è la nostra attitudine a fare la differenza". I My Bloody Valentine sono stati uno dei "grandi gruppi" della storia recente del rock. Sfortunatamente, in tempi in cui tutto già era stato detto e fatto dieci o quindici anni prima, la dimensione della loro grandezza fu destinata ad essere assai ridimensionata in termini assoluti. Sapete: la famosa storia degli innovatori la cui innovazione è ormai di rado più che puntiforme, per cui "non nasceranno mai più dei Beatles", al massimo un Cornelius ogni tanto. Vogliamo dunque, qui, fare giustizia. Vogliamo che - se siete venuti al mondo con Belle & Sebastian o con gli And You Will Know Us By The Trail Of Dead e non avete mai sentito nessun disco dei MBV - corriate a procurarvelo ora: Quelli "veri" sono solo due, ve la cavate con poco e vi mettete in casa (come dicono gli imbonitori di Telemarket) un’opera d’arte che vi dura tutta la vita. Immaginate l’anello di congiunzione, se mai uno ne è esistito, tra Jesus & Mary Chain e Sonic Youth. Anzi, lasciate perdere: tanto è impossibile parlare di loro senza infilarsi in complessi tour de force retorici. Tentare di "definire" i My Bloody Valentine è da sempre più che letteratura: è uno sport estremo, il bungee-jumping del giornalismo rock. Fondamentalmente inutile: ma una botta di adrenalina...

"Agli inizi ci interessava il lato surreale dei Ramones" (Kevin Shields). Dublino 1983: all’inizio - credeteci o no - i MBV sono un nome fra i tanti della scena "gothic" legata al londinese Batcave. Sono in quattro: Kevin Shields, nato a Dublino ma cresciuto a New York, Colm O’Ciosoig più altri due amici. Registrano un paio di singoli e un album (a Berlino!), This Is Your Bloody Valentine. Arrivano a Londra nell’85, e per quattro anni gravitano nel circuito degli squatters. In quel periodo ai due membri fondatori della band si uniscono le ragazze Bilinda Butcher e Debbie Googe. La frequentazione della scena londinese allora di moda (sintetizzata sotto la sigla "C86" dal nome di una compilation riassuntiva del NME) li porta a staccarsi gradualmente dalle radici gotiche ed a cominciare ad affacciarsi al sentiero psycho-pop-rock aperto da Primal Scream e (soprattutto) Jesus & Mary Chain.
Qualcosa scatta. L’album Isn’t Anything (1988) è il loro ground-zero: innanzitutto rumore, che è capace di stenderti a terra ed al tempo stesso scagliarti verso l’alto come un pupazzo, e in questo senso i canoni del rock sono rispettati. Ma c’è di più. Le canzoni di MBV hanno la capcità di farti levitare: hanno - disciolto al loro interno - quell’elemento etereo che fu ad esempio della migliore wave post-romantica di pochi anni prima (Cocteau Twins tanto per fare un nome). E dunque tutto si complica. Il perfetto bilanciamento tra rumore bianco e melodia pop - quasi "canzone", nel senso alto di un Phil Spector - chiama ovviamente subito in causa i Velvet Underground, ma i MBV sono un’altra cosa: anche nei pezzi più strutturati in senso "rock" - (Whe You Wake) You’re Still In A Dream, la stupenda Feed Me With Your Kiss - vince comunque il flusso, il magma indistinto da cui però, sorprendentemente, tutti o quasi gli elementi emergono perfettamente delineati. Non è il caos anarchico contrapposto alla salvezza scesa dal paradiso del primo album dei Velvet, e non è nemmeno la rustica algebra Ramones + Ronettes dei momenti migliori dei Jesus & Mary Chain. E’ un’altra cosa, che è difficilissimo definire senza cadere in complicati sofismi teorici (c’è chi ci ha provato chiamando in causa l’interazione dei due principi, quello maschile e quello femminile: idea non male).
C’è evidentemente una tensione tra due poli - banalmente: il rumore bianco e la melodia, l’indistinto ed il perfettamente definito - ma è proprio qui che è possibile cogliere come la nozione di "pop" sia qualcosa di estremamente complesso nei MBV. Perchè, a differenza di quanto già accadeva con il 90% dello psycho-pop dell’epoca ed ancor di più accadrà con i loro numerosi imitatori, l’origine del suono dei MBV non è il corpo nudo di una "canzone" fatto intuire come in uno strip-tease tra sventagliate di rumore bianco, ma l’esatto contrario: un magma caotico da cui viene curiosamente, chissacome, generata della melodia che curiosamente prende talvolta la forma di una canzone. E’ pop nel quale "l’oggetto del desiderio scivola lontano, fuori dalla portata, diventando sempre più allucinatorio, fino ad essere intransitivo e auto-consumante" (Simon Reynolds). Sono "quei pensieri mezzi abbozzati che ronzano in testa come rumore di fondo, e che il linguaggio che utilizziamo di solito per parlare di musica non è in grado di descrivere" (Jon Savage). Sono gli "ibridi del Quarto Mondo" (David Toop). E’ "l’inverso esatto del pop "sovraesposto"" (ancora Savage).

