We didn’t call it “blog” at that time/5 L’idea era devolvere il pomeriggio alla causa del film-del-momento-di-cui-tutti-parlano (Titanic), così finalmente anch’io-ne-potrò-parlare. Invece no, perchè come evidente conseguenza del fatto che tutti ne parlano un’ora prima dello spettacolo già non c’erano più biglietti. Così ho lasciato la macchina e ho preso il metrò, e sono andato in quello che per me è da sempre una specie di santuario, il vero Vaticano di Roma (credo addirittura di avere dei ricordi in proposito risalenti a quando avevo cinque anni o forse addirittura meno): l’Eur. Stranamente in tre anni che sto a Roma non ci sono mai stato. Soltanto passato in macchina, un paio di volte.
L’Eur è un posto fantastico e spaventoso. Un posto figlio della space-age, impregnato della modernità come se l'erano immaginata (e di conseguenza ce l'avevano fatta credere) trent'anni fa gli ingegneri e gli architetti del boom. Una generazione cresciuta con le canzoni in cui la luna è la confidente degli innamorati che ad un certo punto assiste, in tivù, allo sbarco dell’uomo sulla luna. Roba che innesca grandi fantasie, grandi speranze che poi è difficile mantenere. E così ecco l’Eur. Un posto che oggi, a trent’anni dalla sua creazione, emana in egual misura sogno e disillusione, speranza e delusione. In quel laghetto triste di fronte al palazzo dell'Eni, nei grattacieli smangiati dall'inquinamento, in quelle favolose strade a tre corsie larghissime, in quei praticelli inclinati come una valletta della felicità, nella sensazione (così poco “italiana”) che tutti i singoli pezzi del tessuto urbano - che a occhio sembrano così vicini - siano in realtà irragiungibili a piedi. In tutto ciò è come se ancora sopravvivesse il sogno ipertecnologico, ma ricondotto al più sordo realismo. Con in più l’amara sensazione che qualcosa sia andato storto. All’Eur ti senti sulla luna anche perchè - a parte la piazza di fronte alla stazione del metrò - ti sembra di essere completamente solo. Tu e qualche tonnellata di vetro. Che in lontananza ti fa immaginare il ronzio del fatturato delle decine di centinaia di Windows ’95 installati dietro le vetrate a specchio dei palazzi dirigenziali, ma una volta che ci sei in mezzo quello che arriva più forte è la puzza di piscio dei razionalissimi cavalcavia, i cocci di vetro ed i fazzolettini sporchi di sangue lungo le scale, la folla di argentini e filippini al McDonald fuori dal metro Fermi, la baracchetta delle t-shirts e degli orologi-patacca il cui sound-system manda una specie di straordinario Max Pezzali yugoslavo.
Fa bene toccare con mano il fallimento dei sogni di cui ci si è nutriti sin da bambini. Aiuta a diventare degli uomini migliori. O forse quello che affascina è vedere come anche i propri ideali estetici siano in realtà deperibili, mortali: come te insomma. Non poi così tanto “ideali”, alla fine.
(Eppure il sogno di vederli dall'alto, quei palazzi di vetro e quei grattacieli; volandoci sopra, di notte, illuminati solo dai neon dei lampioni...)
La conclusione è che ogni problema è quasi sempre un problema di “adattamento”. Per questo i luoghi, le musiche e più in generale le estetiche che provano a ricostruire il futuro così come ce l'eravamo immaginato prima che diventasse presente hanno ancora la capacità di sedurre e tranquillizzare. Perchè alla fine dei conti hanno un messaggio rassicurante da darci: «ehi, hai visto? Dopo tutto c'è ancora un sogno, un futuro nel quale credere, sempre lo stesso di sempre, ma c'è».
(domenica 8 febbraio 1998)
[tanto per riportare tutto nel suo giusto contesto: il 1997/98 era l’epoca in cui gli Stereolab ancora dettavano legge, l’epoca della riflessione sull’exotica e sul mistero di come l’estetica space-age dei nostri padri potesse ancora affascinare anche noi figli. E non ho la minima idea di cosa intendessi quando ho ho scritto che: «ogni problema è quasi sempre un problema di “adattamento”»...] |
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