A proposito, i White Stripes Get Behind Me Satan [voto: 4,5/5] Per capirci qualcosa bisognerebbe stare, alla John Malkovich, dentro la testa di Jack White. Là dove i neuroni sotto pressione hanno concepito quest’album, il più rischioso di tutti quelli venuti prima, quello che doveva dimostrare al mondo che dopo Elephant i White Stripes potevano fare ancora un ulteriore passo avanti. In che direzione era tutto da vedere: intanto il pezzo che apre il disco, Blue Orchid, lo ascolti e dopo due secondi realizzi che sembra un pezzo dei Daft Punk. Minimale, robotico, aggressivo: un riff di chitarra rugginosa ripetuto per due minuti e trentasette, la batteria che è appena un clock (ma quando parte sembra la batteria di un gruppo afro-funk), Jack che pare Robert Plant. E a questo punto tutto torna: il minimalismo, il profilo basso, il fatto di averlo registrato in due settimane («recorded in Detroit, mixed in Memphis»). La teoria che i White Stripes fossero una sorta di Kraftwerk del 2000 (il rifarsi ad una tradizione folk/operaia vissuta come eroica, il rigore costruttivista, la radicale scelta cromatica negli abiti...) è superata dagli eventi: i White Stripes sono i nuovi Daft Punk, molto più avanzati e stilosi di quelli vecchi. Più che la prosecuzione di Elephant e della sua scommessa di prendere il dna hillbilly-blues facendone moneta corrente, Get Behind Me Satan è il gemello riuscito di Human After All: un album “povero”, fatto esattamente come lo si sarebbe fatto trentacinque anni fa, con gli stessi strumenti e con la stessa attitudine, e che però esce più moderno del più moderno dei dischi di frontiera usciti stamattina. Come ci riusciranno? Sono loro, ecco come. Sono quelli che - ben prima di Seven Nation Army, ben prima del successo di massa - hanno affrontato il main-stage di Reading, loro due da soli, chitarra e batteria, uscendone trionfatori. Sono un mondo a parte, le convenzioni di spazio, tempo, materia e velocità per loro è come se valessero un po’ meno che per gli altri. Scrivono la miglior cosa pop dai tempi di Burt Bacharach (Forever For Her) e contemporaneamente una non-canzone come The Nurse (lenta, quasi art-pop europeo con quella chitarra che pare una Kawasaki imballata). Incollano blues, shuffle, oggettistica beat e trenta secondi in cui Meg riassume cinquant’anni di girl-pop (Passive Manipulation). Senza mai essere nè ostentati né pretenziosi: alla fine il vero miracolo è questo. (da: Rolling Stone, giugno 2005) |
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