Curiosità: con le prime 5000 copie di Isn’t Anything viene distribuito un 7" contenente uno strumentale (intitolato, guarda un po’, Instrumental) interamente costruito sul loop di batteria di Security Of The First World dei Public Enemy. Incidentalmente, è lo stesso loop che qualche tempo dopo anche Madonna ruberà per Justify My Love. Giusto per dire: la prima volta che i MBV si sporcano le mani con un campionatore, e guarda un po’ cosa ti vanno a prendere... Comunque: al di là del fatto che da ora in avanti anche la tecnologia diventerà una costante nel loro suono smentando in parte il motto riportato in apertura (ma sarà solo un "aiuto" specificherà Shields, mai una struttura portante), l’approccio dei MBV con la materia musicale rimane lo stesso. I tre anni tra Isn’t Anything e Loveless sono spesi a rifinire la tecnica come dimostra ad esempio il singolo intermedio Tremolo EP, nel quale To Here Knows When curva il caos di intricati strati sovrapposti di chitarre e ritmi verso il plateau rappresentato dalla solita voce di bronzo di Bilinda Butcher: un trucco utilizzato dai MBV diverse altre volte (Come In Alone su Loveless, ad esempio) ma qui portato all’estremo, con i suoni che sembrano uscire fuori da una radio AM da quattro soldi mentre ci sono volute sei settimane solo per registrare la base ritmica (dove la fine di ogni singolo loop si fonde con il "rombo" sullo sfondo...). Il risultato sono quei "livelli di disrealtà" che tanto hanno affascinato Simon Reynolds (ed anche noi, se è per quello). E circa la voce, naturale contralto al white noise degli strumenti, sentite l’opinione della diretta interessata: "Le parti vocali di solito le registriamo verso le 7.30 di mattina" dice Bilinda. "In genere io sto dormendo, e gli altri mi svegliano per cantare". Shields è appena più analitico: "Ray Davies, Syd Barret... c’era questa specie di pigrizia nel loro modo di cantare, come se la voce uscisse fuori senza nessuna intenzione precisa. Era l’esatto contrario di un Bono oggi, con tutta quella passione esasperata" (se mai servisse un manifesto della filosofia "shogazer", come vennero battezzati dalla stampa inglese MBV e i loro epigoni, "quelli che suonano guardandosi la punta delle scarpe"). Geniali re Mida, anche quando confezionano il più lucido ibrido tra dance-music e indie-rock mai apparso sugli scaffali di Supporti Fonografici, quella Soon (poi resa ancor più dance da un epocale remix di Andy Weatherall) destinata a fare terra bruciata di tutto il sound di Mad-Chester. Geniali di una genialità in egual misura fisica ed intellettuale. Ed impossibili da immaginare oggi, purtroppo: perchè in fondo al loro tunnel, oltre le paludi di magma sonoro appestate di sado-maso e pulsioni di morte, c’era comunque, sempre, una luce. Di quanti radicali estremisti (o rarefatti neo-acustici) potreste dirlo per certo, oggi?

(da: Rumore, maggio 2002)